Digital Paris Haute Couture Week AI 2020/21: tra preview e interpretazioni d’autore

 

La magia dell’estate porta con sè ogni anno, a Luglio, le sfilate dell’ Haute Couture; a Parigi, le più prestigiose Maison internazionali presentano abiti capolavoro che rinsaldano meravigliosamente il link tra Moda e Arte. Ma cosa è cambiato nell’ organizzazione di questo appuntamento, in tempi di emergenza COVID? Innanzitutto la modalità dei fashion show, che da défilé veri e propri si sono tramutati in performance digitali. Dal 6 all’ 8 Luglio, per volere della Fédération de la Haute Couture et de la Mode, le collezioni Autunno Inverno 2020/21 dell’ Haute Couture Week parigina si sono spostate sul web declinandosi nelle più disparate versioni. Cortometraggi, anticipazioni, video d’autore che traducono l’essenza delle collezioni, interviste, scene di backstage, storytelling incentrati sull’ ispirazione, si alternano in uno splendido pot-pourri inneggiante alla creatività pura. Per seguirli, è bastato collegarsi alla piattaforma on line della Fédération de la Haute Couture et de la Mode nel sito fhcm.paris/ oppure ai social (in particolare Facebook, Instagram e YouTube) e ai website delle varie Maison dove sono, peraltro, tuttora visionabili. Ma anche rinomati magazine on line del calibro di Vogue o del New York Times hanno preso parte all’ iniziativa, così come emittenti TV e radiofoniche quali Canal + e la francese Radio Nova. I brand partecipanti, 34 in tutto, si sono sbizzarriti in presentazioni inedite che stanno molto facendo parlare di sè: Schiaparelli, ad esempio, ha proposto un corto che racconta i motivi ispiratori del suo creative director Daniel Roseberry in attesa di far sfilare la collezione a Los Angeles, nel Dicembre 2020; Ralph & Russo, dal canto loro, hanno “mandato in passerella” una modella-avatar (Hauli), mentre Valentino si è avvalso di una partnership artistica con il fashion photographer londinese Nick Knight per “raccontare” le proprie creazioni, anticipando la sfilata in programma il 21 Luglio prossimo in quel di Roma. Chanel ha puntato su una serie di video di backstage realizzati in atelier, mentre Giambattista Valli ha scelto l’ affascinante Joan Smalls che viene immortalata, in una sequenza di superbi scatti, nei suoi look destinati all’ Autunno Inverno. In questi giorni, inoltre, non è passato inosservato il corto che il regista Matteo Garrone ha dedicato alla collezione di Dior: un’autentica fiaba girata nel Giardino di Ninfa (rileggi qui l’articolo che VALIUM ha dedicato alla spettacolare area naturale in provincia di Latina), dove sirene, ninfe e creature fantastiche vengono sedotte dai preziosi abiti ideati da Maria Grazia Chiuri. Dopo il film su Pinocchio, Garrone ci stupisce con un video incantevole che rievoca atmosfere e personaggi altrettanto da sogno. Non è forse “il sogno” per eccellenza, d’altronde, l’ immaginario dell’ Haute Couture? Continuate a seguire VALIUM per approfondire alcune delle presentazioni più suggestive associate alle collezioni Autunno Inverno 2020/21 di Alta Moda.

 

 

Un universo surreale e variopinto come realtà parallela: intervista con Sasha Frolova, icona della Inflatable Art

 

Se dovesse descrivere la propria arte con un aggettivo,  la definirebbe (come dichiara in questa intervista) “miracolosa/affascinante”. Io aggiungerei “ipnotica”, in omaggio all’ assoluto magnetismo delle sue opere: utilizzando il latex gonfiabile, Sasha Frolova realizza sculture spettacolari e avveniristiche, giocose e al tempo stesso surreali, concepite sia per l’ esposizione che come leitmotiv di performance mozzafiato. Classe 1984, nata a Mosca, Sasha ha conquistato il pubblico internazionale con la sua “inflatable art”. Il fashion system, poi, la adora. Per fare solo qualche esempio, non è sfuggita all’ attenzione di VOGUE, Dolce & Gabbana hanno concluso la sfilata di Alta Sartoria a Villa Olmo con una delle sue performance e W Magazine, la patinata rivista statunitense, ha pubblicato un photoshoot di Tim Walker dove celebri star hollywoodiane (inclusa Nicole Kidman) posano tra le creazioni dell’ artista moscovita. Scultura e performance art, nell’ opera di Sasha Frolova, si fondono in un meraviglioso amalgama che le sovrappone e le identifica. Le perfomance prendono vita da sculture in movimento (gli “inflatable costume”, una volta indossati, possono essere definiti tali), mentre queste ultime danno vita alle performance in un gioco di reciprocità continua, con le imponenti e variopinte forme del latex gonfiabile a fare da fil rouge.  E proprio il latex evidenzia un contrasto che suscita stupore: associato per eccellenza al Fetish, ma anche ai giocattoli per bambini, è un materiale controverso. L’uso che Sasha ne fa nelle sue opere contribuisce a spiazzare lo spettatore, incerto se collocarle in un contesto erotico o prettamente naïf. Questo dualismo, con tutte le interrogazioni che esso suscita, rappresenta un elemento di spicco nei lavori della performer russa. Si è più propensi, tuttavia, a scongiurare qualsiasi valenza ambigua a favore del fiabesco, dell’ onirico e del fumettistico, considerati anche i molti riferimenti ai comics ed all’ intento, sottolineato da Sasha Frolova stessa, di creare una realtà parallela priva di ombre, orientata alla positività: da qui, un’arte disseminata di accenti pop che le permette di calarsi in svariati personaggi, dalla Cyberprincess Marie-Antoinette – esibitasi lo scorso Agosto al Castello di Gradara – alla sgargiante music star Aquaaerobika, che sfoggia sul palco la sua lunga chioma in latex ed utilizza enormi lollipop come microfono.  Affascinata da questa artista straordinaria, innovativa e pluripremiata (finalista, tra gli altri, del Premio Arte Laguna 12.13 e vincitrice del premio speciale “Personal Exhibition”, è stata incoronata The Alternative Miss World 2014 al contest di Londra), ho fortissimamente voluto incontrarla per un’ intervista incentrata sul suo iter e sulle sue sbalorditive opere.

