Un paese

 

” L’altr’anno, quando tornai la prima volta in paese, venni quasi di nascosto a rivedere i noccioli. La collina di Gaminella, un versante lungo e ininterrotto di vigne e di rive, un pendio cosí insensibile che alzando la testa non se ne vede la cima — e in cima, chi sa dove, ci sono altre vigne, altri boschi, altri sentieri — , era come scorticata dall’inverno, mostrava il nudo della terra e dei tronchi. La vedevo bene, nella luce asciutta, digradare gigantesca verso Canelli dove la nostra valle finisce. Dalla straduccia che segue il Belbo arrivai alla spalliera del piccolo ponte e al canneto. Vidi sul ciglione la parete del casotto di grosse pietre annerite, il fico storto, la finestretta vuota, e pensavo a quegli inverni terribili. Ma intorno gli alberi e la terra erano cambiati; la macchia di noccioli sparita, ridotta una stoppia di meliga. Dalla stalla muggí un bue, e nel freddo della sera sentii l’odore del letame. Chi adesso stava nel casotto non era dunque piú cosí pezzente come noi. M’ero sempre aspettato qualcosa di simile, o magari che il casotto fosse crollato; tante volte m’ero immaginato sulla spalletta del ponte a chiedermi com’era stato possibile passare tanti anni in quel buco, su quei pochi sentieri, pascolando la capra e cercando le mele rotolate in fondo alla riva, convinto che il mondo finisse alla svelta dove la strada strapiombava sul Belbo. Ma non mi ero aspettato di non trovare piú i noccioli. Voleva dire ch’era tutto finito. La novità mi scoraggiò al punto che non chiamai, non entrai sull’aia. Capii lí per lí che cosa vuol dire non essere nato in un posto, non averlo nel sangue, non starci già mezzo sepolto insieme ai vecchi, tanto che un cambiamento di colture non importi. (…) Cosí questo paese, dove non sono nato, ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo l’ho visto davvero e so che è fatto di tanti piccoli paesi, non so se da ragazzo mi sbagliavo poi di molto. Uno gira per mare e per terra, come i giovanotti dei miei tempi andavano sulle feste dei paesi intorno, e ballavano, bevevano, si picchiavano, portavano a casa la bandiera e i pugni rotti. Si fa l’uva e la si vende a Canelli; si raccolgono i tartufi e si portano in Alba. C’è Nuto, il mio amico del Salto, che provvede di bigonce e di torchi tutta la valle fino a Camo. Che cosa vuol dire? Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non è facile starci tranquillo. Da un anno che lo tengo d’occhio e quando posso ci scappo da Genova, mi sfugge di mano. Queste cose si capiscono col tempo e l’esperienza. Possibile che a quarant’anni, e con tutto il mondo che ho visto, non sappia ancora che cos’è il mio paese?”

Cesare Pavese, da “La luna e i falò”

 

 

Nient’altro che l’estate

 

” Nella stanchezza mi riusciva facile non pensare alla notte, ai disordini, ai singhiozzi di Rosalba, e sprofondavo in quel cielo che avevo sognato nel dormiveglia sotto la luce fresca, indugiavo nelle viuzze del paese, guardavo all’insú. Li conoscevo questi borghi ammucchiati nelle campagne. Conoscevo l’orto estivo della casa dei vecchi dove i miei mi mandavano a far campagna da ragazzo, un paese in pianura, tra rogge e siepi d’alberi, dai vicoli coi portici bassi e le fette di cielo altissime. Della mia infanzia non mi restava altro che l’estate. Le vie strette che sbucavano nei campi da ogni parte, di giorno e di sera, erano i cancelli della vita e del mondo. Gran meraviglia se un’automobile strombettante, giunta da chi sa dove, traversasse il paese sulla strada maestra e dileguasse chi sa dove verso nuove città, verso il mare, sconvolgendo ragazzi e polvere. Mi tornò in mente nel buio quel progetto di traversare le colline, sacco in spalla, con Pieretto. Non invidiavo le automobili. Sapevo che in automobile si traversa, non si conosce una terra. «A piedi, — avrei detto a Pieretto, — vai veramente, in campagna, prendi i sentieri, costeggi le vigne, vedi tutto. C’è la stessa differenza che guardare un’acqua o saltarci dentro. Meglio essere pezzente, vagabondo». Pieretto rideva nel buio e mi diceva che dappertutto nel mondo è benzina. “

Cesare Pavese, da “Il diavolo sulle colline”

 

 

La luna di settembre

 

