Addio a Mary Quant, icona della Swinging London e brillante interprete di un mood epocale

Londra, 1963: Mary Quant si fa tagliare i capelli da Vidal Sassoon

 

“Non vedevo alcun motivo per cui l’infanzia non dovesse durare per sempre. Così ho creato abiti funzionali, in movimento, che permettessero alle persone di correre, saltare, di conservare la loro preziosa libertà.”

(Mary Quant)

Mary Quant è scomparsa giovedì mattina, a 93 anni. Un comunicato stampa riporta che la morte è sopraggiunta mentre la leggendaria designer si trovava nella casa che possedeva nel Surrey. Celebrata unanimemente come l’ideatrice della minigonna (nonostante la querelle con André Courrèges, che ne rivendicò più volte la paternità), pioniera della moda di un’era rivoluzionaria e anticonformista, Mary Quant è una delle supreme icone della Swinging London, “the place to be” degli anni ’60, una scoppiettante fucina di tendenze nei campi della moda e delle arti visive e figurative. A questo vortice creativo Quant aderì stravolgendo per sempre le regole dello stile: la minigonna, autentico emblema di emancipazione femminile, permetteva alle giovani donne di muoversi agevolmente lungo le vie cittadine e di prendere un autobus al volo per andare al lavoro ogni mattina.

 

 

La stilista londinese non aveva creato un semplice capo di abbigliamento, bensì l’ epitome di un mood epocale. Che accompagnò, non a caso, a collant coloratissimi, impermeabili e alti stivali in vinile (alternabili agli ankle boots con fibbia o zip laterale), gilet maschili da abbinare alla cravatta o al papillon. Il look che proponeva nelle sue boutique londinesi – Baazar, rimasta mitica, aprì i battenti a King’s Road nel 1955 – era il look per eccellenza della “It girl”, tant’è che fu proprio Twiggy a sfoggiare per prima la minigonna griffata Mary Quant. Ironia, praticità, disinvoltura e audacia rappresentavano le coordinate del signature style della designer. Imprenditrice a tutto tondo, Quant lanciò in seguito anche una linea make up. Nel frattempo si era fatta tagliare i capelli da Vidal Sassoon, che creò per lei un “bowl cut” geometrico imitatissimo, tramutandosi nella principale testimonial del proprio brand. In molti hanno paragonato l’eccezionale impatto che la moda di Mary Quant ebbe sulla società al clamore suscitato, all’ epoca, dalla musica dei Beatles: un confronto che non potrebbe essere più azzeccato. La sua fama si diffuse ben presto a livello planetario e il suo talento brillante le valse prestigiosi riconoscimenti.

 

 

Nel 1966 la Regina Elisabetta la insignì dell’ onorificenza di Ufficiale dell’ Ordine dell’ Impero Britannico “per il suo straordinario contributo al settore della moda”, e nel 2014 la onorò con il titolo di Dama Comandante dell’ Ordine dell’ Impero Britannico “per i servizi alla moda britannica”. Con Mary Quant scompare, quindi, non solo una stilista geniale e celebratissima, ma colei che seppe intercettare il prorompente desiderio di cambiamento degli Swinging Sixties per tradurlo in stile. E se la minigonna può essere definita un vero e proprio fenomeno di costume, anche la margherita che Mary Quant scelse come logo possiede un’ alta valenza simbolica: è una margherita minimal, dai petali iper arrotondati, pop al pari della corrente artistica che grazie a nomi del calibro di Andy Warhol, Roy Lichtenstein, Robert Rauschenberg e Jasper Johns imperava durante i favolosi, indimenticabili Swinging Sixties.

 

 

Foto: Mary Quant & Vidal Sassoon via Francesca Romana Correale from Flickr, CC BY-ND 2.0

Le rimanenti immagini sono di Jack de Nijs for Anefo, CC0, via Wikimedia Commons

 

I “Fab Four” e i Beatles boots, un must della Swinging London

 

” Ottobre 1961. Mentre vagavano per le strade di Londra, due ragazzi un po’ trasandati vennero attratti da una vetrina dov’erano esposti un paio di stivaletti alla caviglia con elastici laterali. Si trattava di una rivisitazione dei classici stivali ottocenteschi, in versione un po’ più affusolata. La vetrina apparteneva ad Anello & Davide, un negozio fondato nel 1922 da due fratelli italiani che nel tempo si erano specializzati nella realizzazione di calzature per lo spettacolo. I tipi entrarono, li provarono, se ne innamorarono, chiesero che venissero “corretti” con un tacco un po’ più alto, ispirato agli stivali da flamenco, e ne ordinarono quattro paia. I due si chiamavano John Lennon e Paul McCartney e avevano da poco fondato i Beatles, un gruppo di musica pop, con George Harrison e Ringo Starr. Prima ancora che raggiungessero la notorietà internazionale e che facessero scalpore con il look mod (moderno), orchestrato dal loro manager Brian Epstein, erano nati i Beatles boots. (…) Era il 23 novembre quando i “Fab Four” vennero invitati a Ready Steady Go, popolare programma TV condotto da  Cathy McGowan (…). In quell’ occasione, con un look fatto di capelli a caschetto, pantaloni affusolati, corte giacche a sacchetto firmate Dougie Millings – da cui spuntavano camicie immacolate e cravatte sottili come nastri – ma soprattutto di stivaletti alla caviglia, incarnarono per 15 milioni di spettatori televisivi l’ immagine dei ragazzi più fighi del momento. Fu allora che, con un look che sarebbe diventato l’ epitome della Swinging London, i Beatles si imposero come un modello da imitare. E, indipendentemente dalle loro “reincarnazioni” estetiche che – passando attraverso il mod arrivarono alle suggestioni psichedeliche della cover di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (1967) – gli stivaletti sono rimasti la cifra del loro imitatissimo stile. Nè più nè meno delle platform disco-glam di David Bowie o degli occhiali caleidoscopici di Elton John. “

Sofia Gnoli, da “L’alfabeto della moda”, alla voce “Beatles boot”