Qual è stato il tuo percorso prima di diventare un’artista?

Fin da bambina, il mio sogno era quello di diventare un’artista. Anche mia madre era un’artista, ma non è mai riuscita a trovare lavoro in Unione Sovietica e si preoccupava per me: non voleva che mi toccasse la stessa sorte. All’inizio l’ho accontentata, e dalla scuola d’Arte sono mi sono trasferita al college di Medicina. Ma dopo la laurea ho capito che l’unica cosa che volevo era essere un’ artista. Forse non sarebbe stato possibile capire cosa volevo davvero, cosa mi piaceva, se non avessi provato a capire cosa non mi piaceva. A volte, per capire cosa vuoi, devi prima capire cos’è che non vuoi. E oggi sono grata a mia madre per quella esperienza.

Quando e come hai deciso di dedicarti all’arte?

Pochi mesi prima della laurea in Medicina ho incontrato il mio insegnante, Andrey Bartenev, un famoso artista russo. Da quel giorno la mia vita è cambiata. Ho iniziato ad aiutarlo nelle sue esibizioni e a dedicarmi all’arte a mia volta. Volevo sperimentare. Mi è sempre piaciuto improvvisare, mi piace il risultato imprevedibile che ne scaturisce. A un certo punto mi sono resa conto che volevo dedicarmi all’arte e che non potevo vivere senza. Ho realizzato di essere un’artista quando sono diventata l’assistente di Bartenev. Mi sono cimentata in qualsiasi campo creativo, in diversi generi: creavo scenografie, inviti e illustrazioni, facevo la costumista per il cinema, mi esibivo in folli performance, lavoravo come stylist, make up artist e molte altre cose ancora. Alla fine, mi sono separata da Andrey e ho trovato la mia strada, diramandola in due direzioni: la scultura e la performance.

 

 

Cosa rappresenta l’arte, per te?

Il futuro dell’arte lo vedo nella sintesi. Mi piace lavorare su generi diversi, combinarli, per realizzare un compendio di qualcosa di nuovo. Credo che gli artisti incentivino il progresso umano, inventino e creino il futuro. E l’obiettivo dell’artista è la creazione del nuovo – nuove forme, nuove idee, nuovi generi, la creazione di ciò che non è mai esistito prima. Per “artista” intendo non tanto una persona munita di un cavalletto e di una tela, ma piuttosto un sognatore e un visionario, con delle idee audaci e in anticipo sui tempi. È interessante dare vita al nuovo, creare qualcosa che non esiste e che nessuno ha mai fatto prima di te, essere unici. Penso che l’arte dovrebbe essere positiva e bella. È molto più facile diventare popolari quando ti appelli ad un contesto negativo, ai problemi politici e sociali, ma tutto questo non mi interessa. Penso che l’arte dovrebbe essere “gentile”. Tutte le mie sculture veicolano un messaggio positivo e si mantengono in bilico tra l’infantilità e il naif, ma in modo consapevole. L’arte che fa appello alla positività è ancora rara, però ultimamente questa tendenza sta guadagnando popolarità ed è sempre più richiesta. Al giorno d’oggi, l’informazione è satura di negatività e lo spettatore ha bisogno di un’arte infantilmente semplice e comprensibile, che causi gioia ed emozioni vivide, che sferzi la coscienza sia attraverso l’apparenza che l’interazione e il gioco. Lavorando nella direzione del linguaggio visivo post-pop, sto cercando di trovare il mio personale approccio alla creazione della forma utilizzando astrazioni geometriche biomorfiche, liquide e semplificate. Voglio che la mia arte sia il più possibile astratta, non collegata a nulla. Meno è connessa con la realtà, meglio è: secondo me, l’arte è una negazione delle leggi fisiche e delle leggi della realtà. E’ il loro rovesciamento. In questo senso, l’arte è un miracolo, la manifestazione della presenza del miracoloso nell’universo. Quindi, cerco di dare allo spettatore l’opportunità di dimenticare almeno per mezz’ora che di trova ad una mostra, di dimenticare la realtà di quel momento e di offrirgliene un’altra, parallela, fatta di altre forme e di diversi colori; una realtà a sé stante e con le proprie leggi, le leggi della fantasia. Penso che l’arte debba essere bella come durante l’epoca Rinascimentale. La bellezza è l’obiettivo principale e la funzione dell’arte, è il canale per connettersi con Dio. La bellezza restituisce pezzi di paradiso al nostro pianeta, come i tasselli di un enorme puzzle perduto. Il senso della bellezza è qualcosa di molto gentile, puro e innocente. La bellezza è immortale, e l’arte è un modo per raggiungere l’immortalità attraverso la bellezza: l’arte è una nuova religione, è il modo di salvare il nostro mondo.

