Vita, favola o mito

 

” Quante risate! Non hanno mai saputo cosa fare della mia data di nascita. E’ nata il 6 luglio 1907? Oppure il 7 luglio 1910? Mi sono proprio divertita a guardarli mentre se la sbrogliavano. Tutti, sedicenti biografi, universitari, giornalisti, studenti, amici, rimanevano confusi, si sentivano obbligati a dimostrare. Talvolta gli piaceva immaginare che la mia vita, raccontata o no per bocca mia, non potesse che essere favola o mito. Avevano continuamente bisogno di persuadersi che ogni mia azione, ogni avvenimento dovesse far parte del “personaggio Frida Kahlo”. Altri si angosciavano: la loro richiesta di onestà risultava intimidita dal fatto di non poter afferrare la “verità”. A questi, occorreva la data esatta, senza la quale la loro coscienza soffriva di “disturbi d’almanacco”, strana vertigine! Oppure si mettevano d’accordo – ed era un modo per risolvere la questione -, sostenendo che io fossi un po’ squilibrata, cosa che aveva il vantaggio di non fare del male a nessuno e di rassicurare tutti. E io, come un diavoletto. E io, birichina. E io, beffarda. (…) Come trascurano, stranamente, che la maggior parte della gente sogna di cambiare nome, faccia, quando non pelle o vita. Allora, io, sì, ho cambiato la mia data di nascita (…). Sono nata con una rivoluzione. Diciamolo. E’ in quel fuoco che sono nata, portata dall’ impeto della rivolta fino al momento di vedere giorno. Il giorno era cocente. Mi ha infiammato per il resto della mia vita. Da bambina, crepitavo. Da adulta, ero una fiamma. Sono proprio figlia di una rivoluzione, non v’è dubbio, e di un vecchio dio del fuoco adorato dai miei antenati. Sono nata nel 1910. Era estate. Di lì a poco, Emiliano Zapata, el Gran Insurrecto, avrebbe sollevato il Sud. Ho avuto questa fortuna: il 1910 è la mia data.”

 

Frida Kahlo in “Frida Kahlo”, di Rauda Jamis

 

Alta Moda AI 2019-20: flash dalle sfilate di Parigi (parte 2)

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Continua l’excursus di VALIUM sui défilé parigini di Haute Couture. In questa seconda ed ultima puntata ci inoltreremo nei meandri di creazioni da sogno come quelle di Valentino, Viktor & Rolf, Maison Margiela Artisanal e Jean-Paul Gaultier.

 

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3.  MAISON MARGIELA ARTISANAL – John Galliano, il rapporto tra social e società, la sperimentazione sartoriale. Autodefinendosi “anarchico e impulsivo”, il designer traduce l’era di Instagram in stampe che proiettano immagini e pattern sugli outfit e si lancia a briglia sciolta in una rivoluzione che dona funzioni inedite (e assolutamente no gender) ai basic del guardaroba: i pantaloni diventano abiti con tanto di bustino, mentre i look da uomo ostentano giarrettiere “sadomaso” in pelle nera.

 

 

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3. JEAN-PAUL GAULTIER – Una collezione che punta verso l’alto: ispirato dall’ idea di un cappuccio a forma conica, Gaultier eleva sopra il capo abiti e capispalla, ma innalza anche i colli e le spalline di chiara matrice anni ’80. Le pellicce leopardate in fake fur sfoggiano revers rivolti al cielo, così come gran parte dei look vi si staglia assumendo linee “cone-shaped”. Non mancano rivisitazioni dei cult del designer accanto a pattern psichedelici, piume, paillettes e rifiniture arcobaleno.

 

 

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3. VIKTOR & ROLF – Magia ed incantesimi per una collezione all’ insegna dello “Spiritual Glamour”. Viktor & Rolf inneggiano alla notte, alla natura, a un glamour intriso dell’ incanto di un sortilegio, optando per tonalità buie che esplorano varie declinazioni del nero notte: l’artista e designer tessile olandese Claudy Jongstra le ottiene grazie a un sapiente uso dei pigmenti vegetali e ricerca la “formula alchemica” del Burgundian Black, il mitico nero originato da una mistura di ingredienti antichissimi. Le forme sono ampie, di volta in volta a uovo o svasatissime, e donano una allure inconfondibile alle “streghe” del 2000.

