Have a Spooky Halloween

 

Ma ricordati sempre
che i mostri non muoiono.
Quello che muore
è la paura che t’incutono.
(Cesare Pavese)

 

Delle origini e della valenza di Halloween, o meglio di Samhain, abbiamo parlato molte volte. Chi volesse ripercorrere l’argomento, può cliccare qui. Quello che mi interessa approfondire, oggi che il conto alla rovescia è terminato, è l’aspetto orrorifico e macabro associato a questa ricorrenza. Perchè non lo si può negare: la “spooky season” ci affascina proprio in quanto tale. Halloween riscuote così tanto successo perchè è un appuntamento con il brivido, ed incitando alla paura provoca una scarica continua di adrenalina. Stanotte, celebreremo la vigilia di Ognissanti circondati da streghe, zombie, scheletri, serial killer di note saghe horror, fantasmi e mostri spaventosi. Guarderemo pellicole terrificanti, leggeremo libri che evocano atmosfere gotiche e storie angoscianti. Eppure tutto questo ci attrae, è come una calamita che ci irretisce in un potentissimo campo magnetico. A Halloween, come d’altronde avveniva a Samhain, si affronta il tema della morte, e lo si fa esaltando le sfumature più lugubri che ad essa si associano. Ci interfacciamo, quindi, con una delle nostre più grandi paure, con l’insondabile mistero dell’ignoto, con un vero e proprio tabù dell’epoca contemporanea. Ma in queste tenebre ci buttiamo a capofitto, perchè ci donano emozioni: la tensione che sperimentiamo ci stimola, ci elettrizza e, al tempo stesso, esorcizza le nostre fobie inconsce.

 

 

L’ironia e la giocosità che accompagnano la notte di Halloween e i suoi travestimenti spaventosi sono un buon antidoto alla paura. Camminiamo come funamboli sul filo del terrore, e anche se abbiamo i brividi a fior di pelle sappiamo di poter contare su una rete di sicurezza pronta ad accoglierci in qualsiasi momento. Da una parte, quindi, c’è la ricerca di emozioni forti, la stessa che ci spinge, ad esempio, ad affrontare interminabii maratone di film horror, dall’altra il riso che – come diceva Jorge da Burgos ne “Il nome della rosa” – “uccide la paura”. Stavolta, però, non c’entra il timor di Dio: il “dolcetto o scherzetto”, i costumi funerei ma talmente iperbolici da risultare buffi, il trucco spettrale ma sfoggiato in discoteca a suon di techno, diventano un divertimento e perdono la loro valenza macabra. La morte, insomma, entra nel nostro quotidiano spogliandosi di tutta la sua drammaticità; possiamo esorcizzarla dando corpo ai fantasmi e ai demoni che vivono dentro di noi, consapevoli che si tratta solo di un gioco.

 

 

Foto via Pexels e Unsplash

 

Lo spirito del duende

 

“Chi si trova sulla pelle di toro che si stende tra lo Jùcar, il Guadalfeo, il Sil o il Pisuerga (non voglio menzionare grossi corsi d’acqua vicino alle onde color criniera di leone agitate dal Plata), sente dire con relativa frequenza: “Questo ha molto duende”. Manuel Torres, grande artista del popolo andaluso, diceva a uno che cantava: “Hai voce, conosci gli stili, ma non avrai mai successo perchè non hai duende“. In tutta l’Andalusia, roccia di Jaén o conchiglia di Cadice, la gente parla costantemente del duende e lo riconosce con istinto efficace non appena compare. Il meraviglioso cantaor El Lebrijano, creatore della Debla, diceva: “I giorni in cui canto con duende, non mi supera nessuno”; un giorno sentendo Brailowsky che suonava un frammento di Bach, la vecchia ballerina gitana La Malena esclamò “Olé! Questo sì che ha duende“, e si annoiò con Gluck e con Brahams e con Darius Milhaud; e Manuel Torres, l’uomo con più cultura nel sangue che io abbia mai conosciuto, quando ascoltò Falla in persona che eseguiva il suo Nocturno de Generalife, disse questa splendida frase: “Tutto quel che ha suoni neri ha duende”. E non c’è verità più grande. Questi suoni neri sono il mistero, sono le radici che sprofondano nel limo che tutti conosciamo, che tutti ignoriamo, ma da cui ci giunge quanto è sostanziale nell’arte. Suoni neri, disse l’uomo popolare di Spagna, e si trovò d’accordo con Goethe, che offre una definizione del duende quando parla di Paganini, e dice: “Potere misterioso che tutti sentono e nessun filosofo spiega”. Ebbene, il duende è un potere e non un agire, è un lottare e non un pensare. Ho sentito dire da un vecchio maestro di chitarra: il duende non sta nella gola; il duende monta dentro, dalla pianta dei piedi”. Vale a dire, non è questione di capacità, ma di autentico stile vivo; vale a dire, di sangue; di antichissima cultura e, al contempo, di creazione in atto. Questo “potere misterioso che tutti sentono e nessun filosofo spiega è, in definitiva, lo spirito della Terra, lo stesso duende che infiammò il cuore di Nietzsche, il quale lo cercava nelle sue forme esteriori sul ponte di Rialto o nella musica di Bizet, senza trovarlo e senza sapere che il duende che egli inseguiva aveva spiccato un salto dai misteri greci alle ballerine di Cadice o al dionisiaco grido sgozzato della siguiriya di Silverio. Ebbene, non voglio che nessuno confonda il duende con il demone teologico del dubbio, contro il quale Lutero, con sentimento bacchico, scagliò una boccetta di inchiostro a Norimberga, nè con il diavolo cattolico, distruttore e poco intelligente, che si traveste da cagna per entrare nei conventi, nè con la scimmia parlante che porta con sè il Malgesì di Cervantes nella Comedia de los celos y la selva de Ardenia. No. Il duende di cui parlo, oscuro e trepidante, è un discendente di quell’ allegrissimo demone di Socrate, marmo e sale, che lo graffiò indignato il giorno in cui bevve la cicuta, e dell’altro malinconico diavoletto di Cartesio, piccolo come una mandorla verde, il quale, stufo di cerchi e linee, andava sui canali per sentir cantare i grandi marinai indistinti.”