” Una sera sorgeva la luna, sul ciglio della collina. Gli alberelli lontani erano neri; la luna, enorme, matura. Ci fermammo. Io dissi: – Tutti gli anni, a settembre, la luna è la stessa, eppure mai che me ne ricordi. Tu lo sapevi ch’era gialla? L’ amico guardò la luna, e ci pensava. Mi pareva davvero di non averla mai vista così, ma insieme di averne in bocca il sapore, di salutare in lei qualcosa di antico, d’ infantile, tanto che dissi: – E’ una luna da vigna. Da bambino credevo che i grappoli d’uva li faccia e li maturi la luna. – Non so, – disse l’amico. – Per me è sempre la stessa. Ora il brivido mi aveva lasciato e la luna col suo sapore di vendemmia ci guardava entrambi come una creatura che conoscevo e ritrovavo. E, come una creatura, il suo passato non contava per me ch’ero giovane e avrei potuto andarle incontro e parlarle, e salire fin lassù fra gli alberelli, nei dolci vapori estivi ch’erano sempre stati e non invecchiano mai. L’ amico taceva, e io pensavo già al piacere che avrei provato l’ indomani portando in me sotto il sole la certezza che anche la notte è viva. Così quei giorni mi passavano, monotoni e freschi, nella loro novità. Non sapevo che la loro tumultuosa baldanza l’avrei vista un giorno come un fermo ricordo. “

Cesare Pavese, da “Feria d’agosto”

Le Frasi

 

L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante. “

(Cesare Pavese)

Andar per funghi

 

” Sono i giorni più belli dell’anno. Vendemmiare, sfogliare, torchiare non sono neanche lavori; caldo non fa più, freddo non ancora; c’è qualche nuvola chiara, si mangia il coniglio con la polenta e si va per funghi. Noialtri andavamo per funghi là intorno; Irene e Silvia combinarono con le loro amiche di Canelli e i giovanotti di andarci in biroccino fino a Agliano. Partirono una mattina che sui prati c’era ancora la nebbia; gli attaccai io il cavallo, dovevano trovarsi con gli altri sulla piazza di Canelli. (…) Quel giorno venne un grosso temporale, lampi e fulmini come d’agosto. Cirino e la Serafina dicevano ch’era meglio la grandine adesso sui funghi e su chi li cercava che non sul raccolto quindici giorni prima. Non smise di piovere a diluvio neanche nella notte. Il sor Matteo venne a svegliarci con la lanterna e il mantello sulla faccia, ci disse di stare attenti se sentivamo il biroccio arrivare, non era tranquillo. Le finestre di sopra erano accese; l’Emilia corse su e giù a fare il caffè; la piccola strillava perché non l’avevano portata a funghi anche lei.”

 

Cesare Pavese, da “La luna e i falò”

 

 

 

 

 

 

La bella estate

 

” A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e traversare la strada, per diventare come matte, e tutto era cosí bello, specialmente di notte, che tornando stanche morte speravamo ancora che qualcosa succedesse, che scoppiasse un incendio, che in casa nascesse un bambino, e magari venisse giorno all’improvviso e tutta la gente uscisse in strada e si potesse continuare a camminare fino ai prati e fin dietro le colline. – Siete sane, siete giovani, – dicevano, – siete ragazze, non avete pensieri, si capisce –. Eppure una di loro, quella Tina che era uscita zoppa dall’ospedale e in casa non aveva da mangiare, anche lei rideva per niente, e una sera, trottando dietro gli altri, si era fermata e si era messa a piangere perché dormire era una stupidaggine e rubava tempo all’allegria. “

 

Cesare Pavese, da “La bella estate”

 

 

 

 

 

La vigna

 

” Una vigna che sale sul dorso di un colle fino a incedersi nel cielo, è una vista familiare, eppure le cortine dei filari semplici e profonde appaiono una porta magica. Sotto le viti la terra rossa è dissodata, le foglie nascondono tesori, e di là dalle foglie sta il cielo. (…) Solamente un ragazzo la conosce davvero; sono passati gli anni, ma davanti alla vigna l’uomo adulto contemplandola ritrova il ragazzo. Ma nulla è veramente accaduto e il ragazzo non sapeva di attendere ciò che adesso sfugge anche al ricordo. (…) Un semplice e profondo nulla, non ricordato perché non ne valeva la pena, disteso nei giorni e poi perduto, riaffiora davanti al sentiero, alla vigna, e poi si scopre infantile, di là dalle cose e dal tempo, com’era allora che il tempo per il ragazzo non esisteva. E allora qualcosa è davvero accaduto. E’ accaduto un istante fa, è l’istante stesso: l’uomo e il ragazzo s’incontrano e sanno e si dicono che il tempo è sfumato. L’uomo sa queste cose contemplando la vigna. E tutto l’accumulo, la lenta ricchezza di ricordi d’ogni sorta, non è nulla di fronte alla certezza di quest’estasi immemoriale. Ci sono cieli e piante, e stagioni e ritorni, ritrovamenti e dolcezze, ma questo è soltanto passato che la vita riplasma come giochi di nubi. La vigna è fatta anche di questo, un miele dell’anima, e qualcosa nel suo orizzonte apre plausibili vedute di nostalgia e speranza. (…) E non accade nulla, perché nulla può accadere che sia più vasto di questa presenza. Non occorre nemmeno fermarsi davanti alla vigna e riconoscerne i tratti familiari e inauditi. Basta l’attimo dell’incontro. “

 

Cesare Pavese, estratto da “La vigna” (novella contenuta in “Feria d’agosto”)