L’universo flou di Sarah Moon

 

Il suo cognome, che evoca atmosfere lunari, colori indefiniti e suggestività oniriche pronte a scomparire con il buio, è per molti versi un riflesso della sua fotografia: Sarah Moon, nata nel 1941 con il nome di Marielle Warin, appartiene a una famiglia di origini ebree stabilitasi in Francia e durante l’occupazione tedesca è costretta ad emigrare in Inghilterra. In seguito ai suoi studi di Arte e Disegno, abbraccia un percorso completamente diverso come quello della moda, ribattezzandosi Marielle Hadengue e divenendo una modella richiestissima. Un mondo che le fa scoprire la fotografia: musa e cover girl preferita di Irving Penn ed Helmut Newton, si appassiona all’arte fotografica grazie ai suoi mentori, dai quali ne interiorizza regole e segreti. E’ il 1967 e Sarah abbandona i défilè per dedicarsi alla fotografia in qualità di free-lance, ma non abbandona il fashionbiz: realizza shooting per le più prestigiose riviste del settore – VOGUE, Marie Claire, Harper’s Bazaar, Elle – e campagne pubblicitarie che faranno storia, come quella, famosissima, per Cacharel che è sintesi e compendio del suo modo di vedere e di ritrarre la donna. Ma rimangono celebri anche le sue advertising campaign per Biba Cosmetics, per Chanel. Avendo condiviso, con le modelle, la stessa quotidianità e lo stesso vissuto psicologico, Sarah Moon immortala la figura femminile in modo completamente diverso dai suoi colleghi: si ispira all’opera di Guy Bordin, al cinema espressionista tedesco degli anni ’30. Le sue donne sembrano uscite dalla sequenza di un film muto, non sono mai sorridenti ed esprimono uno struggimento, un languore di fondo che i contorni sfumati, i colori a volte sovrapposti e fusi tra loro accentuano incredibilmente. Dopo anni di professione free lance, con il nome d’arte di Sarah Moon sceglie di dedicarsi alla fotografia artistica a tempo pieno, sviluppando ulteriormente quelli che sono, della sua opera, i motivi portanti: abbraccia l’irreale, il sogno, contestualizzandoli in un mondo interiore pervaso dalla fantasia e dai significati inconsci. I toni sono sfumati, flou, non esistono linee nette e le immagini sembrano corrose dal tempo in una decomposizione inesorabile,  identificando la voluta imperfezione di stampa con il senso fragile ed effimero del ricordo che le cala in una dimensione al di là del reale, atemporale. Sarah Moon usa il colore soprattutto durante la sua carriera di fashion photographer, preferendo il bianco e nero con qualche incursione sporadica nel full colour nel suo periodo ‘artistico’: anche in questo caso fa ampio uso dei toni flou, ‘sbavando’ volutamente i pigmenti cromatici e rendendo la sua fotografia più simile alla pittura. Un’arte che attinge direttamente alla fiaba, come quintessenza del ‘non reale’: indicative, in tal senso, le illustrazioni fotografiche per il libro Cappuccetto Rosso (1985) affiancate dal testo di Perrault, e il suo film – la Moon si mette in gioco, infatti, anche come regista – La Sirène d’Auderville (2007). L’infanzia rimane un soggetto importante nella sua opera: le bambine sono ritratte frequentemente e l’ immaginario infantile viene ripreso in toto nel mood fiabesco ed onirico, a volte grottesco, che pervade scatti in cui spesso appaiono anche animali e fiori.

A Sarah Moon vengono dedicate mostre costantemente; da ricordare, in Italia,  i 100 scatti esposti presso la Galleria Sozzani nel 2002. L’opera della fotografa francese è esposta nelle più prestigiose gallerie d’arte e nei musei d’arte contemporanea internazionali.

 

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