La colazione di oggi: il miele di Tarassaco, quando “precocità” fa rima con “pregiatezza”

 

Il miele di Tarassaco è un miele pregiatissimo, molto particolare. Innanzitutto è un miele precoce, perchè il Tarassaco, un fiore più noto come “dente di leone”, inizia a sbocciare tra Marzo e Aprile, quando le api non hanno ancora energia sufficiente per volare in massa a succhiare il nettare. Rispetto al miele di ciliegio, precoce anch’esso, sfoggia una tonalità giallo oro e un profumo inconfondibile, molto intenso, speziato e un po’ pungente. A questo mix si aggiungono accenti di camomilla che per contrasto esaltano la dolcezza del suo sapore. Ma torniamo al fiore da cui si ottiene: il Tarassaco (nome botanico Taraxacum Officinale) è una pianta erbacea selvatica appartenente alla famiglia delle Asteraceae. Diffuso in ogni parte del globo, è riconoscibilissimo grazie all’ infiorescenza color giallo brillante che lo contraddistingue. La sua fioritura, che comincia al principio della Primavera, prosegue fino all’Autunno inoltrato. Quando raggiunge il picco, tra Maggio e Giugno, si espande in ampie distese della stessa gradazione del sole. Una curiosità: il ciclo vitale del Tarassaco ha la durata di un giorno, però per ogni fiore che muore altri ne nascono a decine.

 

 

Le api vengono immediatamente attirate dalla vibrante tonalità del Taraxacum Officinale, e raccolgono il suo nettare in dosi massicce. Quali sono, quindi, le caratteristiche del miele di Tarassaco? Bisogna premettere che è un miele raro e non è semplice reperirlo in commercio. Detto questo, di primo acchito colpiscono senza dubbio la sua nuance giallo vivo, molto luminosa, e la sua consistenza soffice e vellutata: il miele di Tarassaco è facilmente spalmabile, oltremodo denso. Altri mieli, tipo quello di corbezzolo o di castagno, ostentano una colorazione dai toni più scuri. Una particolarità del miele di Tarassico è costituita, poi, dal fatto che cristallizza molto velocemente. Inoltre, presenta un’elevata concentrazione di acqua: l’apicoltore provvede a correggerla durante la produzione per evitare che il miele fermenti. Veniamo ora a sensi quali l’olfatto e il gusto. A livello olfattivo, il miele di Tarassaco risulta aspro, molto forte, intriso di accenti che rievocano l’ammoniaca. Se vi sembra una descrizione poco invitante, quando lo assaggerete cambierete idea: il sapore di questo miele è dolcissimo, ricco di note speziate e vagamente agrumate a cui si aggiunge un delicato gusto di camomilla.

 

 

Molto note sono anche le proprietà salutari del miele di Tarassaco, un autentico toccasana per l’organismo. Tra i suoi benefici va segnalata un’efficace azione diuretica, drenante e depurativa: contrasta la ritenzione idrica ed elimina le tossine. In più purifica i reni, il fegato, e le vitamine che contiene lo dotano di straordinarie proprietà energetiche e ricostituenti. Durante la prima colazione, potrete aggiungere il miele di Tarassaco al porridge o utilizzarlo per dolcificare il , lo yogurt o il caffè; spalmandolo su una fetta di pane godrete appieno della sua consistenza setosa, che apprezzerete anche abbinandolo ad alcuni formaggi per dar vita a degli inediti connubi di sapori.

 

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Quando la mimosa diventò il fiore simbolo dell’8 Marzo

 

