Lo spirito del duende

 

“Chi si trova sulla pelle di toro che si stende tra lo Jùcar, il Guadalfeo, il Sil o il Pisuerga (non voglio menzionare grossi corsi d’acqua vicino alle onde color criniera di leone agitate dal Plata), sente dire con relativa frequenza: “Questo ha molto duende”. Manuel Torres, grande artista del popolo andaluso, diceva a uno che cantava: “Hai voce, conosci gli stili, ma non avrai mai successo perchè non hai duende“. In tutta l’Andalusia, roccia di Jaén o conchiglia di Cadice, la gente parla costantemente del duende e lo riconosce con istinto efficace non appena compare. Il meraviglioso cantaor El Lebrijano, creatore della Debla, diceva: “I giorni in cui canto con duende, non mi supera nessuno”; un giorno sentendo Brailowsky che suonava un frammento di Bach, la vecchia ballerina gitana La Malena esclamò “Olé! Questo sì che ha duende“, e si annoiò con Gluck e con Brahams e con Darius Milhaud; e Manuel Torres, l’uomo con più cultura nel sangue che io abbia mai conosciuto, quando ascoltò Falla in persona che eseguiva il suo Nocturno de Generalife, disse questa splendida frase: “Tutto quel che ha suoni neri ha duende”. E non c’è verità più grande. Questi suoni neri sono il mistero, sono le radici che sprofondano nel limo che tutti conosciamo, che tutti ignoriamo, ma da cui ci giunge quanto è sostanziale nell’arte. Suoni neri, disse l’uomo popolare di Spagna, e si trovò d’accordo con Goethe, che offre una definizione del duende quando parla di Paganini, e dice: “Potere misterioso che tutti sentono e nessun filosofo spiega”. Ebbene, il duende è un potere e non un agire, è un lottare e non un pensare. Ho sentito dire da un vecchio maestro di chitarra: il duende non sta nella gola; il duende monta dentro, dalla pianta dei piedi”. Vale a dire, non è questione di capacità, ma di autentico stile vivo; vale a dire, di sangue; di antichissima cultura e, al contempo, di creazione in atto. Questo “potere misterioso che tutti sentono e nessun filosofo spiega è, in definitiva, lo spirito della Terra, lo stesso duende che infiammò il cuore di Nietzsche, il quale lo cercava nelle sue forme esteriori sul ponte di Rialto o nella musica di Bizet, senza trovarlo e senza sapere che il duende che egli inseguiva aveva spiccato un salto dai misteri greci alle ballerine di Cadice o al dionisiaco grido sgozzato della siguiriya di Silverio. Ebbene, non voglio che nessuno confonda il duende con il demone teologico del dubbio, contro il quale Lutero, con sentimento bacchico, scagliò una boccetta di inchiostro a Norimberga, nè con il diavolo cattolico, distruttore e poco intelligente, che si traveste da cagna per entrare nei conventi, nè con la scimmia parlante che porta con sè il Malgesì di Cervantes nella Comedia de los celos y la selva de Ardenia. No. Il duende di cui parlo, oscuro e trepidante, è un discendente di quell’ allegrissimo demone di Socrate, marmo e sale, che lo graffiò indignato il giorno in cui bevve la cicuta, e dell’altro malinconico diavoletto di Cartesio, piccolo come una mandorla verde, il quale, stufo di cerchi e linee, andava sui canali per sentir cantare i grandi marinai indistinti.”

Federico Garcìa Lorca, da “Gioco e teoria del duende”

 

 

Che cos’è il “duende”, un termine che riecheggia costantemente nella cultura andalusa? Ho lasciato ampio spazio alla definizione di Federico Garcìa Lorca, esauriente e significativa. Perchè spiegare il duende a parole non è facile. Lo si associa di frequente al flamenco: un ballo che è puro pathos, una potente quanto autentica espressione di emozioni; in grado di suscitare stati d’animo molto intensi e una vibrante partecipazione. Il duende cattura lo spettatore con una travolgente miscela di passione, evocatività, carisma, feeling in dosi massicce. Un artista che ha duende tocca le corde della tua anima ed è capace di darti i brividi, di trascinarti nel vortice della sua straordinaria, innata abilità espressiva.