 

Performance a Villa Olmo (Como)  in occasione della sfilata Alta Sartoria di Dolce & Gabbana (2018)

Come nascono le tue opere di “inflatable art”?

Mi sono sempre piaciuti gli oggetti gonfiabili, cercavo un modo per utilizzarli artisticamente. Ho visitato diverse fabbriche di giocattoli gonfiabili, ho approfondito l’argomento tramite lo studio. Dapprima ho cominciato a creare sculture e costumi, stupefacenti giocattoli gonfiabili assemblati in svariate, enormi strutture con del nastro adesivo e del cartone, inoltre ho scritto versi e mi sono esibita in performance di poesia … Ho sperimentato molto. Poi, un giorno, sono stata invitata ad esibirmi a MTV Russia, dove ho visto una conduttrice che indossava un abito in latex e mi sono innamorata di questo materiale. Ha un’estetica visuale potente, è impressionante, lucente. Quindi, insieme a un’ azienda che produce abiti in latex, ho iniziato a realizzare costumi e sculture e la mia idea ha poco a poco preso forma. La mia prima scultura in latex si chiama Lyubolet. L’ho creata nel 2008 per una mostra dedicata agli alieni e tutto ciò che è extraterrestre. Lyubolet è una fantasia sul tema di come un’astronave sarebbe apparsa se l’energia dell’amore fosse diventata il suo combustibile. L’astronave è progettata per due astronauti e può volare solo con l’assoluta reciprocità e simmetria dei loro sentimenti. Insieme alla scultura, ho creato due tute spaziali e una performance. Non sono ancora riuscita a decollare, ma continuo a cercare un partner e credo che in futuro ci riuscirò! Questa scultura ha dato origine ad una serie di oggetti chiamati Psionics – sculture pseudo-macchine che utilizzano l’energia della coscienza e la psiche umana come motore. I miei lavori sono concentrati principalmente sulla forma, la forma è molto importante per me. E mi piace moltissimo il modo di modellare che l’aria offre, è assolutamente diverso dal tagliare il marmo o dallo scolpire il gesso. L’aria allunga la forma, adoro il suo linguaggio. E’ il materiale stesso a creare la forma e sono affascinata da questa co-creazione: non sai mai come si svilupperà il rigonfiamento del latex, provi sempre ad intuirlo…è un processo molto interessante.

 

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Seduta sulla sua scultura boudoir-trampoline a Les Jardins d’Etretat, in Normandia (2018)

Quali materiali sei solita utilizzare per le tue opere?

Ho scelto due direzioni principali, per la mia arte: la scultura e la performance. Ma definisco le mie performance “sculture in movimento” e i miei costumi “sculture indossabili dal vivo”. Lavoro con diversi materiali e tecniche, ma sono nota soprattutto perché lavoro – da circa 11 anni – con il latex. Il latex è il mio materiale preferito. Lo uso per creare costumi, sculture e installazioni su larga scala. Il latex è un materiale molto delicato, difficile da manipolare: si altera con i raggi UVA e teme il passar del tempo. Ma mi piacciono la sua natura effimera, la sua ariosità, la sua morbidezza, la sua levigatezza. Le sculture in latex sembrano vive, però purtroppo sono temporanee come tutte le cose viventi. Il latex può rimanere intatto al massimo sei mesi, un anno. Tratto le mie sculture con cura e non le espongo per più di due mesi, ma anche in questo modo non sopravvivono oltre cinque-dieci anni. I miei oggetti in latex sono spesso costituiti da moduli gonfiabili separati, incollati insieme in una sola forma oppure fissati ad un telaio di metallo o di plastica. Un’altra cosa importante, per me, è la collisione tra il contesto naif e il contesto sessuale che evoca il latex. Questo conflitto sortisce un effetto disturbante sullo spettatore, che non sa come percepirlo e inizia a interrogarsi su ciò che sta vedendo. E’ quello che voglio ottenere: coinvolgere lo spettatore emotivamente, ipnotizzarlo ed eccitarlo. Oggi faccio sculture non solo di latex; è un materiale adatto per gli interni, però non funziona all’aria aperta in quanto è molto fragile e sensibile alle condizioni esterne. Ma voglio andare avanti e progredire verso un nuovo livello. Voglio muovermi nella direzione dell’architettura gonfiabile, dell’architettura tessile, per realizzare progetti di arte gonfiabile pubblica su larga scala. L’estate scorsa ho realizzato delle vibranti sculture su larga scala, Air Island (13 m di lunghezza e 8 m di larghezza), le più grandi della mia carriera. E vorrei proseguire in questa direzione.