Andavo a San Jeronimo
verso il porto
quasi addormentato
quando
dall’inverno
una montagna
di luce gialla,
una torre fiorita
spuntò sulla strada e tutto
si riempì di profumo.
Era una mimosa.
(Pablo Neruda, “Mimosa”)
La Giornata Internazionale della Donna e l’ Acacia Dealbata, in Italia, sono un tutt’uno. Questa pianta, meglio conosciuta con il nome di mimosa, appartiene alla famiglia delle Fabaceae e sfoggia una nuvola di fiori gialli, a grappoli e profumatissimi. Ma come è diventata il fiore simbolo dell’8 Marzo? Tutto ebbe origine nel secondo dopoguerra. La Festa della Donna, nel nostro paese, divenne una ricorrenza a partire dal 1946 e si cominciò a cercare un fiore che potesse rappresentarla. Inizialmente fu proposta la violetta, un’icona della sinistra europea. L’idea non incontrò però il favore di diversi dirigenti del Partito Comunista: la violetta, a loro avviso, era un fiore troppo dispendioso e neppure così presente sul territorio italiano. La soluzione arrivò per caso, del tutto all’improvviso. Due donne appartenenti all’UDI, Unione Donne Italiane, un giorno si imbatterono in un albero, l’Acacia Dealbata, che ostentava una chioma di magnifici fiori gialli. Teresa Mattei e Rita Montagnana, questi i nomi delle donne in questione, erano entrambe antifasciste. La prima era stata attivamente coinvolta nella lotta partigiana; la seconda, oltre ad aver fondato l’UDI, militava nel PCI. Insieme a Teresa Noce, annoverata tra i fondatori del partito, Mattei e Montagnana furono le più convinte sostenitrici della scelta della mimosa come simbolo dell’ 8 Marzo. E proprio Teresa Mattei appoggiò fortemente quest’opzione: la mimosa era un fiore modesto ma bellissimo, luminoso, molto diffuso nelle campagne, e i partigiani, durante la guerra, usavano regalarlo alle staffette.
Da allora, in Italia, la Festa della Donna è stata associata indissolubilmente a questo fiore di un giallo brillante. Molti altri elementi contribuirono a motivare la sua scelta: secondo la florigrafia, ovvero il linguaggio dei fiori, la mimosa è un emblema di forza, autonomia e sensibilità femminile; incarna un’idea di libertà ed emancipazione. In più, fiorisce poche settimane prima dell’8 Marzo e cresce spontanea un po’ ovunque, laddove il clima lo permette. E’ estremamente facile, quindi, reperire un mazzo di mimose da regalare a un’amica, una compagna, una madre o una collega (per fare solo qualche esempio) senza spendere troppo. E poi, non va dimenticato che è un fiore solare, particolarissimo, vibrante…molto scenografico.

Marzo

 

Marzo è un ragazzaccio coi capelli arruffati, un sorriso birichino, il fango sulle scarpe e una risata nella sua voce.
(Hal Borland)

 

Oggi diamo il benvenuto a Marzo, ultimo mese dell’Inverno e primo mese della Primavera. Il suo nome deriva da “Martius”, Marte in latino, perchè nella Roma antica era il mese dedicato al dio della guerra: non a caso, a Marzo riprendevano tutte le attività militari dopo un intervallo che coincideva con il periodo più gelido dell’anno. E se vi sembra poco romantico che l’Equinozio di Primavera cadesse in settimane associate a connotazioni belliche, bisogna dire che Marte era anche la divinità che presiedeva al primo raccolto. Il calendario romano, inoltre, si apriva proprio con il mese di Marzo. Dal punto di vista metereologico, Marzo è proverbiale per la sua instabilità e per gli improvvisi ribaltoni climatici: “Marzo pazzerello, guarda il sole e prendi l’ombrello” è il proverbio che meglio lo descrive. Tutto ciò non stupisce, trattandosi di un mese di transizione. Il freddo di solito prevale, ma le giornate si allungano ulteriormente e cominciano a spuntare i primi fiori. Le margherite, le primule, le violette e i narcisi impreziosiscono i prati, mentre il glicine, con le sue cascate di grappoli, rapisce lo sguardo con la magnetica nuance di lilla che lo contraddistingue. I segni zodiacali di Marzo sono i Pesci e l’Ariete, il suo colore è il giallo: probabilmente un riferimento alla tonalità della mimosa, simbolo per eccellenza della Festa della Donna. Tra le ricorrenze del mese, infatti, rientra proprio la Giornata Internazionale della Donna, che com’è noto si celebra l’8 Marzo. Il 19, invece, la solennità di San Giuseppe coincide con la Festa del Papà. L’ Equinozio di  Primavera quest’anno arriverà il 20 Marzo, mentre il 15 del mese – le Idi di Marzo degli antichi romani – ricorre l’assassinio di Giulio Cesare, ucciso nel 44.a.C. da 23 colpi di pugnale infertigli da un gruppo di congiurati. La pietra del mese di Marzo è l’acquamarina: la sfumatura di azzurro che sfoggia, tenue e ipnotica, ricorda il cielo primaverile.