 

 

Il duende, per Garcìa Lorca, è lo spirito della terra: un potere misterioso e profondo che parte dalle viscere. E’ amore e morte, tragedia e commedia, scorre nel sangue ed ha radici antichissime. Il suo legame con il folklore andaluso è inscindibile. Basti pensare che se ne rinvengono le prime tracce nel “Cante Jondo”, lo straziante canto di matrice gitana accompagnato dalla chitarra. Le influenze arabe e persiane sono molteplici, affiancate a vocalizzi ancestrali e della tradizione liturgica bizantina. D’altronde, nel corso dei secoli, in Andalusia si sono avvicendate e fuse innumerevoli culture. “Tener duende” non ha nulla a che fare con i virtuosismi, con un’ esecuzione perfetta. E’ una passione che arde dentro, una dote quasi sacrale.

 

 

Ma perchè oggi pubblico queste riflessioni sul duende? E’ molto semplice: sono l’introduzione ad un articolo che vedrà protagonista l’Andalusia, in particolare un tema specifico inerente questa affascinante regione della Spagna del Sud. Stay tuned su VALIUM per saperne di più…

 

 

Foto della “bailaora” sotto il testo di Federico Garcia Lorca: Imbi24, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

 

La colazione di oggi: la melagrana, un frutto magico e portafortuna

 

La melagrana (e non il melograno, che è il nome della pianta) è un tipico frutto autunnale; matura a Ottobre ed ha un aspetto molto particolare. Il suo nome, composto dai termini latini “melum” (ovvero “mela”) e “granatum” (“con semi”), è indicativo: a vedersi sembra una mela, alla quale lo accomunano la forma sferica e il rosso intenso della buccia, ma in realtà è una bacca – chiamata Balausta – dalla texture dura e massiccia. Sul lato opposto a quello del picciolo presenta una protuberanza circolare molto solida che altri non è che una rimanenza del suo calice floreale. All’ interno, la melagrana è suddivisa in sezioni che straripano di semi (gli arilli); la membrana che separa gli scomparti porta il nome di cica. Il melograno, l’albero dal quale la melagrana matura, in botanica è denominato Punica Granatum, appartiene alla famiglia delle Punicaceae e al genere Punica. La pianta è originaria della Persia e attualmente viene coltivata in Iran, nell’ India settentrionale, nel Caucaso e nel Mediterraneo. Per le sue proprietà e per i benefici che apportano, la melagrana è considerata un frutto miracoloso, addirittura magico: possiede potenti virtù antiossidanti e c’è chi la ritiene efficacissima persino contro il cancro.

 

 

Ma quali sono i componenti che la rendono così salutare? Innanzitutto le vitamine, in particolare la vitamina e pro-vitamina A e la vitamina C: quest’ ultima svolge un’azione rafforzante sul sistema immunitario e protegge le cellule dai nefasti effetti dello stress ossidativo; impedendo la sintesi delle sostanze cancerogene, poi, pare che contrasti l’ insorgere dei tumori, soprattutto di quello allo stomaco. Gli arilli abbondano di acqua, zuccheri, fibre, proteine, lipidi e grassi insaturi, che riducono i livelli di colesterolo LDL (il cosiddetto “colesterolo cattivo”) a favore del colesterolo HDL (il “colesterolo buono”). La melagrana è inoltre ricca di minerali come il potassio, il sodio, il fosforo, il ferro e il magnesio. Le calorie sono piuttosto contenute, tra le 52 e le 60 per ogni 100 grammi. Di conseguenza, se non soffrite di patologie come il diabete o l’obesità, gustare il frutto non ha controindicazioni di sorta. La presenza di fibre lo rende ottimo contro la stipsi, il potassio modula la pressione sanguigna, l’acqua combatte la disidratazione e reintegra i liquidi persi, ad esempio, con un’ intensa attività sportiva.  Altri benefici della melagrana possono essere riassunti in questo elenco: ha proprietà antidiarroiche, vermifughe, gastroprotettive, diuretiche, antitrombotiche e vasoprotettrici grazie a  una massiccia presenza di flavonoidi. La spremuta e il liquore di melagrana sono bevande ideali per usufruire al meglio delle sue doti salutari, ma esistono pietanze a miriadi che prevedono l’ utilizzo del frutto.