 

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Mi colpisce molto questo uso del colore, che al bianco e al nero alterna tonalità vivacissime, luminose o trasparenti grazie al PVC. C’è un filo conduttore, dietro alla tua ricerca cromatica?

Il colore è uno strumento potente e una parte importante del mio linguaggio visivo: una chiave per raggiungere i miei obiettivi artistici. La mia arte è incentrata sulla ricerca di ciò che è perfetto, ideale, lucido, luminoso, soprannaturale, fantastico, qualcosa di estremamente raro nella nostra realtà; su un certo super-mondo, dove tutte le proprietà e le sensazioni sono iperboliche, i colori più luminosi. Ogni artista, secondo me, crea il suo mondo parallelo, la sua realtà, secondo le leggi del proprio linguaggio visivo. E attraverso la sua arte, invita gli spettatori ad addentrarsi in questa realtà. Io voglio creare una mia realtà artistica parallela, voglio invitare gli spettatori in una sorta di spazio ideale che esiste secondo leggi diverse e del tutto proprie. Vorrei che le persone fossero deliziate e affascinate dalla mia arte, e l’uso del colore in questo senso mi aiuta. Voglio che la mia arte dia gioia e ispirazione quando la si guarda, come se si guardasse a qualcosa di incredibile. Voglio che la mia arte sposti la prospettiva, sproni lo spettatore a guardare alle cose ordinarie in modo nuovo.

 

 

A proposito di colore, alla Biennale di Venezia ti sei esibita nella variopinta performance Aquaaerobika, dove le tue sculture viventi hanno danzato al ritmo della musica elettronica ed inneggiato a un mood avveniristico. Cosa puoi raccontarci di questo spettacolare show?

Per me scultura e performance sono un tutt’uno. Il mio progetto di musica pop Aquaaerobika è una sintesi di musica elettronica e performance, uno show musicale di pop art con costumi gonfiabili e decorazioni. In realtà, considero questo spettacolo come una scultura dal vivo in movimento. Questo è il filone del mio insegnante Andrey Bartenev, che l’ ha percorso negli anni Novanta ed ha creato performance incredibili con i suoi costumi scultorei in cartapesta. Poiché sono stata una sua studente, vado anch’ io in questa direzione ma in modo diverso. Aquaaerobika è una performance dal format pop grazie al quale posso lavorare per un pubblico più ampio, esibirmi non solo nei musei e nelle gallerie d’arte ma anche nei club, ai festival, negli spazi pubblici. E’ uno show con musica originale, tutti i brani sono scritti appositamente per lo spettacolo e io canto dal vivo; cantare avvolta nel latex non è facile, ma l’impatto visivo giustifica tutte le difficoltà. I costumi e le scenografie si ispirano ai simboli della pop art, dell’op art, dell’estetica fantascientifica, alle anime giapponesi ed ai costumi di Oskar Schlemmer per “The Triadic Ballet”. Puoi riconoscere Betty Boop, Barbarella ed i protagonisti di un fumetto, nel mio personaggio. Mi sforzo di creare un’immagine universale super femminile e di giocare con immagini di donne di epoche e stili diversi, mescolandoli e creando qualcosa di nuovo. Mi attrae anche giocare con il bidimensionale e il tridimensionale, come dimostrano i miei costumi e i miei scenari. A un certo punto, lo show diventa una sorta di cartone animato. Mi piace immaginarmi al suo interno, è sempre divertente: la neve cade in un modo così favoloso e irrealistico, i colori sono così luminosi e le ombre così grafiche che sembra di essere entrati in un film d’animazione di Miyazaki o in un vecchio cartoon sovietico. Natura e arte spesso competono tra loro in straordinarietà e non si è in grado di distinguere dove finisce la natura e dove inizia l’arte … A volte, è difficile capire cosa ti emoziona di più.

 

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Sasha e uno scorcio della sua installazione Air Island

Non era la prima volta che venivi a Venezia. Tra l’altro, lo scorso Carnevale hai fatto una entrée trionfale, insieme al Principe Maurice, in total look “inflatable” settecentesco. Come ricordi quell’ esperienza?

L’ingresso in costume in Piazza San Marco è una delle suggestioni più ineguagliabili che io abbia mai provato in vita mia! Prova a immaginare: una folla di persone, la magica Cattedrale di San Marco davanti a te, il sole splende, fa freddo, l’atmosfera è eccitante, sei circondata da creature meravigliose in incantevoli costumi … In quel momento ho sentito un’incredibile connessione con l’anima di Venezia, ho sentito Venezia dentro di me, avevo la pelle d’oca! Sebbene sia stata un’apparizione molto breve, di fatto pochi secondi, quei momenti sono ancora vividi nella mia mente, ed emanano uno splendore tale da farmi provare un’immensa gratitudine nei confronti della vita e del Principe Maurice (rileggi qui la puntata di “Sulle tracce del Principe Maurice” dedicata al Carnevale di Venezia) che mi ha permesso di vivere questa esperienza. Conserverò tra i miei ricordi quei preziosi brividi per tutta la vita.