 

 

Foto di copertina: Anna Shvets via Pexels

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Ottobre

 

È il caro mese dell’anno quando
più dolci nubi il cielo del mattino
attraversano, e il passo di chi parte
trova foglie più fitte nel sentiero
che s’allontana.
(Attilio Bertolucci)

 

Il tempo vola, e siamo già arrivati al secondo mese dell’Autunno: dici “Ottobre” e pensi alla castagne, alle zucche, al tripudio di colori delle foglie, ad Halloween, ai funghi, ai campi di mais…Lo scrittore Ray Bradbury ha eletto questo mese ad uno dei leitmotiv dei suoi romanzi (pensiamo solo a “Paese d’ottobre” e “Il popolo dell’autunno”). Se Settembre ancora conserva un’impronta estiva, Ottobre ci accompagna, poetico e suggestivo, verso le brume di Novembre. Per il calendario romano era l’ottavo mese dell’ anno, da qui il nome di October, anche se l’imperatore Commodo lo ribattezzò Invictus. Tuttavia, la riforma ebbe vita breve: quando Commodo morì, tornò a chiamarsi October immediatamente. Il 13 del mese nell’antica Roma si onorava il dio Fontus, la divinità dei pozzi e delle fonti; i romani lo omaggiavano con offerte a base di vino, olio e ghirlande fiorite, che deponevano sul suo altare nei pressi del Gianicolo. A Ottobre la vendemmia si avvia a concludersi ed ha inizio il processo di vinificazione. In campagna ci si appresta ad arare i campi prima della semina del grano, e si va per funghi in cerca di varietà prelibate come i porcini, i finferli, i pioppini, i prataioli, gli ovoli, le mazze di tamburo e così via. Abbiamo parlato molte volte dei tipici frutti autunnali. Nell’ orto invece è tempo di broccoli, carote, cetrioli, cavolfiori, cachi, melanzane, tartufi, sedano, zucche, zucchine, menta, porri e cime di rapa, per citare solo alcune delle verdure di stagione. In Italia, tra le ricorrenze di Ottobre rientrano la festa dei Nonni e la festa degli Angeli Custodi: entrambe ricorrono il 2 del mese. Il 7 Ottobre si celebra la Madonna del Rosario e il 31, vigilia di Ognissanti, è dedicato ad Halloween, una festività di origine celtica ormai divenuta globale. Sul colore che contraddistingue Ottobre, le scelte sono discordi: qualcuno indica l’arancio (che rimanda alla zucca halloweeniana), altri optano per una palette nelle tonalità del foliage: rosso, giallo, arancio, vinaccia, beige, marrone e borgogna. A questo mese si associano due pietre, l’opale (che gli antichi Greci ritenevano possedesse virtù divinatorie) e la tormalina, considerata mistica e declinata in tutte le cromie dell’arcobaleno. Per quanto riguarda lo zodiaco, invece, Ottobre comprende i segni della Bilancia e dello Scorpione.

 

 

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Il Focus

 

Giallo come il sole, luminoso come la sua luce e maestoso come il suo splendore: questo abito, incluso nella collezione di Alta Moda Primavera Estate 2023 di Georges Hobeika, sembra inneggiare all’astro infuocato. Il décolleté viene esaltato dalla profonda scollatura a V di un top sceso sulle spalle, pervaso di drappeggi come il nodo che lo unisce ad una gonna lunga ed impalpabile. Una cascata di decori, a metà tra le lingue di fuoco e gli ornamenti floreali in 3D, ricade sulle braccia della modella dando l’illusione che si tratti di piume. Il look è monocromo: le decollété in raso con cinturino ostentano lo stesso color “sole” dell’abito e gli orecchini, i cui pendenti sono lunghi fino a sfiorare il seno, scintillano di aurei bagliori.