 

 

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3. VALENTINO – Ancora una volta Pierpaolo Piccioli ci regala una collezione che è spettacolarità pura e raffinatissima: un viaggio in lande esotiche che lasciano molteplici tracce sia dal punto di vista stilistico che negli stupefacenti colori. Ecco allora risaltare svariate nuance di giallo, il viola, il lilla, l’azzurro, il fucsia, il rosa, il verde mela, senza tralasciare – ovviamente – il leggendario “rosso Valentino”. Il savoir faire sartoriale è minuziosissimo, degno del plauso generale alla fine della sfilata; i volumi scultorei, modellati sul taffetà, si alternano a forme più fluide a base di chiffon. Un tripudio di spessi fili in lana ornamentali accentua il tocco folk, così come i copricapi in stile mongolo o marcatamente marocchino.

 

 

 

 

Tendenze PE 2019 – Il long dress…50 anni dopo

CAROLINA HERRERA

Il 1969 festeggia il suo 50esimo: ci separa esattamente mezzo secolo dal Festival di Woodstock che, all’ insegna del motto “Peace & Love”, radunò un pubblico di 500.000 spettatori. Nel pieno dell’ era Hippie, anche la moda stravolse i cardini dello stile. Alle minigonne cominciarono a sostituirsi abiti lunghi, dagli orli rasoterra, ispirati allo stile gipsy o ai costumi tradizionali delle lande esotiche che si raggiungevano con il Magic Bus. Quegli stessi abiti oggi ritornano e diventano i protagonisti dell’ Estate: abbandonata definitivamente l’equazione “abito lungo=abito da sera”, il long dress ci accompagna 24 ore su 24 mettendo in atto, 50 anni dopo, la sua nuova rivoluzione. Le linee ricordano molto quelle del “Flower Power”, esaltano le ampiezze e di frequente sono impreziosite dalle maniche a sbuffo. I tessuti fluttuano ad ogni passo, plissé e drappeggi amplificano la loro vaporosità. A fare da leitmotiv è un mood romantico che, ora come ieri, si associa ad un profondo senso di libertà.

 

ROKSANDA

PHILOSOPHY DI LORENZO SERAFINI 

GUCCI

EMILIA WICKSTEAD

DIOR

ALBERTA FERRETTI

BRANDON MAXWELL

STELLA McCARTNEY

 

 

 

 

 

“Christian Dior, couturier du reve”: la grande mostra che celebra i 70 anni della Maison

Christian Dior, Bar suit, Haute Couture, Spring-Summer 1947, Afternoon suit, Shantung jacket , Pleated corolla skirt in wool crêpe, Musée des Arts Décoratifs, UFAC
© Photo Les Arts Décoratifs / Nicholas Alan Cope

Sono trascorsi 70 anni da quando il New Look, nel secondo dopoguerra, rivoluzionò in toto la silhouette femminile. Era il 1947 e la collezione Primavera/Estate di Christian Dior, contrapponendo uno charme elegante alle austerità imperanti durante il conflitto bellico, riscosse un successo tale da far sì che Parigi fosse ribattezzata “capitale della moda internazionale”. Da allora, la Maison Dior ha conosciuto un’ epopea di invariato splendore che in occasione del suo 70mo viene celebrata da una retrospettiva parigina: “Christian Dior, couturier du reve” è appena stata inaugurata presso il Musée des Arts Décoratifs e sarà visitabile fino al 7 Gennaio 2018. La mostra approfondisce ad ampio spettro l’ universo Dior, ripercorrendo il percorso inaugurato da Monsieur Christian fino ad approdare ai suoi illustri successori; il tributo è in grande stile, forse il più maestoso mai dedicato alla Maison. Agli oltre 300 abiti di Haute Couture selezionati viene affiancato, infatti, il fitto patrimonio intangibile costituito dalle emozioni, dalle storie di vita, dalle affinità e dalle ispirazioni, un heritage insostituibile documentato attraverso documenti, tele d’atelier, fotografie, schizzi, illustrazioni e reperti pubblicitari oltre che da accessori come i cappelli, le scarpe, le borse e dagli storici profumi Dior.