 

L’ ingresso in piazza San Marco con il Principe Maurice al Carnevale di Venezia 2019

Quale aggettivo adopereresti, solo uno, per definire la tua arte?

Miracolosa / affascinante?

 

Photo by Ermakov Roman

A quali progetti ti stai dedicando, al momento? E’ possibile avere qualche anticipazione?

Spero di lavorare di più per il teatro e per l’opera, mi piace lavorare con del materiale classico e ripensarlo. L’anno scorso ho realizzato i costumi per il “Flauto magico” di Mozart messo in scena al Teatro dell’Opera Helikon di Mosca, è stata un’esperienza straordinaria che mi è piaciuta molto. Tra i miei progetti c’è una grande personale a Mosca il prossimo anno, al Museo d’Arte Moderna, ed ho intenzione di concentrarmi su questo.

 

Nicole Kidman nel photoshoot che inneggia all’ inflatable art di Sasha Frolova scattato da Tim Walker per W Magazine (styling by Sarah Moonves)

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Come descriveresti l’attuale panorama artistico russo?

Abbiamo molti artisti di talento, davvero unici. La scena artistica in Russia si sviluppa rapidamente, ci sono stati tanti cambiamenti positivi e c’è una potente energia. Forse non è un panorama molto vario, ma è davvero interessante ed ha del potenziale.

Vorrei concludere questa intervista chiedendoti quali sono gli artisti contemporanei che, al momento, consideri maggiormente interessanti e innovativi.

Ad esempio, c’è l’artista e scultrice giapponese Mariko Mori, che crea progetti molto interessanti legati allo spazio. Mi piace anche Anish Kapoor, soprattutto il modo in cui lavora con la forma, con le dimensioni. Sono sempre deliziata dal suo lavoro, dal livello tecnologico delle sue opere: le guardi e semplicemente non capisci come abbiano potuto essere realizzate.  Allo stesso tempo, le sue forme appaiono come metafore poetiche. Mi piacciono anche gli artisti che lavorano con l’inflatable. C’è un collettivo, il FriendsWithYou di Miami. Sono una grande fan delle loro opere intrise di felicità e di positività. Realizzano enormi installazioni gonfiabili e mercatini di oggetti gonfiabili sulle spiagge di Miami. Sono degli artisti fantastici! Sono davvero ispirata dagli artisti superproduttivi e polistrumentali che lavorano su una vasta varietà di media, così come dagli artisti che fanno delle loro stesse vite un’opera d’arte. Considero miei mentori diversi artisti – prima di tutto Andrey Bartenev, ma anche lo scultore Andrew Logan ed il famoso clown Slava Polunin: è molto importante incontrare persone che ti ispirano ed acquisire da loro la conoscenza e l’esperienza.

 

 

Altri due momenti della performance a Villa Olmo realizzata per la sfilata di Alta Sartoria di Dolce & Gabbana (2018)

ICECREAMIZER, inflatable sculpture (2010)

SPECULUM, inflatable sculpture (2016)

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TWIRL, Pink edition (2016). Inflatable latex sculpture

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Photo courtesy of Sasha Frolova

 

 

Kaimin, audacia e avveniristica sperimentazione

 

Quando Bjork ha indossato uno dei suoi abiti durante il Dj set che ha tenuto ad Art Basel Miami Beach 2017, ha fatto furore: color fucsia cangiante, silhouette come un’ avveniristica farfalla, la mise sfoggiata dalla popstar islandese è già iconica. A firmarla è Kaimin, giovane designer sudcoreana che fa dell’ eclettismo la sua bandiera. Artista concettuale, stilista, regista e attrice, Kaimin incarna una creatività sfaccettata e senza limiti. Passioni, ispirazioni, stimoli, tutto converge in lei e forgia il suo stupefacente immaginario. Dichiara di non avere messaggi da veicolare, ma la ricerca di un’ armonia tra gli opposti, tra lo Yin e lo Yang, è il leitmotiv di creazioni che concepisce con lo scopo di suscitare reazioni “ad ampio spettro”, che tocchino le corde delle emozioni: ci riesce alternando le tecnologie più innovative a lavorazioni ben rodate e testando sempre nuove prospettive. “Sperimentazione” è una parola d’ordine che anni orsono, quando si è trasferita a New York, Kaimin ha tramutato nel fulcro della sua estetica. Quel periodo ha rappresentato una tappa fondamentale nell’ iter della designer. Lo styling per riviste del calibro di Vogue, W, Arena Homme Plus e il lavoro a stretto contatto con guru come Ellen Von Unwerth, Steven Klein, Inez & Vinoodh e Terry Richardson sono state esperienze che, mixate allo spirito avantgarde della Grande Mela, hanno contribuito a definire i codici del brand che Kaimin ha battezzato con il suo stesso nome.  Nella sua ricerca, l’ audacia e un’ anima potentemente unconventional si fondono a una femminilità primordiale che abbraccia la sensualità in tutte le declinazioni: l’ erotismo raggiunge accenti fetish ma, paradossalmente, il corpo non viene mai esaltato. Almeno, non nel senso standard del termine. Gli abiti lo analizzano, lo alterano attraverso materiali hi-tech che accentuano un mood surreale, un’ alchimia di elementi Punk proiettati in futuribili scenari. Il risultato sono look esplosivi, ma mai privi di una sofisticatezza intrinseca, e un tripudio di colori al neon non fa che aggiungere giocosità a creazioni squisitamente, ricercatamente spettacolari. In questo post, una selezione di mise a tema “fluo con ruches” dalla collezione PE 2018 di Kaimin.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Walking with the Muses”: Pat Cleveland si racconta