 

 

Con la Balausta, tra l’altro, si prepara una deliziosa marmellata: è decisamente perfetta per la prima colazione. La melagrana può essere mangiata al naturale oppure usata per guarnire i dolci, le torte, le crostate e la macedonia. Innumerevoli sono anche le ricette destinate ai pasti principali (il risotto, l’insalata e l’anatra alla melagrana, tanto per citarne qualcuna), ma in linea con il tema di questa rubrica daremo spazio agli alimenti del mattino. Appena alzati potete arricchire di arilli lo yogurt, le meringhe, la panna cotta, il budino, il semifreddo, il pancake, i cupcakes… Versate del succo di melagrana nel sorbetto per renderlo ancora più dolce, oppure assaporate le golose gelatine e confetture ottenute con l’ eclettico frutto. Spalmatele sul pane, utilizzatele per farcire le crostate: la bontà è assicurata.

 

 

Sapevate che la melagrana è un frutto portafortuna? Svariate culture la associano all’ abbondanza, al benessere, alla ricchezza, sin dalla notte dei tempi. Ciò è in gran parte dovuto ai suoi numerosissimi chicchi, gli arilli, incredibilmente succosi. E rossi come il sangue, che simbolizza il vigore e l’energia. Il melograno, inoltre, cresce e matura con ogni tipo di clima senza disdegnare i terreni brulli: non necessita di una quantità d’acqua particolare e resiste alle intemperie stoicamente. Queste caratteristiche lo hanno reso quasi magico presso gli antichi popoli asiatici. Nella Bibbia, il melograno viene citato spesso. Rappresenta un emblema di fertilità, è un dono di Dio molto importante; persino artisti del calibro del Botticelli e di Leonardo Da Vinci lo inserirono frequentemente nelle loro opere. L’ ebraismo sostiene che i semi della melagrana e i comandamenti della Torah siano entrambi 613. In Turchia è usanza che le spose lancino a terra una melagrana di fronte alla casa coniugale: se i semi fuoriusciti sono parecchi, sarà di buon auspicio per le finanze della famiglia e per la futura prole. Sempre in Oriente, il frutto – grazie alla gran quantità di semi racchiusi nella membrana interna – è un emblema di fratellanza e solidarietà tra i popoli. Tornando in Occidente, notiamo che la valenza beneaugurale della melagrana si è imposta anche in Italia. Qui si è soliti gustarla a Capodanno perchè, al pari delle lenticchie, i suoi arilli simboleggiano il denaro e attirano la ricchezza. Regalare questo frutto, di conseguenza, è un gesto dalla potente valenza propiziatoria.

 

 

 

Il luogo

 