Christian Dior, Opéra Bouffe gown, Haute Couture, Fall-Winter 1956, Aiman line Short evening gown in silk faille by Abraham, Paris, Dior Héritage
© Photo Les Arts Décoratifs / Nicholas Alan Cope *

A dare il via al percorso espositivo, un approfondimento biografico sul “couturier du reve”: l’ infanzia a Grenville, gli Anni Ruggenti trascorsi in una Parigi effervescente dove inaugurò una galleria d’Arte, gli inizi nella Haute Couture come illustratore vengono evidenziati al pari delle sue passioni. L’ arte fu, senza dubbio, l’ amore principale di Christian Dior. Lo rivela il feeling che instaurò con nomi del calibro di Giacometti, Max Jacob, Dalì, Leonor Fini, Jean Cocteau e moltissimi altri habitué della galleria, ma anche la cospicua serie di dipinti, arredi, sculture, oggetti di antiquariato e d’arte esposti ad avvalorare la sua inclinazione. I curatori Florence Muller e Olivier Gabet hanno organizzato un excursus cronologico e tematico che si estende nei 3000 mq del Museo con dovizia di particolari: “raccontare” la Maison Dior significa anche, naturalmente, non tralasciare il prezioso ruolo che le creazioni fur di Frédéric Castet, i beauty look di Serge Lutens, Thyen e Peter Philips e le fragranze di François Demachy hanno rivestito nel forgiare la sua estetica. Fondamentale è poi lo spazio dedicato ai couturier che, dal 1957 (anno in cui Christian Dior morì improvvisamente) ad oggi, hanno portato avanti il suo heritage. Le creazioni di Yves Saint Laurent, Marc Bohan, Gianfranco Ferrè, John Galliano, Raf Simons e Maria Grazia Chiuri vengono omaggiate  in 6 gallerie che evidenziano le loro rispettive riletture di uno stile ormai leggendario.

Maria Grazia Chiuri for Christian Dior, Essence d’herbier cocktail dress, Haute Couture, Spring-Summer 2017, Ecru fringe cocktail dress, floral raffia and thread embroidery adomed with Swarovski crystals, derived from a Christian Dior original
© Photo Les Arts Décoratifs / Nicholas Alan Cope *

Quando il New Look trionfò, si impose una moda dai codici del tutto inediti: la linea a corolla, che sottolineava la vita e amplificava le gonne a dismisura, esaltava una nuova femminilità. Le spalle si arrotondavano dolcemente, il busto risaltava grazie a bar jacket aderenti e gli accessori – cappello, borsa, guanti – si tramutavano in parte integrante della mise. Al razionamento dei tessuti tipico della Seconda Guerra Mondiale venivano sostituite stoffe in metratura extra, la donna si riappropriava del gusto di abbigliarsi e di esibire glamour allo stato puro. La passione per l’arte e per l’ antiquariato divenne, per Christian Dior, sommo leitmotiv ispirativo: se ne rinvengono tracce sia nel design che nei pattern decorativi. Dal 1957 ad oggi, i couturier che gli sono succeduti hanno reinterpretato la sua cifra stilistica attingendo ai più svariati spunti. La raffinata audacia di Saint Laurent, lo chic lineare di Marc Bohan, le suggestioni architettoniche di Gianfranco Ferrè, la Punk couture teatrale di John Galliano, il rigoroso minimal di Raf Simons e il femminismo luxury di Maria Grazia Chiuri vengono analizzati, nella mostra, tramite outfit tanto splendidi quanto significativi.