Walking with the Muses: mai titolo potrebbe essere più azzeccato per descrivere Pat Cleveland, supermodel e musa delle passerelle, che in oltre 300 pagine ha concentrato la storia di un sogno divenuto sfavillante realtà. Dream Lover, d’altronde, è anche l’ intestazione del primo di una serie di capitoli che si aprono all’ insegna di hit che hanno fatto storia e che compongono l’evocativa colonna sonora di questo memoir: un dettaglio che la dice lunga dell’ amore di Pat per la musica, una costante di tutta la sua esistenza. Non sembra forse un ispirato passo di danza il suo avanzare inconfondibile sulla catwalk? E non sono forse definiti “danzanti” i coloratissimi abiti creati da Stephen Burrows, primo designer a eleggere Pat a propria musa? Correvano gli anni dello Studio 54 e Patricia (questo il suo nome all’ anagrafe) Cleveland, insieme a Grace Jones, Bianca Jagger, Andy Warhol, Jerry Hall e a molte altre celebrities ancora era una delle sue più assidue frequentatrici. Ma per addentrarci nella fiaba fino in fondo dobbiamo tornare indietro nel tempo, a quel 23 Giugno 1950 che segna l’ inizio di tutto. E’ allora che Pat nasce a New York da Ladybird Cleveland, artista di origini pellerossa e afroamericane. Suo padre Johnny Johnston, un sassofonista jazz  (riecco l’ elemento della musica) svedese, torna in Europa e da quel momento rimarrà pressochè latitante. Ladybird però non è una single mom qualunque: dipinge, si diverte a creare abiti, è una talentuosa illustratrice che frequenta la scena jazz di Harlem. Pat cresce con l’ arte nel DNA e trascorre un’ infanzia circondata dai colori, dai lustrini, da tutte le declinazioni del bello. Non è un caso che, con un simile imprinting, scelga di studiare design per diventare stilista e che venga notata da Carrie Donovan, fashion editor di Vogue, proprio per il look estroso che esibisce. E’ il 1966 e quel fortuito incontro nella metro le varrà un articolo in cui Vogue la include tra i new talents della moda: è l’ evento chiave che coincide con la svolta. E se da cosa nasce cosa, grazie a quell’ articolo Pat viene notata dal magazine afro-americano Ebony che la recluta come modella del suo Fashion Fair tour. Dalla tourneè con Ebony in giro per gli USA, tra episodi di bieco razzismo e un Cassius Clay infatuato di lei da subito, ha inizio la sua carriera di cover girl dapprima con Eileen Ford e poi con Wilhelmina Models, fautrice di una bellezza più esotica e fuori dagli schemi. Pat racconta di quegli anni con sincerità e passione: gli esordi come fitting model, gli incontri con icone del calibro di Diana Vreeland e Andy Warhol, le esperienze professionali con fotografi come Berry Berenson, Irving Penn e Richard Avedon, il suo ruolo di musa di Stephen Burrows e successivamente di Halston, l’ euforia e le amarezze che azzera trasferendosi a Parigi, dove il colore della pelle è un dettaglio irrilevante.  E’ proprio a Parigi che scoppia la “Cleveland fever”. Nella capitale francese Pat è ancora una volta musa, e tra coloro che ispira risaltano i big names di Antonio Lopez, Karl Lagerfeld, Yves Saint Laurent e Thierry Mugler, senza contare le innumerevoli Maison per le quali sfila o gli autorevoli magazine per cui posa. La consacrazione arriva con la celebre Battaglia di Versailles, sfilata-evento che il 28 Novembre 1973 mette a confronto 5 designer francesi (Hubert de Givenchy, Yves Saint Laurent, Emanuel Ungaro, Pierre Cardin e Marc Bohan per Christian Dior) e 5 americani (Halston, Oscar de la Renta, Stephen Burrows, Bill Blass e Anne Klein) davanti a un’ audience di miliardari, socialites e teste coronate. Un anno dopo, Pat fa ritorno a New York: è il 1974 e Beverly Johnson è appena apparsa sulla cover di Vogue, per le black models si apre una nuova era. Ma “di non solo pane si vive” e nel suo memoir la Queen of the Catwalk racconta la sua svolta spirituale come adepta del guru Swami Satchidananda, mentre sul versante love story e flirt spuntano gli altisonanti nomi di Warren Beatty e di Mick Jagger. Prima dell’ incontro con il marito Paul van Ravenstein, naturalmente, al quale Pat dedica l’ ultimo (ma non ultimo) capitolo del libro: il titolo? At long last love, come recitava la romantica hit di Cole Porter.