La location più suggestiva dell’ autunno? Senza dubbio, un fuoco e i suoi dintorni. Che siano fiamme che ardono in un camino o quelle di un falò, magari acceso in giardino oppure nei boschi. Ottobre è appena iniziato, ma di notte le temperature calano a picco: non c’è niente di meglio che godersi un po’ di tepore accanto alla fonte di calore che, per prima, diede conforto all’ umanità ancestrale. Sebbene oggi tendiamo a trascurarlo, il fuoco ha rivestito una primaria importanza per lo sviluppo della civilizzazione. Non a caso incarna una valenza emblematica ben precisa in moltissime religioni, culture, persino filosofie. Innanzitutto, è uno dei quattro elementi di contatto tra il microcosmo umano e il macrocosmo naturale (gli altri tre elementi sono aria, acqua e terra). Da tempi immemorabili viene associato all’ energia, alla forza, alla passione, al maschile, quattro termini che per gli antichi equivalevano a un tutt’uno. Si contrappone alla frescura, all’ umidità dell’ acqua con il suo potente calore; tra i punti cardinali lo si identifica con il Sud. L’ esoterismo conferisce al fuoco una funzione purificatrice, vivificante, trasformatrice. Riflettendo la luminosità dello Spirito, è in grado di innalzare qualsiasi cosa a livelli di perfezione sublime. Per gli alchimisti rappresentava il numero 1 in quanto emblema dell’ Unità: dal fuoco si erano forgiati i restanti tre elementi e ciò favoriva la sua associazione con il creare, con il fervore inventivo. Anche le emozioni vissute al massimo, senza timori, rimandavano al fuoco. “Ardente” è un aggettivo in tal senso esemplare. Tornando alla vita di tutti i giorni, il fuoco possiede numerose valenze. E’ convivialità, intimità, calore, anche figurativamente parlando. Attorno al fuoco, in autunno, ci si riunisce per chiacchierare, mangiare caldarroste, bere un calice di buon vino. Oppure per danzare, ascoltare musica, celebrare i più disparati eventi. Da tempi remotissimi, fino al momento in cui è comparsa la televisione, nei casolari di campagna vigeva l’usanza di ritrovarsi la sera davanti al focolare. La cena era appena terminata: il momento giusto per lasciar spazio alle conversazioni, ai racconti, alle leggende, alle dicerie che correvano in paese. Il vino rappresentava una sorta di “pozione magica” inebriante che dava sapore a quelle riunioni. Ai bambini venivano narrate le fiabe, ma al tempo stesso aleggiava il gusto di procurarsi brividi a vicenda. Non è un caso che, di frequente, ci si intrattenesse nel tramandare storie e leggende dagli accenti macabri. Era uno dei modi prediletti per provare e per trasmettere emozioni, amplificandole attraverso la cassa di risonanza della paura; un modo che, al pari della convivialità delle chiacchiere e del vino sorseggiato tutti insieme, alimentava il piacere della condivisione. Proprio lì, di notte, come in una sorta di rituale…mentre ardevano le fiamme del focolare.

 

 

 

Nuit de Feu di Louis Vuitton, il fascino notturno e millenario dell’ incenso

 

La notte è parte integrante dell’ iconografia di Ottobre. Non è un caso che questo mese si concluda con le atmosfere oscure dell’ antico Capodanno Celtico, conosciuto oggi come Halloween. Ed è proprio dal buio che Louis Vuitton  – o meglio, il suo Maitre Parfumeur Jacques Cavallier Belletrud – ha tratto ispirazione, al momento di creare la nuova fragranza della Collezione di Profumi Orientali: Nuit de Feu, che segue Ombre Nomade e Les Sables Roses, nasce sulla scia della cultura olfattiva del Medio Oriente e vanta un sillage intenso, notturno, inconfondibile. Emana il potente aroma dell’ incenso, che gli conferisce il fascino dell’ eterno, e accentua la sua allure ipnotica grazie a un infuso di pelle e legno di oud. Belletrud ha voluto raccontare una storia che va a ritroso nel tempo e che affonda le radici in un’ olfattività antica, quasi archetipa.

 

 

Ecco il perchè della scelta di ingredienti emblematici, lussuosi e intrisi di un significato profondo, che l’uomo utilizza sin da ere remotissime: Nuit de Feu instaura un dialogo con l’anima, parla attraverso le emozioni e il benessere dello spirito. Il Maitre Parfumeur aveva in mente una visione ben precisa, il deserto di notte e i sentori di incenso che diffondono le sue dune. Il buio cala all’ improvviso, nelle aree desertiche, portando con sè un freddo gelido ma anche un tripudio di stelle. Sotto quel cielo, Belletrud immagina un fuoco scoppiettante e tutto intorno viaggiatori che assaporano il suo tepore. Le fiamme danzano nell’oscurità, il fumo disegna anelli che lievitano nell’ aria. Nuit de Feu sigilla questo istante e lo riproduce olfattivamente: un’ alchimia a base di incenso, fragranza sacra per eccellenza che ha attraversato secoli e culture. Veneratissimo, l’incenso possiede un’aura mistica che il tempo non ha mai scalfito. Il “naso” di Louis Vuitton lo stempera tramite un’ infusione di pelle naturale combinata con inebrianti accordi di muschio e legno di oud, dando vita a un jus impregnato di incantevoli reminiscenze storiche e di irresistibili suggestioni.