John Galliano for Christian Dior, Shéhérazade ensemble, Haute Couture, Spring-Summer 1998 Evening ensemble , Ballets-Russes-inspired kimono, pyramid line with large silk velvet funnel collar, appliqué décor, embroidery and incrustation of Swarovski crystals, Long double satin sheath dress, Paris, Dior Héritage © Photo Les Arts Décoratifs / Nicholas Alan Cope *

A concludere l’ esposizione, la navata centrale si tramuta in sala da ballo per accogliere un novero di evening dress spettacolari. Alcuni di essi sono stati indossati da VIP del calibro della Principessa Grace di Monaco, Lady Diana Spencer, Charlize Theron e Jennifer Lawrence, affascinanti figure chiave dell’ iconografia Dior. Altre creazioni, sono per la prima volta visibili a Parigi. Tutti gli abiti contribuiscono, mirabilmente, ad illustrare la storia mitica di una Maison che del glamour ha fatto il suo emblema più sublime.

Gianfranco Ferré for Christian Dior, Palladio dress, Haute Couture, Spring-Summer 1992, In Balmy Summer Breezes line, Long embroidered and pleated white silk georgette sheath dress Paris, Dior Héritage © Photo Les Arts Décoratifs / Nicholas Alan Cope *

“CHRISTIAN DIOR, COUTURIER DU REVE”

Una mostra a cura di Florence Muller e Olivier Gabet con lo sponsor di Swarovski

Dal 5 Luglio 2017 al 7 Gennaio 2018

c/o Museé des Arts Décoratifs

107, Rue de Rivoli

Parigi

Per info: www.lesartsdecoratifs.fr

 

Raf Simons for Christian Dior, Haute Couture, Fall-Winter 2012
¾-length yellow duchess satin evening dress with Sterling Ruby SP178 shadow print, Paris, Dior Héritage, © Photo Les Arts Décoratifs / Nicholas Alan Cope *

Yves Saint Laurent for Christian Dior, Bonne Conduite dress, Haute Couture,
Spring-Summer 1958, Trapèze line, Smock dress in speckled wool by Rodier, Paris, Pierre Bergé – Yves Saint Laurent Foundation © Photo Les Arts Décoratifs / Nicholas Alan Cope *

Marc Bohan for Christian Dior, Gamin suit, Haute Couture, Fall-Winter 1961, Charme 62 line,Tweed suit, Short double-breasted jacket, Trapeze skirt and matching scarf Paris, Dior Héritage © Photo Les Arts Décoratifs / Nicholas Alan Cope *

Photo courtesy of Musée des Arts Décoratifs

Vernis à Lèvres di YSL, un cult dall’ anima rock

 

Gli articoli e gli omaggi a Anita Pallenberg pubblicati di recente hanno riacceso l’ attenzione su un fenomeno che il tempo sembrava aver affievolito: il rock e le sue muse. YSL ci conferma che il topic è più che mai vivo  rilanciando “a tutto volume” il leggendario Vernis à Lèvres. Lucente come un gloss e aderente come uno smalto per labbra, il lipstick cult di Yves Saint Laurent ha un’ anima rock al pari della donna che lo indossa. Risalta con potenza emanando volitività e carisma, i trademark di colei che vive la vita da assoluta protagonista: “voglio tutto, e lo voglio subito” è il suo motto. Il guru dell’ obiettivo Craig McDean ne traduce il mood in una campagna very glamourous con la top Staz Lindes come testimonial. Chioma arruffata e look in total black dal sapore 70s,  Staz imbraccia il basso e stende sulle labbra uno strato di Vernis à Lèvres  prima di esibirsi in una scatenata performance. L’ impatto è travolgente, il nero della mise si mescola ad esplosioni di rosso in uno straordinario tripudio cromatico: è il trionfo della rocker, di una femminilità ribelle e audace che non teme i riflettori puntati addosso.

 

 

 

Vernis à Lèvres è il suo lipstick, un’ armonia di note dalla luminosità intensa e dalla texture fondente. La tenuta è DOC grazie a una formula che aderisce immediatamente alle labbra, il colore è ultraglossy e ad effetto lacca: YSL dà vita ad una vera e propria rivoluzione nel make up associando alla brillantezza di un gloss la lunga durata tipica di un rossetto. Le nuance spaziano tra varie tonalità di rosso e rosa, evidenziando una palette a dir poco deliziosa.