 

 

Appartenente alla collezione Small Talks, un’ode alle relazioni (siano esse familiari o amichevoli) che tengono in piedi la nostra vita, questa creazione lascia senza fiato. Celebra la collaborazione tra Georges Hobeika e suo figlio Jad, fortemente ispirati dagli archivi della Maison, evidenziando una magnificenza cromatica e un savoir faire senza pari. Ciò che affascina è il potere evocativo del look, coniugato con un’allure seducente e un’opulenza decorativa mai ridondante, bensì sinonimo di fascino puro: nonostante il caldo spossante di questi giorni, mai un abito era riuscito a farci tanto amare il sole.

 

 

 

Il girasole e le sue leggende

 

Botanicamente è l’Helianthus Annuus, un nome che fonde i termini greci “helios”, ovvero “sole”, e “anthos”, “fiore”. Ma anche la sua denominazione più nota, “girasole”, cita l’astro infuocato. Ciò perchè, in base ai principi dell’ eliotropismo, ha una corolla sempre orientata verso il sole. In realtà, ciò avviene quando è ancora nello stadio di bocciolo; dopo la fioritura punta laddove il sole sorge, ovvero ad est. Il girasole si associa al sole persino nell’aspetto: la forma tonda e i petali gialli disposti a raggiera fanno subito pensare alla stella più vicina alla Terra. Qualche mese dopo la semina, fissata tra Marzo e Aprile, i campi si tramutano in spettacolari distese color oro che ispirano gioia e buonumore. La particolarità che cattura immediatamente l’attenzione è l’imponenza dei girasoli: il loro stelo può raggiungere i due metri di altezza. La tonalità vibrante e la bellezza unica li annoverano tra i più richiesti fiori ornamentali, mentre i semi, ricchi di nutrienti, sono molto utilizzati in cucina.

 

 

Ma quali sono le origini del girasole? L’ Helianthus Annuus nasce nell’ America Meridionale, precisamente in Perù. Gli Incas lo coltivavano già nel 1000 a.C., e identificavano in questo fiore il loro dio del Sole: l’essere rivolto costantemente verso l’astro era un indizio del dialogo che intratteneva con lui. Il condottiero spagnolo Francisco Pizarro, che conquistò l’Impero Inca e fondò in seguito la città di Lima, fu il primo a scoprire la valenza divina assunta dal girasole  presso gli Incas. In Europa il fiore approdò nel XVI secolo, sia sotto forma di semi che delle innumerevoli riproduzioni in oro che la popolazione andina era solita dedicargli.

 

 

Gli antichi popoli, in generale, consideravano il girasole un emblema di immortalità. L’identificazione con il dio Sole, e quindi con la vita, era presente in un gran numero di culture, favorita anche dal fatto che questo fiore offriva semi commestibili e olio in abbondanza. Esistono leggende molto suggestive, sul girasole; la più celebre lo ricollega alla mitologia greca: Clizia, una giovane ninfa, era perdutamente innamorata di Apollo, il dio del Sole. Non poteva fare a meno di tenere gli occhi incollati al cielo, ogni volta che passava con il suo carro. Apollo, lusingato da tanta attenzione, riuscì a sedurla, ma poco tempo dopo la abbandonò. Clizia, disperata, pianse per nove giorni di seguito in un campo, fissando continuamente il sole. Secondo la leggenda, il suo corpo si immobilizzò fino a diventare uno stelo; i piedi presero le sembianze di radici, i capelli formarono una corolla di petali color giallo brillante: si era tramutata in un girasole, e ammirava il sole da mattina a sera. La leggenda è citata ne “Le metamorfosi” di Ovidio, ma non essendo il girasole ancora sbarcato dall’ America si pensa che possa riferirsi all’ eliotropio.

 

 

Un’ altra leggenda narra di un fiore molto solitario e malinconico. Aveva un aspetto particolare; non era considerato bello e tutti, nel campo in cui sorgeva, evitavano di stargli accanto. Così, il fiore passava le giornate ad ammirare il sole. Lo adorava a tal punto che il suo stelo, a furia di guardarlo, era cresciuto in altezza. Il fiore seguiva il percorso del sole con la sua corolla, e il sole non potè fare a meno di notarlo. Un giorno, incuriosito, l’astro chiese al fiore come mai era sempre solo e costui gli raccontò la sua triste storia. Il sole rimase molto impressionato da quel racconto e decise di aiutarlo: lo confortò e lo trasformò in un fiore alto, splendido e completamente tinto di giallo. Adesso era il fiore più bello di tutto il campo, e prese il nome di Girasole in onore della sua amicizia con l’astro.