Moss, Galliano e Walker: un trio stellare per il dicembre di Vogue UK

 

Vogue UK si accinge a lanciare un numero di dicembre d’eccezione: in copertina, avvolta in una candida pelliccia indossata sulla pelle nuda, una splendida Kate Moss irradia glamour ed una allure luminosa accentuata dai caratteri dorati del nome della rivista. La Moss, alla sua 34ma copertina per l’edizione britannica di Vogue,  ha in serbo un novità: dalla prossima primavera, infatti, andrà a ricoprire l’ incarico di contributing fashion editor del prestigioso glossy. Non poteva essere che Tim Walker, dunque, uno dei massimi talenti della fashion photography mondiale, ad immortalarla in uno shooting che la ritrae – nuovamente Venere in pelliccia – insieme al designer John Galliano. Un’amicizia, quella tra la top e l’ex direttore creativo di Dior, durata nel tempo e rimasta intatta anche nel periodo burrascoso inerente allo scandalo dei presunti commenti antisemiti che vide Galliano protagonista. A questo proposito, anzi, lo stesso Galliano spiega: “Creare l’ abito da sposa di Kate mi ha salvato, è stato il mio rehab creativo. Mi ha permesso di essere di nuovo me stesso. ” Nelle foto scattate da Walker il couturier e la modella appaiono insieme, lei con sguardo trasognato ed i capelli liscissimi raccolti, lui in smoking e cappello a cilindro, come una fascinosa coppia di divi d’antan. Un ruolo che Galliano ha interpretato con passione e convinzione, fedele al progetto che egli stesso, su invito del direttore di Vogue UK Alexandra Shulman, ha contribuito ad ideare esponendo in una serie di e-mail opinioni e descrizioni particolareggiate dei suoi obiettivi. Gesto che ha rivelato, a parere della Shulman, “il lavoro di un uomo appassionato e pieno di cultura.”.

 

 

Il close-up della settimana

 

Bert Stern, di close.up, se ne intendeva. Lo shooting che lo ha ancorato indelebilmente all’ immaginario collettivo è quel Last Sitting di Marilyn‘ divenuto immortale: oltre 2571 foto scattate in tre giorni nell’ Hotel Bel Air di Hollywood, un mese esatto prima della scomparsa dell’iconica star. Ma la mole del lavoro di Stern è immensa e risale, ritratti dei divi a parte, agli ambiti della fotografia di moda e della pubblicità. Nato a Brooklyn nel 1929, di origini ebree,  Bert Stern rappresenta il ‘terzo elemento’  di quella triade di artisti, in cui sono inclusi anche Richard Avedon e Irving Penn, che ha rivoluzionato la fotografia di moda del XX secolo. Gli inizi professionali di Stern, eppure, avrebbero lasciato presagire un percorso diverso: trova impiego presso la rivista Look, ma se è vero che esiste un destino che premia il talento, l’incontro con un giovane fotografo – con cui intraprende un’amicizia ed interminabili partite a scacchi – lo porta a interessarsi  all’ espressione artistica. L’amico scacchista ha un nome che, dal canto suo, diverrà una pietra miliare nella storia del cinema: si chiama Stanley Kubrick.  La svolta di vita di Stern lo conduce ad abbracciare la fotografia come passione assoluta e totalizzante, in virtù del feeling che si stabilisce tra lui e la macchina fotografica. Negli scatti che risalgono al suo periodo ‘pubblicitario’ degli anni ’50, riesce a donare appeal persino agli oggetti più banali. A soli 25 anni, grazie a una campagna dallo straordinario impatto visivo per la Sminoff, riesce ad instillare nel popolo americano il gusto per la vodka.  Nella sessione di foto promozionali per il film Lolita (1962) girato dal suo amico Kubrick,  ha l’ intuizione degli occhiali a cuore di Sue Lyon mentre girovaga per bar e drugstore in cerca di ispirazione, Ne risulta un lavoro perfetto, che in pochi elementi -l’auto, il leccalecca, gli occhiali a cuore – coglie in pieno la natura del personaggio di Lolita. Stern fotografa abiti e dichiara ‘I don’t know about clothes’, ma conosce a menadito l’ animo umano che si cela dietro alle movenze e agli sguardi, e lo immortala nella sua quintessenza. I suoi ritratti colgono mirabilmente l’ interiorità attraverso l’esteriorità: Elizabeth Taylor, Audrey Hepburn, Brigitte Bardot, ma anche Twiggy, Madonna, Gary Cooper, Mastroianni sono alcuni dei suoi soggetti. Stern fotografa anche la ex moglie Allegra Kent, madre dei suoi tre figli, in tutta la sua grazia di ballerina, ma soprattutto fotografa Marilyn per Vogue in quell’ interminabile session al Bel Air Hotel nel 1962, un servizio che rimarrà nella storia anche grazie alle voluminose croci che la diva traccia con un pennarello arancione sulle immagini che non approva. E’ una Marilyn di cui Stern immortala i contrasti, la Marilyn del Last Sitting,  uniti a quella leggerezza tutta femminile che la bionda di Hollywood per antonomasia ostentava all’esterno per cammuffare un’ interiorità tormentata e ‘pensante’. La nudità, gli impalpabili foulard di chiffon con cui nelle foto gioca a celarsi il corpo, descrivono la diva più ‘dentro’ che ‘fuori’. Quando a Stern chiesero cosa pensasse del mito di Marilyn, non si profuse in grandi panegirici: fu coinciso, diretto, quasi riservato. Disse di lei che era ‘La ragazza americana’. Poche parole per riassumere il suo mito: gli oltre 2500 scatti del Last Sitting avevano già parlato, e in abbondanza, per lui. Il 26 giugno, nella sua casa di Manhattan, Bert Stern è morto a 83 anni. Ma la sua arte lo consegna all’ immortalità: con la stessa certezza con cui si è sempre adoperato a far vivere, nella sua fotografia, tante anime piuttosto che corpi.