E per chi ama sperimentare, il trio Primary Colour YSL darà modo di lanciarsi in molteplici combinazioni di colore: Magenta Amplifier, Yellow Amplifier e Blue Amplifier possono essere usati sia individualmente, che mixando agli altri Vernis à Lèvres le loro nuance di magenta, giallo e azzurro.  Chi aveva detto che “il rock è morto”?

 

 

Photo advertising campaign by Craig McDean

“Rei Kawakubo/Comme des Garçons: Art of the In-Between”: al via la mostra annuale del MET

Blue Witch, spring/summer 2016. Photo by © Paolo Roversi; Courtesy of The Metropolitan Museum of Art

Il caschetto nero, geometrico, con frangetta, e l’ immancabile chiodo: la sua immagine stessa è iconica. E a un’ iconografia innovativa, potentemente di rottura, Rei Kawakubo ha consacrato tutta la propria ricerca stilistica. Non è un caso che proprio a lei il Costume Institute del Metropolitan Museum of Arts di New York dedichi la sua mostra-evento annuale, appena inaugurata e visitabile fino al prossimo 4 Settembre. Classe 1942, nata a Tokyo, Rei Kawakubo è la seconda designer vivente (e la prima designer donna) che il  Museo della 5th Avenue decide di omaggiare dopo la grande retrospettiva dell’ ’83 su Yves Saint-Laurent. Il titolo dell’ esposizione – curata da Andrew Bolton – è indicativo: “Rei Kawakubo/Comme des Garçons: Art of the In-Between”, un inno agli interstizialismi sui quali l’ estetica della stilista si fonda e si sviluppa, i punti di incontro che connettono gli ossimori donando loro una forma del tutto inedita. E’ questo il tema base di un iter snodato tra circa 150 abiti appartenenti alle collezioni che Kawakubo ha creato dal 1980 ad oggi,  un approfondimento che esula dai criteri cronologici suddividendosi in 8 aree corrispondenti a dualismi quali Fashion/Anti-Fashion, Design/Not Design, Model/Multiple, Then/Now, High/Low, Self/Other, Other/Subject, Clothes/No Clothes. Non esistono definizioni per Rei Kawakubo, la creazione coinvolge un concetto ed il suo esatto opposto in una convivenza che abbatte qualsiasi confine: quando nel 1969, a Tokyo, dà vita al brand Comme des Garçons dopo una laurea in Letteratura all’ Università di Keio e alcune esperienze come freelancer, la sua filosofia è ben chiara sin dal nome con cui lo battezza.

Body Meets Dress–Dress Meets Body, spring/summer 1997. Photo by © Paolo Roversi; Courtesy of The Metropolitan Museum of Art

Il debutto sulle passerelle parigine, nel 1981, afferma con forza la sua rivoluzionaria visione. Le modelle sfilano pallide, avvolte in forme che anzichè evidenziare il corpo lo rimodellano, stravolgono i volumi in una miriade di asimmetrie, sovrapposizioni, elementi tridimensionali. La palette cromatica è un inno al nero, tutt’ al più accostato al bianco o al grigio. Lo stile rimette in discussione la moda nella sua accezione stessa: minimalismo, modernismo e concettualismo si mixano, a imporsi è un’ ispirazione che attinge unicamente all’ essenza interiore. Gli abiti di Kawakubo nulla concedono agli stilemi standard, ai riferimenti geografici o alla tradizione. I punti cardine del fashion vengono costantemente rovesciati, sezionati e riassemblati secondo criteri agli esatti antipodi del “conventional”, donando alla nozione di “bellezza” un significato nuovo e sfaccettato in toto.  Per Comme des Garçons è un boom, il trionfo di un’ estetica giapponese che ha in Rei Kawakubo, Yohji Yamamoto e Issey Miyake le proprie punte di diamante. Quel che accomuna i tre innovativi designers è la sperimentazione sulle forme e sui materiali, la concezione dell’ abito come una struttura scultorea che definisce la silhouette ex novo.