 

 

 

Giallo

 

“Il giallo è il colore più prossimo alla luce.”
(Goethe)

 

VALIUM l’ha eletto colore del mese di Maggio; brillante, avvolgente, luminoso, il giallo simboleggia perfettamente l’inizio della bella stagione. Mi sembra d’obbligo, quindi, dedicargli una photostory. Perchè anche se il meteo ci sta opprimendo con un Maggio novembrino, tra pioggia e temporali non c’è niente di meglio che sognare “in giallo”: la tonalità del sole.

 

 

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Il maggiociondolo, uno sfarzoso tripudio di fiori gialli tra leggende e tradizioni

 

Fiorisce a Maggio, come suggerisce il suo nome. E se vi è capitato di vederlo, potete star certi non lo dimenticherete: i suoi grappoli di fiori gialli pendono dai rami come una rigogliosa cascata. La somiglianza con quelli del glicine è evidente. A differenziarli è il colore, un giallo brillante che cattura lo sguardo e lo riempie di meraviglia. La pianta di cui sto parlando è il maggiociondolo (nome botanico Laburnum anagyroides), un piccolo albero che appartiene alla famiglia delle Fabacee. La sua altezza è compresa tra i 4 e i 6 metri e sfoggia grappoli del colore del sole che raggiungono i 25 cm di lunghezza. I fiori, profumatissimi, ciondolano dai rami ad ogni alito di vento: da qui il nome “maggiociondolo”.

 

 

Il legno del tronco è molto scuro e super resistente. I frutti dell’ albero si presentano come baccelli contenenti innumerevoli semi neri, ma nascondono un’insidia: sono ricchi di citisina (un alcaloide), il che significa che sono estremamente velenosi per l’uomo e per alcune specie animali. La brutta notizia è che del maggiociondolo non risultano velenosi solo i semi. Quest’ albero, infatti, è velenoso nella sua interezza. “Guardare e non toccare” potrebbe essere il motto che lo rappresenta. Gli animali a maggior rischio avvelenamento sono i cavalli, le capre, le mucche: se queste ultime brucano i rami della pianta, c’è il pericolo che la tossicità si trasmetta finanche nel loro latte. I semi sono particolarmente letali, soprattutto se non ancora maturi. Ci si può intossicare anche ingerendo un solo seme, e consumandone molti si mette a rischio la propria vita. Misteriosamente, tuttavia, animali selvatici quali le lepri, i cervi e i conigli si nutrono dei semi del maggiociondolo senza incorrere in spiacevoli conseguenze: è uno dei motivi per cui questa pianta viene considerata magica sin da tempi remotissimi. Ed è proprio in virtù di ciò che vi parlo del maggiociondolo, un albero altamente simbolico, associato a molteplici leggende e a secolari tradizioni, nello specifico quelle della notte di San Giovanni.

 

 

Il Laburnum cresce nelle zone temperate ed è diffuso principalmente nell’ Europa del Sud: l’area sudorientale della Francia, catene montuose come le Alpi e gli Appennini, i rilievi della Penisola Balcanica. L’habitat in cui si sviluppa è il bosco. Il legno scurissimo e solido del maggiociondolo, che negli esemplari anziani accentua queste sue caratteristiche, è valso alla pianta l’appellativo di “falso ebano”, poichè può sostituirlo perfettamente.  Antiche leggende ricollegano l’albero alla figura delle streghe: pare che, nel Medioevo, si servissero dei suoi semi per la preparazione di elisir e pozioni magiche, mentre durante i Sabba erano solite cavalcare bastoni ricavati dal suo legno. Ma il maggiociondolo non è un albero che rimanda unicamente a connotazioni “malefiche”. I riti della notte di San Giovanni, ad esempio, prevedevano che venissero accesi dei falò con i rami di sette alberi, tra cui, appunto, il maggiociondolo. I falò ardevano con valenza purificatoria, in omaggio al sole e per alimentare l’energia interiore. Tale usanza persiste in molte aree geografiche.