Nuit de Feu è disponibile in un’unico formato (ricaricabile) da 100 ml

 

 

 

 

 

 

 

Capri, la fragranza che 19-69 dedica all’ incantevole “Isola Azzurra”

 

Un mare che più azzurro non si può (come il colore da cui prende il nome l’ onirica Grotta Azzurra, celebratissima dai letterati) e i caratteristici Faraglioni, suo emblema paesaggistico: l’isola di Capri è una delle più rinomate meraviglie italiche. Per non parlare della “dolce vita” che l’ ha animata nel tempo, un susseguirsi di Vip, intellettuali, aristocratici e teste coronate. Capitale del glamour vacanziero, Capri sprigiona un fascino eterno. In molti hanno interpretato la sua essenza olfattiva, ed oggi voglio parlarvi di un’ Eau de Parfum specialissima che concentra le iconiche atmosfere dell’ isola nel proprio jus: si tratta di Capri, una fragranza firmata 19-69. Ma chi si cela dietro queste enigmatiche cifre, e cosa rappresentano? Ve lo rivelo subito. 19-69 è il luxury brand di profumi fondato dall’ artista svedese Johan Bergelin; avvalendosi del savoir faire di artigiani dislocati tra la Scandinavia, la Francia e l’ Italia, la label ha esordito nella storica boutique parigina Colette nel 2017. Bergelin crea le sue alchimie olfattive abbattendo ogni barriera relativa al genere (le fragranze di 19-69 sono rigorosamente unisex) e ricercando una bellezza unconventional, al di là degli stereotipi e dei vincoli. Nell’ immaginario dell’ artista campeggiano gli anni ’80 del Glam Rock, decisivi per l’ abolizione dei confini tra maschile e femminile: rockstar come David Bowie e Marc Bolan si truccavano pesantemente, indossavano tute di lustrini e boa di piume sperimentando sempre nuovi look.

 

 

Oltre a tramutare la propria immagine in un capolavoro artistico, i Glam rockers dichiaravano a gran voce la loro unicità e il loro credo. Su questi stessi valori Bergelin ha fondato la brand identity di 19-69. Lo slogan che ha scelto, “Bottling Countercolture” (“imbottigliare la controcultura”), è indicativo e rafforza ulteriormente la mission del marchio, il cui nome fa riferimento all’ anno – il 1969, appunto – della libertà, dell’ emancipazione giovanile, dell’ affermazione di una cultura alternativa e di inediti modelli di vita. La precedente carriera di fotografo ha consentito a Johan Bergelin di viaggiare in giro per il mondo e di conoscere i popoli più disparati. Ha così scoperto cosa unisce, cosa accomuna le varie culture: “Molte volte è la bellezza”, spiega, ” sia sotto forma di musica che di arte o di profumi. Con 19-69 voglio invitare le persone ad esplorare la bellezza oltre i confini e vedere cosa possiamo scoprire gli uni degli altri”. Il suo intento si traduce in una serie di jus (Purple Haze, Capri, Chinese Tobacco, Kasbah, Rainbow Bar, L’ Air Barbès, Chronic, Villa Nellcôte, Female Christ) che prendono vita da sensazioni, ambientazioni ed epoche associate a continenti quali l’ Asia, l’America, l’ Europa e l’ Africa.