Rei Kawakubo for Comme des Garçons. Photo by © Paolo Roversi; Courtesy of The Metropolitan Museum of Art

Nel tempo, Kawakubo accentua questo aspetto fino a creare delle vere e proprie opere d’arte: con l’arte, d’altronde, la stilista celebrata dal MET ha sempre mantenuto un feeling speciale. Basta pensare alla campagna pubblicitaria Comme des Garçons dell’ ’89 con Francesco Clemente come protagonista o a quella che, nel ’93, Cindy Sherman imbastisce sui propri self-portraits concettuali. Le contaminazioni tra arte, moda e cultura sono una costante dell’ incessante ricerca di Rei Kawakubo: dal suo immaginario fertile scaturisce un tripudio di iniziative e di intuizioni. Comme des Garçons è ormai un brand che coinvolge il suo universo creativo a 360°: nel 1988 nasce Six, la rivista biennale del marchio, a cui fa seguito una linea di profumi che dal 1994 anticipa il trend “no-gender” proponendosi in versione esclusivamente unisex, le magnifiche advertising campaign vengono firmate da top names della fotografia quali Paolo Roversi e Juergen Teller.

Blood and Roses, spring/summer 2015. Photo by © Paolo Roversi; Courtesy of The Metropolitan Museum of Art

L’ eclettismo di Rei Kawakubo, così come la sua ispirazione, non ha confini e si traduce inoltre – citando un ulteriore esempio – nell’ ideazione del Dover Street Market, noto tempio del luxury retail che si disloca oggi tra Londra, New York, Pechino e Tokyo.  L’ inventiva della designer si dirama in molteplici direzioni, tutte rigorosamente associate da un denominatore comune: la ricerca del nuovo in senso assoluto. Un obiettivo che ha pienamente centrato, a cominciare dalla moda. “Non esistono limiti” – come ha dichiarato Kawakubo stessa – “Cerco di fare abiti che non sono mai esistiti prima”.

Blue Witch, spring/summer 2016. Photo by © Paolo Roversi; Courtesy of The Metropolitan Museum of Art

La mostra è corredata da un catalogo, a cura di Andrew Bolton, che raccoglie scatti originali di Paolo Roversi, Nicholas Alan Cope, Inez & Vinoodh, Craig McDean, Kazumi Kurigami, Katerina Jebb, Collier Schorr, Ari Marcopoulos e Brigitte Niedermair.

“Rei Kawakubo/Comme des Garçons: Art of the In-Between”

Dal 4 Maggio al 4 Settembre 2017

Metropolitan Museum of Arts, 1000 5th Avenue, New York

Per info: www.metmuseum.org

Blue Witch, spring/summer 2016. Photo by © Paolo Roversi; Courtesy of The Metropolitan Museum of Art

Body Meets Dress–Dress Meets Body, spring/summer 1997. Photo by © Paolo Roversi; Courtesy of The Metropolitan Museum of Art

Body Meets Dress – Dress Meets Body, spring/summer 1997. Photo by © Paolo Roversi; Courtesy of The Metropolitan Museum of Art

18th-Century Punk, autumn/winter 2016–17. Photo by © Paolo Roversi; Courtesy of The Metropolitan Museum of Art

18th Century Punk, autumn/winter 2016–17. Photo by © Paolo Roversi; Courtesy of The Metropolitan Museum of Art

Cubisme, spring/summer 2007. Photo by © Craig McDean; Courtesy of The Metropolitan Museum of Art

Inside Decoration, autumn/winter 2010–11. Photo by © Craig McDean; Courtesy of The Metropolitan Museum of Art

Photo courtesy of The Metropolitan Museum of Art

Il close-up della settimana

(Photo by Richard Avedon)