Jean Patchett, ovvero la classe

 

“Una giovane dea americana della Couture parigina”: così la definì Irving Penn, il fotografo che la immortalò più frequentemente. Jean Patchett, classe 1926, abbandonò ben presto gli studi da segretaria nel Maryland per una più stimolante carriera di modella nella Grande Mela. I suoi atout? Una bellezza distinta e sofisticata, esaltata dal corpo flessuoso e dagli splendidi occhi dal colore indefinibile. Ma la classe e un’eleganza innata furono i due punti cardine attorno ai quali ruotò tutto il suo incredibile successo a cavallo tra il 1948 e il 1963, anno in cui abbandonò i set fotografici e le passerelle. Dopo un breve debutto con l’agenzia di Harry Conover, a New York, Jean entrò a far parte della ‘scuderia’ di Eileen Ford, alloggiando in quel Barbizon Hotel che avrebbe ospitato modelle dai nomi del calibro di Grace Kelly, Barbara Bel Geddes, Liza Minnelli e Ali MacGraw. Non passò che un breve lasso di tempo, da quel momento alla sua prima copertina di VOGUE: un esordio prestigioso, seguito dalla copertina di Glamour il mese successivo. Da quel momento, il susseguirsi di richieste e di shooting con i fashion photographer più rinomati del panorama internazionale fu tale, per Jean Patchett, che nel 1952 Esquire volle decantare la sua vertiginosa ascesa consacrandola tra le modelle più quotate degli USA, archetipa ‘supermodel’ quando il termine era ancora lontano dell’ essere coniato. I segni distintivi del suo fascino – un neo in direzione della tempia, la bocca sottolineata dal lipstick rosso, lo sguardo valorizzato dall’ eye-liner e le sopracciglia curve, perfettamente disegnate – comparvero complessivamente su più di 40 copertine, ed i suoi incalcolabili shooting la rendono, a tutt’oggi, una delle modelle più fotografate della storia. Professionale, puntuale, affabile, Patchett negli anni ’50 rientrava a pieno titolo nell’ élite delle cover girl e delle mannequin, un esclusivo gruppo che comprendeva -tra le altre – Dovima, Suzy Parker e Dorian Leigh. Ritratta da grandi fotografi come Irving Penn, John Rawlings, Horst P. Horst, riusciva mirabilmente a risaltare la sua eleganza sia nelle pose che in scatti assolutamente estemporanei: il suo rapporto con la macchina fotografica era di un’ incredibile, reciproca attrazione. Non è un caso se diverse serie di foto che la ritraggono si trovano, oggi, esposte al Museum of Modern Art di New York, al Boston Museum of Art, al Museum of Contemporary Photography di Chicago e in un ulteriore, cospicuo numero di musei e gallerie d’arte sparsi per il mondo: ‘The Queen of Fashion Inc,’, come era stata soprannominata grazie alla totale e sistematica devozione alla sua professione, seppe creare con Penn un sodalizio artistico che commentò con la frase ‘We really made history'”. Patchett seguitò a lavorare indefessamente anche dopo le sue nozze con Louis Auer V, un banchiere di Wall Street che sposò nel 1951 e da cui ebbe due figli, Bart e Amy. Suprema icona, i suoi lineamenti distinti rappresentarono il volto di ben tre decadi americane – dalla fine degli anni ’40 all’ inizio dei ’60 – e, ancora oggi, si identificano con una femminilità dall’ immensa classe eppure mai altera, con una bellezza mai legata a una personalità sopra le righe: tutto quel che doveva incarnare, rigorosamente, una modella allora. Imporre il proprio fascino senza mai offuscare l’abito. Un must assoluto, ai tempi in cui le mannequin erano le uniche make up artist di sè stesse: dee sublimi delle quali il pubblico conosceva inevitabilmente il volto, ma raramente il nome.

Buon giovedì.