 

 

La collezione di fragranze è magnifica anche rispetto al design e al packaging. I flaconi, verniciati e serigrafati in Italia, sono essenziali bottigliette di vetro con il doppio fondo tinto di una tonalità sempre diversa, mentre il tappo è invariabilmente nero. Tutti i prodotti vengono realizzati a mano e ogni profumo si lega a un mood evocativo ben preciso, nessuno uguale all’ altro. Capri, racchiuso in un flacone nei toni del giallo, richiama la luminosità del sole che splende sull’ isola. Ma non solo: ad ispirare Johan Bergelin è stato “Le Mépris” (“Il disprezzo”), il film che Jean-Luc Godard girò nel 1963 proprio a Capri, a Villa Malaparte, con Brigitte Bardot e Michel Piccoli come protagonisti.

 

BB sul set di “Le Mépris”

Le note olfattive dell’ Eau de Parfum scaturita dalle suggestioni di questa pellicola ne riflettono le atmosfere intense, drammatiche ma costantemente ravvivate – quasi per contrasto – dalla luce solare. Spiccano gli accordi di arancia dolce e amara, di olio essenziale di Ylang Ylang, di muschio bianco, ingredienti base di una fragranza fresca ed avvolgente. Una fragranza che, a partire dallo spunto di “Le Mépris”, ci accompagna in un incantevole viaggio sull’ “Isola Azzurra”.

Capri è disponibile in versione Eau de Parfum da 100 ml

 

 

 

La magica “Grotta Azzurra”

 

 

Foto della Grotta Azzurra via Wikimedia by Colling-architektur / CC BY-SA (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)

Foto di Brigitte Bardot via Poet Architecture from Flickr, Public Domain

 

 

Quando “bellezza” fa rima con “multiculturalità”: la sfilata Dior Cruise 2020 a Marrakech

 

La sera è scesa, fa già buio. Ma le luci di miriadi di fiaccole, intervallate da falò sospesi, galleggiano sull’ immensa piscina del palazzo di El Badi. Siamo a Marrakech, in una location straordinariamente suggestiva: è la location che Dior ha scelto per la sfilata della collezione Cruise 2020, un inno alla bellezza scaturita da un intreccio di culture. Aver puntato su Marrakech, affascinante crocevia tra il Mediterraneo, l’ Europa e l’ Africa, è indicativo. Memore di quel Marocco che nel ‘900 attirò intellettuali, artisti e viaggiatori bohémien, Maria Grazia Chiuri ha voluto rievocarne i topos immaginativi e le atmosfere per intraprendere un percorso in cui reminiscenze, paesaggi e suggestioni si coniugano, esaltandolo, con l’heritage della Maison (come dimenticare la fascinazione che il Marocco esercitava su Yves Saint Laurent, primo direttore creativo Dior dopo la dipartita di Monsieur Christian? ).  Emblema dei temi ai quali Chiuri si ispira è il Wax, un tessuto cerato e ricco di variopinte stampe considerato dai più una tipicità africana. In realtà, la storia del Wax (o Batik, se preferite) rispecchia fedelmente quel mix di eterogeneità che la designer romana celebra nella collezione Cruise 2020: nasce in Olanda nel 1864 per essere commercializzato in Indonesia, dove però riscuote scarso successo. Al contrario, nel Continente Nero sarà richiestissimo. Simbolico punto di incontro tra Europa, Asia e Africa, il Wax, come il Marocco, concentra in sè un connubio di culture. E’ un denominatore comune, un “common ground”, un’ intersezione tra le differenze. Non è un caso che faccia da leitmotiv all’ intera collezione, e che l’ atelier ivoriano Uniwax abbia rivisitato la sua trama tessile combinandola con i codici Dior. Il Wax, insomma, diventa un “viatico” indispensabile per la rilettura di nuove e di antiche stampe. Delinea paesaggi, bestiari, memorie ed impressioni, mescola la fauna della Savana all’ iconografia dei Tarocchi, reinterpreta addirittura un cult della Maison come il tailleur Bar. Il Wax dà vita a dei look sfaccettati, multiformi e multietnici di un’ eleganza squisita: lunghi abiti, ampie mantelle, pantaloni cropped o affusolati, gonne e tuniche plissettatissime, caftani e minidress lo sfoggiano a tutto spiano, declinandolo in tessuti rigorosamente naturali (shantung, garza di seta, seta écru) e in una palette che esplora i colori più incantevoli e caratteristici dei panorami africani. Risaltano l’ ocra, il ruggine, l’indaco, il sabbia, il blu, il bianco e il nero in total look, svariati toni di marrone; tonalità intrise di un’ esotismo che si fonde con il pluralismo e – di conseguenza – con il concetto di “inclusività”, condicio sine qua non per la convivenza tra culture diverse. Oltre a Uniwax, una fitta rete di collaboratori ha affiancato Maria Grazia Chiuri nella creazione della collezione Cruise 2020: tra essi, l’artista e designer africano Pathé Ouédraogo, la designer anglo-giamaicana Grace Wales Bonner, l’artista afro-americana Mickalene Thomas, il collettivo SuMaNo di artigiane marocchine, il guru dei cappelli Stephen Jones insieme a Martine Henry e Daniela Osemadewa. (Per ammirare la collezione completa clicca qui)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ashi Studio, l’ abito come un’ incantevole fiaba