Il 50mo anniversario della nascita della minigonna la vede protagonista al pari di Mary Quant.  E a ragion veduta: Twiggy (al secolo, Lesley Hornby), nata nel 1949 nel sobborgo londinese di Neasden , della minigonna divenne immagine, portabandiera e testimonial ufficiale. La sua carriera nel fashion business inizia inaspettatamente, per un fortuito caso. E’ una sciampista sedicenne quando nella parrucchieria in cui lavora viene notata dal fotografo  Justin de Villeneuve, che rimane colpito dal suo fisico longilineo, magrissimo, quasi androgino, e dal volto tempestato di lentiggini su cui spiccano due occhi enormi e molto intensi. Un talent-scout come de Villeneuve intuisce immediatamente che Lesley cela un potenziale immenso: è lei la ragazza degli Swinging Sixties, sarà lei a rappresentare, con il suo aspetto che rompe ogni canone estetico prestabilito, il nuovo modello di donna legato all’epoca più ribelle e innovatrice a cui il dopoguerra abbia mai assistito. Inizialmente suo boyfriend, successivamente suo manager, Justin de Villeneuve pianifica il lancio di Lesley anche nel nome: sarà semplicemente Twiggy, “ramoscello”, ad indicare la sua magrezza assoluta che imporrà in un baleno il modello della “donna stecchino”. Non più maggiorate, non più burrose e compiacenti rotondità evidenziate ad hoc per attirare lo sguardo maschile, esaudire i suoi appetiti visivi: nei ’60 le ragazze hanno lunghissime gambe, pochi fianchi, niente seno, e sfrecciano dinamiche nel paesaggio urbano in minigonna e collant, al bando gli ancheggiamenti. In un solo anno Twiggy diviene una celebrity a tutti gli effetti e Mary Quant, per il lancio su vasta scala della minigonna, la sceglie senza esitare: non esiste ragazza la cui immagine sia più perfettamente legata al nuovo stile fatto di microlunghezze, linee geometriche e colori profusi,o travolto dall’ ondata optical del black & white. Da quel momento in poi, Twiggy si tramuta in ambasciatrice privilegiata del capo che rivoluzionerà per sempre non solo la moda ma i costumi, il rapporto tra i sessi, la sessualità stessa. Con gli occhioni corredati dalle  immancabili ciglia finte spalancati sullo Swinging world, la donna simbolo dei 60s conquista consensi, proseliti e imitatrici, veicolando il mondo occidentale verso un vero e proprio giro di boa. Come modella Twiggy è richiestissima, quotata, immortalata da grandi della fotografia quali Richard Avedon, Barry Lategan, Bert Stern che la renderanno icona di un’epoca effervescente, forse unica. Questa foto la ritrae al top dello stile 60s per eccellenza: miniabito geometrico dalle linee pulite e stilizzate, colori pastello, enormi orecchini in pendant con i toni dell’ abito, di cui esaltano le geometrie proponendosi come due sfere colorate. Lo sfondo è rigorosamente piatto, di un carico rosa antico che sottolinea toni e colori esibiti dalla Swinging Girl.  Il make up, come sempre, enfatizza lo sguardo e vela le labbra di un gloss cangiante. Il taglio sfoggiato, un bob ramato alla Vidal Sassoon, è un dettaglio in più che contribuisce a rendere la foto un ritratto d’epoca. Mezzo secolo è passato da quando Twiggy, seguita a ruota da migliaia di altre ragazze, sfoggiava minigonne e miniabiti con sofisticata disinvoltura. Un mezzo secolo che ha visto evolvere ad andamento vertiginoso l’humus culturale contemporaneo in toto. Oggi, minigonne e abitini sono sempre presenti nei nostri guardaroba e quest’ anno, grazie a un massiccio ritorno dello stile 60s , più che mai. Eppure, guardando questa Twiggy ipercompresa nel suo ruolo di musa e ‘testimonial’ degli Swinging Sixties, una forte nostalgia ci assale: quella di un’ epoca  in pieno fermento, che rimetteva in discussione valori e modelli aprendo gli orizzonti a sempre nuove opportunità. La minigonna ne diventa simbolo e capo iconico, eredità assoluta di anni che hanno contribuito a cambiare il mondo. Anche in due spanne di stoffa!

