Svegliarsi a Firenze

 

” Era piacevole svegliarsi a Firenze, aprire gli occhi su una camera nuda e luminosa, con il pavimento di piastrelle rosse che parevano pulite e non lo erano, con il soffitto dipinto, dove grifoni rosa e amorini azzurri si svagavano in una foresta di violini e fagotti gialli. Era piacevole anche spalancare le finestre, ferendosi le dita con chiavistelli non familiari, affacciarsi nel sole con le colline, gli alberi e le chiese di marmo di fronte, e sotto, non lontano, l’Arno, che gorgogliava contro il terrapieno della strada. Sul greto sabbioso alcuni uomini erano al lavoro, con vanghe e setacci, e sul fiume c’era una barca, a sua volta adibita a qualche fine misterioso. Un tram elettrico passò di corsa sotto la finestra. Non c’era nessuno, dentro, tranne un turista. Ma le piattaforme traboccavano di italiani che preferivano viaggiare in piedi.  Alcuni bambini tentavano di attaccarsi alla parte posteriore del veicolo, e il conducente, senza alcuna cattiveria, sputava loro in faccia, per costringerli a staccarsi. Poi apparvero dei soldati – uomini piccoli ma di bell’aspetto – ciascuno col suo zaino ricoperto di pelliccia malconcia, e il cappotto di taglia troppo grande. Accanto a loro marciavano gli ufficiali, con aria stupida e feroce, e davanti a tutti altri bambini, che facevano le capriole al ritmo della banda. Il tram restò intrappolato tra i ranghi, e continuò ad avanzare faticosamente, come un bruco in uno sciame di formiche. Uno dei bambini cadde a terra, e da un’arcata sbucarono alcuni manzi bianchi. In effetti, se non fosse stato per l’intervento di un vecchio che vendeva gancetti, la strada non si sarebbe più sgombrata. Si possono passare ore preziose a contemplare trivialità del genere, e il viaggiatore venuto in Italia per studiare i valori tattili di Giotto (…) corre il rischio di tornare in patria senza altri ricordi se non quello del cielo azzurro e degli uomini e delle donne che vivono sotto di esso. Fu quindi un bene che Miss Bartlett bussasse alla porta, entrasse in camera di Lucy e, dopo qualche commento sul fatto che la ragazza non avesse chiuso la porta a chiave e si fosse affacciata alla finestra prima di aver finito di vestirsi di tutto punto, la invitasse ad affrettarsi, se non voleva sprecare così la parte migliore della giornata. “

Edward Morgan Forster, da “Camera con vista” (Garzanti Libri)

 

La notte di San Giovanni

 

“Cadeva la notte di San Giovanni. Olì uscì dalla cantoniera biancheggiante sull’orlo dello stradale che da Nuoro conduce a Mamojada, e s’avviò pei campi. Era una ragazza quindicenne, alta e bella, con due grandi occhi felini, glauchi e un po’ obliqui, e la bocca voluttuosa il cui labbro inferiore, spaccato nel mezzo, pareva composto da due ciliegie. Dalla cuffietta rossa, legata sotto il mento sporgente, uscivano due bende di lucidi capelli neri attortigliati intorno alle orecchie: questa acconciatura ed il costume pittoresco, dalla sottana rossa e il corsettino di broccato che sosteneva il seno con due punte ricurve, davano alla fanciulla una grazia orientale. Fra le dita cerchiate di anellini di metallo, Olì recava strisce di scarlatto e nastri coi quali voleva segnare i fiori di San Giovanni, cioè i cespugli di verbasco, di timo e d’asfodelo da cogliere l’indomani all’alba per farne medicinali ed amuleti. D’altronde Olì pensava che anche non segnando i cespugli che voleva cogliere, nessuno glieli avrebbe toccati: i campi intorno alla cantoniera dove ella viveva col padre ed i fratellini, erano completamente deserti. Solo in lontananza una casa campestre in rovina emergeva da un campo di grano, come uno scoglio in un lago verde. Nella campagna intorno moriva la selvaggia primavera sarda: si sfogliavano i fiori dell’asfodelo e i grappoli d’oro della ginestra; le rose impallidivano nelle macchie, l’erba ingialliva, un caldo odore di fieno profumava l’aria grave. La via lattea e l’ultimo splendore dell’ orizzonte, fasciato da una striscia verdastra e rosea che pareva il mare lontano, rendevano la notte chiara come un crepuscolo. Vicino al fiume, la cui acqua scarsissima rifletteva le stelle e il cielo violaceo, Olì trovò due dei suoi fratellini che cercavano grilli. (…) Olì andò oltre: oltre l’alveo del fiume, oltre il sentiero, oltre le macchie di olivastro: qua e là si curvava e legava con un nastro le cime di qualche cespuglio, poi si rizzava e scrutava la notte con lo sguardo acuto dei suoi occhi felini. “