 

Dire Ashi Studio equivale ad evocare una Haute Couture da fiaba: abiti sontuosi, squisitamente scolpiti e ricamati minuziosamente a mano incarnano l’ essenza di un lusso che diventa opera d’arte vera e propria. Fondata nel 2007 a Beirut dal designer Mohammed Ashi, la Maison è diventata subito un punto di riferimento per la clientela raffinata. E non sorprende, perchè le creazioni di Ashi sembrano uscite da un sogno. Si ispirano alle sue radici arabe, ma non solo: declinate in tessuti pregiati, arricchite da preziosissimi ornamenti, subiscono il fascino delle più disparate culture e ne reinterpretano le suggestioni. Ad accomunarle è il desiderio di raccontare una storia, una fiaba, attraverso ogni abito. Il designer libanese attinge al suo amore per l’arte e lo traduce in uno chic senza tempo, eppure assolutamente contemporaneo. Basti pensare alla collezione di Alta Moda Autunno/Inverno 2018/19 di Ashi Studio, che coniuga tonalità come il bianco, il panna, il blu, il nero e il grigio perla con una sartorialità che sfiora le vette del sublime. Da questa collezione VALIUM ha tratto alcuni look, capolavori accomunati da un ammaliante candore: non nascono come abiti da sposa, ma del bridal possiedono tutto l’ incanto. Voi che ne dite?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In a Holiday Mood

DELPOZO

Righe marinare, pattern etnici, colori che evocano il piumaggio di un pappagallo esotico…Il tutto, alternato a un bianco luminoso o ad eteree texture declinate nelle cromie di un tramonto tropicale. Le collezioni Resort  (in questo caso, 2018) celebrano “la vacanza” per definizione e con essa il viaggio, l’ esplorazione di terre lontane e di nuove culture: niente di meglio per tracciare una breve sintesi del mood che anima la tanto vagheggiata Estate.

 

MARY KATRANTZOU

GIORGIO ARMANI

GIVENCHY

MISSONI

 

Photo: Maison

 

Il trend tribal folk: la nuova frontiera dell’ etnico

Valentino

 

Il mondo è la sua fonte di ispirazione: con le sue etnie, le sue culture, le innumerevoli tradizioni, i suoi costumi ma, soprattutto, i suoi codici stilistici. Incalcolabili, eclettici, profondamente mutevoli a seconda delle variabili – oltre che geografiche – storiche e culturali. Il trend tribal folk attinge a queste tipicità rielaborandole, mixandole, attualizzandole o stravolgendone i connotati per tradurle in dettami di assoluta contemporaneità o input avveniristici. Al di là di ogni dilagante globalizzazione, la moda riesce a mantenere intatto il fil rouge che caratterizza i più svariati patrimoni di stile valorizzandoli con dosi massicce di creatività, ricercatezza e fantasia: è la nuova frontiera dell’ etnico tout court.

 

 

Givenchy

Stella Jean

Alexander McQueen

Mara Hoffman

Céline

Donna Karan

Alberta Ferretti

Valentino

Etro

Missoni

Anna Sui