 

Photo by Richard Avedon via Confetta on Flickr, CC-BY-NC-SA 2.0

‘Hippie’ di Barry Miles: controcultura per immagini

 

Per descrivere adeguatamente la figura di Barry Miles, un solo post non basterebbe. Riassumendo il personaggio in una sintesi incisiva, cercherò di delinearne un breve ritratto: nato a Cirencester nel 1943, Miles è uno scrittore e giornalista del Regno Unito che ha frequentemente trattato, nelle sue opere e nei suoi scritti, i temi dei movimenti giovanili e della cultura underground degli anni ’60. Tra le tappe più significative del suo percorso esplorativo della Swinging London,  l’ apertura della libreria e galleria d’arte Indica Gallery nel 1966, al 6 di Mason Yard, fu una pietra miliare: fondata da Miles insieme a John Dunbar e a Peter Asher (fratello di una girlfriend di Paul Mc Cartney), divenne lo snodo di tutte le pubblicazioni sulla controcultura dell’ epoca ospitando regolarmente tra i propri scaffali stampa, libri e ogni genere letterario relativo al soggetto, con particolare riferimento alla Beat Generation. Miles stesso fondò. nel 1967, il periodico indipendente International Times, per la raccolta di fondi del quale organizzò un memorabile concerto in tandem con John Hopkins: The 14 Hour Technicolor Dream, titolo che si incastra alla perfezione con certe sfaccettature ‘psichedeliche’ del periodo, vide la partecipazione di nomi quali i Pink Floyd, John Lennon, Yoko Ono, i Soft Machine e tutta una serie di poeti, artisti e musicisti. A proposito di John Lennon e Yoko Ono, leggenda vuole che proprio la Indica Gallery fu ‘galeotta’ per il loro incontro. Tornando a Miles, la sua bibliografia annovera noti titoli come London calling (2010), tomo autorevole che traccia la storia della counterculture londinese dal 1945 in poi, oltre ad un’ immensa mole di biografie di letterati, poeti, grandi del rock e del pop delle sue epoche di riferimento. Risale al 2004 la pubblicazione di Hippie, 384 pagine pubblicate per i tipi di Cassell: un voluminoso ‘coffee table book’ in cui sono le immagini -sotto forma di foto e di opere d’arte – ad avere il ruolo di protagoniste. Evitando di focalizzarsi esclusivamente sulla figura degli ‘hippies’, il libro ripercorre la storia di un periodo storico attraverso scatti che ritraggono personaggi simbolo di un’era quali (tra gli altri) Martin Luther King, Timothy Leary, Bob Dylan e i Pink Floyd. Il testo, ridotto all’ osso, lascia spazio più che altro a citazioni, slogan, testi di canzoni affiancati ad immagini atte a descrivere quel particolarissimo movimento che, a cavallo tra il 1965 e il 1971, contribuì a rivoluzionare i valori giovanili di un’ intera generazione e la cultura occidentale in toto. Il libro di Miles si sofferma, anno dopo anno, sui principali avvenimenti che contribuirono a fissarsi nella storia: la formazione delle band psichedeliche (come i Grateful Dead), la nascita degli Hare Krishna, l’ inizio della Summer of Love nello scenario di una San Francisco che, ad Haight Ashbury, ritrovava un nuovo fermento, l’ uscita di Sgt. Pepper Lonely Hearts Band dei Beatles. E mentre dall’ America all’ Europa il 1968 si identificava con l’anno, per eccellenza, delle lotte politiche, nel ’69 il Festival di Woodstock cercò di riportare in auge lo spirito del ‘Peace and Love’ all’ insegna del quale il movimento hippy si era originariamente organizzato. Eventi come i primi Gay Pride e le giornate dedicate alla Terra, nell’ America del 1970, non sarebbero rimasti isolati. Molti altri assiomi derivanti dalla Hippy Culture avrebbero percorso i decenni a venire tramutandosi in ‘must‘ anche per le generazioni successive: la diffusione del cibo organico e vegetariano, la ricerca di sè stessi tramite diverse forme di spiritualità, l’ adesione a nuove religioni o a nuovi credo. In Hippie non mancano le immagini delle copertine di dischi più significative, le testimonianze fotografiche delle proteste ‘No war’, dei sit-in, delle comuni e di quanto caratterizzava gli schemi sociali e i costumi dell’ epoca: il tutto, immortalato in una serie di 600 scatti a colori e in bianco e nero che faranno la gioia di quanti, già ‘iniziati’, vogliono approfondire il fenomeno del Flower Power privilegiandone soprattutto l’aspetto visivo.

Felice weekend.