 

 

Tornando alle streghe, vale la pena di approfondire alcuni aspetti del loro utilizzo del maggiociondolo. Le pozioni che preparavano con i componenti dell’albero sortivano effetti psicotropi: “liberavano” dal peso del corpo, davano l’illusione di poter levitare nell’aria. Lo scopo era quello di alterare lo stato di coscienza per esplorare nuove dimensioni. Questa pratica, chiamato “volo della strega”, veniva effettuata nel corso dei raduni. Il bastone di maggiociondolo utilizzato durante il sabba, invece, era un palese simbolo fallico, ma anche una sorta di strumento di riconoscimento che decretava lo status di strega. Simboleggiava inoltre il volo, il trionfo nei confronti della materia e delle costrizioni corporali. Pare che proprio da tale tipo di verga nacque la leggenda della “scopa volante”: per sfuggire agli inquisitori, le streghe usavano cammuffare i loro bastoni tra mazzi di saggina. Davano così l’impressione di essere delle normalissime scope.

 

 

In tempi remoti, il maggiociondolo era chiamato anche “pioggia d’oro” per la teatralità dei suoi grappoli fioriti. La chioma dell’ albero, un tripudio sfarzoso di giallo, è stata celebrata da poeti e letterati. Il poeta inglese Francis Thompson, in un suo componimento, definisce il maggiociondolo “miele di fiamme selvagge”. J.R.R. Tolkien, l’autore de “Il Signore degli Anelli”, inserisce la pianta nell’ opera mitologica “Il Silmarillon” e lo identifica con Laurelin, l’Albero d’Oro della terra primordiale di Valinor. Anche Sylvia Plath cita spesso il maggiociondolo nei suoi versi; la poesia “The arrival of the bee box” recita: “C’è il laburno, con i suoi biondi colonnati,/E le gonnelle del ciliegio”. Persino Giovanni Pascoli lo nomina ne “La capinera”.

 

 

Per concludere, una leggenda che fa riferimento al territorio abruzzese. Si narra che la Frigia, una remota regione situata in Asia Minore, fosse popolata da guerriere gigantesse chiamate “Majellane”. Maja, una di loro, ebbe un figlio da Giove che partorì in Arcadia, sulle alture del Monte Cillene. Hermes – così fu battezzato il bambino – divenne un giovane di bellissimo aspetto e imponente come sua madre. Un giorno, dopo che rimase ferito durante una terribile battaglia, Maja lo condusse in un luogo dove proliferavano erbe officinali di ogni genere: il Monte Paleno, nell’attuale Abruzzo.  Purtroppo, però, quando raggiunsero il Monte si accorsero che era completamente ricoperto di neve e per Maja risultò impossibile procurarsi la pianta di cui era in cerca. Hermes morì e sua madre cadde nella disperazione più totale. Il pianto della gigantessa risuonò tra le valli del massiccio montuoso per un anno intero, dopodichè fu stroncata dal dolore. Sceso sul Monte, Giove provò un’enorme sofferenza nel constatare che Maja era morta. In suo ricordo, allora,  creò il maggiociondolo, un alberello che “esplodeva” di fiori gialli, e le dedicò il mese di Maggio (poichè era il mese della fioritura). Sebbene non fosse più in vita, Giove elevò la madre di Hermes a ninfa delle selve e delle sorgenti del Monte. Ordinò che il Paleno fosse ribattezzato Monte Majella, un nome che onorava la memoria di Maja, e stabilì che sarebbe diventato il tempio eterno della donna che aveva amato suo figlio di un amore così profondo.

 

 

 

Da Lussi a Santa Lucia: il 13 Dicembre in Scandinavia tra Paganesimo e Cristianesimo

 

“Santa Lucia, il giorno più corto che ci sia.”
(Proverbio)

 