Grazia Deledda, da “Cenere”

 

 

Pallide stelle sull’ acqua sacra

 

” E di notte il fiume scorre, pallide stelle sull’acqua sacra, alcune affondano come veli, altre sembrano pesci, la grande luna che una volta era rosea adesso è alta come latte fiammeggiante e agita il suo candido riflesso verticale e profondo nella corrente scura del letto del fiume che crea una massa turbinosa. (…) I bambini sono usciti per l’ ultimo gioco, le madri fanno piani per il giorno dopo e riordinano in cucina, lo puoi sentire da fuori, nei frutteti dalle foglie fruscianti, nell’ ondeggiare del granturco, nella notte che diffonde il dolce fruscio di mille foglie, notte di sospiri, di canzoni e di sussurri. Mille cose su e giù per la via, profonde, graziose, pericolose, che respirano, pulsano come stelle; un fischio, un debole grido; il flusso di Lowell sui tetti lì in fondo; il barcone sul fiume, l’oca selvatica della notte che ciarla, si immerge nella sabbia, e luccica; lo sciabordio ululante e il sussurro e l’adorato mistero sulla riva; buio, sempre buio, le furbe labbra invisibili del fiume che mormorano baci, che mangiano la notte, che rubano la sabbia, furtive. ” Mag-gie!” i bambini chiamano sotto il ponte della ferrovia dove stanno nuotando. Il treno merci risuona ancora, lungo cento carrozze, le macchine gettano bagliori sui piccoli bagnanti bianchi, cavallini di Picasso della notte, densi e tragici, dalla tristezza giunge la mia anima cercando quello che c’era e che è scomparso, perduto, in fondo a un sentiero – la tristezza dell’ amore. Maggie, la ragazza che ho amato. 

 

Jack Kerouac, da “Maggie Cassidy”

Samantha

 

Ero seduta accanto a una ragazza con un abito di gomma; sembrava che l’avessero pitturata di lattice. Il segnaposto diceva: Samantha Binghamton e ogni due secondi le scattavano una foto. Aveva una selvaggia chioma nera (forse una parrucca) e un collo lungo e magro, (…) molto elegante (…). Aveva conosciuto il marito – seduto accanto a lei – in seconda elementare. Lui veniva da una famiglia favolosamente ricca e ora aveva una delle gallerie più famose del mondo. Lei era stata una celebre agente cinematografica, amicissima di Dustin Hoffman e John Houston, e uno dei suoi clienti era in un film che aveva fatto piazza pulita degli Oscar l’anno precedente. Eppure, nonostante avesse solo 28 anni e fosse quasi all’apice della carriera, aveva deciso che non era felice. Dato che suo marito la poteva mantenere e lei non aveva bisogno di lavorare, aveva mollato il lavoro due settimane prima per diventare una rock star. Quello era il suo sogno. Al momento non aveva ancora trovato un manager, ma sembrava dovesse succedere da un momento all’altro. (…) Nella toilette ci applicammo vari strati di make up cavati dalla trousse di Samantha. “Il tipo seduto vicino a te”, disse incipriandosi il naso, “stai con lui, vero?Viviamo insieme”, risposi. E’ Stash”. Proprio questo volevo chiederti “, ricominciò lei. E’ Stash Stosz, vero? Quello a cui hanno appena fatto una recensione terribile?  “Già”. Tirò fuori uno spinello dalla borsetta. “E’ ricco?” chiese accendendo lo spinello e passandomelo. “No”. “E tu?” “Neanche”. “E allora, perché stai con lui?” “Beh, io….” Balbettai. Ero sbalordita.

 

Tama Janowitz, da “Schiavi di New York”