Federico Garcìa Lorca, da “Gioco e teoria del duende”

 

 

Che cos’è il “duende”, un termine che riecheggia costantemente nella cultura andalusa? Ho lasciato ampio spazio alla definizione di Federico Garcìa Lorca, esauriente e significativa. Perchè spiegare il duende a parole non è facile. Lo si associa di frequente al flamenco: un ballo che è puro pathos, una potente quanto autentica espressione di emozioni; in grado di suscitare stati d’animo molto intensi e una vibrante partecipazione. Il duende cattura lo spettatore con una travolgente miscela di passione, evocatività, carisma, feeling in dosi massicce. Un artista che ha duende tocca le corde della tua anima ed è capace di darti i brividi, di trascinarti nel vortice della sua straordinaria, innata abilità espressiva.

 

 

Il duende, per Garcìa Lorca, è lo spirito della terra: un potere misterioso e profondo che parte dalle viscere. E’ amore e morte, tragedia e commedia, scorre nel sangue ed ha radici antichissime. Il suo legame con il folklore andaluso è inscindibile. Basti pensare che se ne rinvengono le prime tracce nel “Cante Jondo”, lo straziante canto di matrice gitana accompagnato dalla chitarra. Le influenze arabe e persiane sono molteplici, affiancate a vocalizzi ancestrali e della tradizione liturgica bizantina. D’altronde, nel corso dei secoli, in Andalusia si sono avvicendate e fuse innumerevoli culture. “Tener duende” non ha nulla a che fare con i virtuosismi, con un’ esecuzione perfetta. E’ una passione che arde dentro, una dote quasi sacrale.

 

 

Ma perchè oggi pubblico queste riflessioni sul duende? E’ molto semplice: sono l’introduzione ad un articolo che vedrà protagonista l’Andalusia, in particolare un tema specifico inerente questa affascinante regione della Spagna del Sud. Stay tuned su VALIUM per saperne di più…

 

 

Foto della “bailaora” sotto il testo di Federico Garcia Lorca: Imbi24, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

 

Il luogo

 

La location più suggestiva dell’ autunno? Senza dubbio, un fuoco e i suoi dintorni. Che siano fiamme che ardono in un camino o quelle di un falò, magari acceso in giardino oppure nei boschi. Ottobre è appena iniziato, ma di notte le temperature calano a picco: non c’è niente di meglio che godersi un po’ di tepore accanto alla fonte di calore che, per prima, diede conforto all’ umanità ancestrale. Sebbene oggi tendiamo a trascurarlo, il fuoco ha rivestito una primaria importanza per lo sviluppo della civilizzazione. Non a caso incarna una valenza emblematica ben precisa in moltissime religioni, culture, persino filosofie. Innanzitutto, è uno dei quattro elementi di contatto tra il microcosmo umano e il macrocosmo naturale (gli altri tre elementi sono aria, acqua e terra). Da tempi immemorabili viene associato all’ energia, alla forza, alla passione, al maschile, quattro termini che per gli antichi equivalevano a un tutt’uno. Si contrappone alla frescura, all’ umidità dell’ acqua con il suo potente calore; tra i punti cardinali lo si identifica con il Sud. L’ esoterismo conferisce al fuoco una funzione purificatrice, vivificante, trasformatrice. Riflettendo la luminosità dello Spirito, è in grado di innalzare qualsiasi cosa a livelli di perfezione sublime. Per gli alchimisti rappresentava il numero 1 in quanto emblema dell’ Unità: dal fuoco si erano forgiati i restanti tre elementi e ciò favoriva la sua associazione con il creare, con il fervore inventivo. Anche le emozioni vissute al massimo, senza timori, rimandavano al fuoco. “Ardente” è un aggettivo in tal senso esemplare. Tornando alla vita di tutti i giorni, il fuoco possiede numerose valenze. E’ convivialità, intimità, calore, anche figurativamente parlando. Attorno al fuoco, in autunno, ci si riunisce per chiacchierare, mangiare caldarroste, bere un calice di buon vino. Oppure per danzare, ascoltare musica, celebrare i più disparati eventi. Da tempi remotissimi, fino al momento in cui è comparsa la televisione, nei casolari di campagna vigeva l’usanza di ritrovarsi la sera davanti al focolare. La cena era appena terminata: il momento giusto per lasciar spazio alle conversazioni, ai racconti, alle leggende, alle dicerie che correvano in paese. Il vino rappresentava una sorta di “pozione magica” inebriante che dava sapore a quelle riunioni. Ai bambini venivano narrate le fiabe, ma al tempo stesso aleggiava il gusto di procurarsi brividi a vicenda. Non è un caso che, di frequente, ci si intrattenesse nel tramandare storie e leggende dagli accenti macabri. Era uno dei modi prediletti per provare e per trasmettere emozioni, amplificandole attraverso la cassa di risonanza della paura; un modo che, al pari della convivialità delle chiacchiere e del vino sorseggiato tutti insieme, alimentava il piacere della condivisione. Proprio lì, di notte, come in una sorta di rituale…mentre ardevano le fiamme del focolare.