Oggi festeggiamo Santa Lucia, una delle ricorrenze più importanti dell’Avvento. VALIUM ne ha parlato spesso, focalizzando l’attenzione sulla sua celebrazione in Svezia e sulla storia della “Santa della Luce” (clicca sui due link per rileggere gli articoli). In questo post, invece, approfondirò la matrice pagana della festa. Le location sono ancora una volta le magiche, innevate lande del Nord Europa: in Scandinavia, anticamente, la notte del 13 Dicembre era dedicata a una suggestiva festività dell’ era pre-cristiana. Innanzitutto, va precisato lo scenario in cui tale data si andava a collocare. Per i popoli nordici, Dicembre è il mese più buio dell’anno; l’oscurità fagocita le distese di fitti boschi, i campi, i laghi, i villaggi. Le forme si fanno indistinte. Questo periodo, molti secoli orsono,  veniva identificato con il caos primordiale:  l’ indefinito, le tenebre antecedenti alla creazione. Quando arrivava l’ Inverno, era come se si regredisse a quella condizione. La notte del 13 Dicembre, con il suo buio interminabile, rivestiva una precisa valenza simbolica. Era la più lunga, e quindi la più oscura notte dell’ anno; poteva nascondere insidie e pericoli. In Scandinavia venne battezzata “Lussinatt” o “Langnatt”, ovvero “lunga notte”, e si riteneva che Lussi, una divinità pagana il cui nome significa “luce” poichè era considerata la “Madre del Sole Nuovo”, regnasse su di essa.

 

 

Lussi era anche la madre degli spiriti dell’ Altro Mondo, e la notte del 13 Dicembre soleva volare nelle tenebre con il suo corteo di gnomi, fate, elfi e troll: un seguito sinistro e fantasmatico denominato Lussiferda. Questo particolare connette la figura di Lussi con il mito della Oskoreia, la “Caccia Selvaggia” capeggiata da Odino; imbattersi in una simile processione soprannaturale non era certo di buon auspicio, si rischiava di essere rapiti e trascinati nel Regno dei Morti. Ma anche Lussi e il suo corteo non scherzavano. Quando arrivava la Lussinatt, sorvolavano le case castigando tutti coloro che non si comportavano a dovere. Lussi si calava nei camini per prelevare i bambini malvagi e portarli nel Regno dei Morti, e puniva le famiglie che non adempivano ai preparativi per la festa di Yule. La notte del 13 Dicembre, inoltre, anche gli animali erano dotati del dono della favella: si riteneva che conversassero tra loro e commentassero come venivano trattati dai rispettivi padroni. Ogni istante della Lussinatt, insomma, era intriso di magia. Il motivo è molto semplice. Nel mese di Yule, quando il buio imperversava, cadevano le barriere tra il mondo dei vivi e quello degli spiriti e delle creature fatate. Un numero illimitato di ombre poteva celarsi nell’ oscurità; incantesimi e pericoli erano in agguato dietro l’angolo.

 

 

Potremmo considerare Lussi la controparte oscura di Santa Lucia. La divinità pagana portava un nome che inneggiava alla luce, eppure regnava sulla notte più lunga dell’ anno; era rappresentata come una vecchia, a metà tra la strega e la maga, ma aveva il compito di concepire l’astro solare, che immergeva in un caldaio e rigenerava grazie al bollore delle fiamme. Queste ambivalenze, in realtà, appaiono frequentemente nel Paganesimo. In quanto Madre del Sole Nuovo, Lussi era anch’essa, come Lucia, una “portatrice di luce”: il suo nome aveva una valenza potentemente simbolica.

 

 

Ma quando avvenne, esattamente, la transizione dal culto di Lussi a quello di Santa Lucia? In Scandinavia il passaggio non fu così rapido. Il Cristianesimo cominciò a diffondersi nell’ anno 1000 in quelle lande nordiche, e tuttavia svariate testimonianze dimostrano che, nel XIII secolo, la figura di Lussi era ancora saldamente ancorata nell’ immaginario collettivo. La venerazione di Santa Lucia, e i riti che a tutt’oggi la contraddistinguono, sono fenomeni che in Svezia, Danimarca, Finlandia e Norvegia si affermarono dalla fine del 1800 in poi (in Norvegia, il culto di Lucia di Siracusa prese piede addirittura dopo il secondo conflitto mondiale): prova ne è il fatto che “Santa Lucia”, la celebre canzone napoletana che si accompagna alle celebrazioni nordiche, fu scritta da Teodoro Cottrau nel 1849. Solo nel XX secolo la devozione a Lucia, portatrice di luce e protettrice della vista, si consolidò nella penisola scandinava. Fino a quel momento, soprattutto nelle zone rurali, le tracce delle antiche tradizioni pagane non erano mai scomparse del tutto.

 

 

Lussi e Lucia: due figure agli antipodi accomunate, però, da più d’una caratteristica. La prima è l’essere entrambe “portatrici di luce”. Lussi in quanto artefice del rinnovamento del Sole, Lucia per il suo nome e poichè nel suo sguardo vibrava la luce spirituale del cambiamento e della speranza. Non è un caso che, secondo la leggenda, le furono cavati gli occhi. Ma gli elementi che Lussi e Lucia hanno in comune sono anche altri. Uno di questi è venato di accenti vagamente sinistri, e sembra riportare al clima oscuro della Lussinatt: gli antichi popoli sostenevano che guardare negli occhi le divinità femminili più “tenebrose” (e tra queste rientrava Lussi) portava a conseguenze terribili e irreversibili. Curiosamente, tutto ciò riporta a una credenza relativa a Santa Lucia. Ai bambini si raccomandava di non guardarla, quando passava di casa in casa per consegnare i doni, perchè avrebbe gettato cenere nei loro occhi accecandoli temporaneamente.

 

 

Gli stessi occhi che Lucia conserva in un piattino sono un’ immagine inquietante. Eppure, al tempo stesso, hanno una valenza positiva: emblema di luce, gli occhi giacciono inanimi così come il Sole soccombe all’ oscurità dell’ Inverno. Ma la luce e il Sole rinasceranno a Yule, il giorno del Solstizio, quando il buio comincerà ad arretrare progressivamente. In omaggio al Sole che rinasce, gli svedesi hanno ideato un dessert tipico della festa di Santa Lucia: i Lussekatter, ribattezzati in Italia “Gatti di Santa Lucia”. Si tratta di dolcetti soffici e di un giallo luminoso (come lo è, appunto, il Sole) ottenuto con lo zafferano. La loro forma ad “S” rimanda, non a caso, alla rinascita ciclica del Sole, anche se da molti viene associata alla coda del gatto protagonista di un’antica leggenda sui Lussekatter.

 

 

L’ illustrazione è dell’ artista svedese Gerda Tirén

 

La Toscana d’autunno

 

” La Toscana è bella d’autunno. Puoi camminare lungo sentieri che hanno il profumo dei funghi e delle ginestre, ascoltare le voci del vento che chiama dai poggi orlati di cipressi e di abeti, pescare le anguille nei borri dove il torrente rotola sui sassi scivolosi di borracina, andare a caccia di lepri e di fagiani nelle macchie di erica rossa, ed è tempo di vendemmia, l’ uva si gonfia violetta tra i pampini fitti, i fichi pendono dolci dai rami che fremono di fringuelli e di allodole, nei boschi le foglie si accendono di giallo e di arancione bruciando il monotono verde d’estate. Se ti senti stanco di te stesso e hai bisogno di ritrovare te stesso, lavarti dei dubbi, non c’è posto migliore della Toscana d’autunno: andiamo in Toscana, ti dissi. Venisti, e la vecchia casa sulla collina non era mai stata incantevole come quell’ autunno. L’ edera l’ aveva fasciata in fiammate di rosso che si arrampicavano fino alle finestre del secondo piano e ai merli della torretta, i rosai erano inaspettatamente sbocciati in un tripudio primaverile, e così il glicine che dalla ringhiera della terrazza prorompeva in cascate di tenero azzurro. Era fiorito anche il corbezzolo dinanzi alla cappella, bacche di porpora su cui i merli si gettavano ingordi, e nella vasca le ninfee galleggiavano bianche, superbe. Tu però vi gettasti un’ occhiata di indifferenza e poi ti confinasti in una reclusione che escludeva ogni interesse o curiosità. Per giorni e giorni non uscisti quasi mai. Non ti inoltrasti mai tra i filari di viti per cogliere un chicco d’uva, non ti recasti mai nel bosco per respirare l’aria odorosa di ginestre e ammirare il paesaggio dalla cima del crinale. Solo una volta ti spingesti trenta metri oltre il cancello per scoprire, sorpreso, che le castagne maturano dentro un involucro irto di aculei e le noci dentro una buccia chiamata mallo, e un’ altra scendesti in giardino per notare con raccapriccio che nella vasca delle ninfee c’erano i pesci e per chiedere se nella cappella c’erano i morti. “

 

Oriana Fallaci, da “Un uomo”