La musica, la moda, il sodalizio con Raffaello Bellavista: conversazione con Serena Gentilini, cantante e artista eclettica

 

Per VALIUM, ogni promessa è debito. Eccomi quindi pronta per una chiacchierata a tutto campo con Serena Gentilini, stilista, modella e cantante oltre che partner – sia nell’ arte che nella vita – di Raffaello Bellavista, un ospite ormai fisso di questo blog (rileggi qui la sua ultima intervista). Classe 2000, nata a Lugo di Romagna, Serena vanta un solido background nel canto e nel settore teatrale. Ad appena 20 anni ha già calcato i palchi del Teatro Sociale di Piangipane, dell’ Arena Fico di Bologna, del Teatro della Regina di Cattolica, ma non solo: il suo curriculum annovera anche esperienze all’ Harlem Jazz and Music Fest di New York e in storici club della Grande Mela come The Bitter End e lo Smalls Jazz Club. Parlando di location prestigiose non si possono tralasciare Cinecittà, Palazzo Labia a Venezia, dove Serena ha preso parte al trascinante spettacolo “Eros e Thanatos” diretto e interpretato dal Principe Maurizio Agosti, e la Tenuta Biodinamica Mara, sede di un importante evento live con la partecipazione di Alessandro Cecchi Paone. L’ attività di questa giovane promessa romagnola, però, non si limita alle performance. Amante dell’ arte a 360 gradi, eclettica per natura, Serena è un’ appassionata di fashion design e alla carriera di modella affianca quella di stilista, creando gli abiti che indossa on stage. Non le manca di certo la classe per presentarli al pubblico: la prima cosa che colpisce in lei è la grazia, che va di pari passo con una bellezza raffinata e intensa. I suoi grandi occhi nocciola, incorniciati da sopracciglia ad ali di gabbiano, coniugano profondità e dolcezza. La chioma castano scuro, lunghissima e sempre tenuta sciolta, la fa somigliare a una Madonna rinascimentale. Curiosamente, forse a causa dei colori mediterranei o dei lineamenti armoniosi che li accomunano, svariate persone rilevano una vaga similarità fisica tra Serena e Raffaello: un’ osservazione piuttosto azzeccata, a ben vedere. Quel che è certo, è che insieme hanno dato vita a un duo in perfetta sintonia. Teneteli d’occhio, perchè li attendono progetti di alto livello che includono – tra l’altro – collaborazioni con personaggi notissimi (i nomi sono rigorosamente top secret) della scena musicale. Tutto questo, e molto altro ancora, ve lo racconterà la stessa Serena rispondendo alle mie domande.

La passione per il canto rappresenta solo una sfaccettatura della tua eclettica predisposizione artistica. Quando hai deciso che la musica, per te, sarebbe stata una priorità?

Sin da piccola ho sempre amato la musica. I miei genitori sono dei grandi amanti di questa arte e mi hanno cresciuto accompagnata dalle melodie di vari artisti e compositori. Un ricordo importante per me risale a una recita dell’asilo, avrò avuto 5 anni e cantavo una canzone in solo. Mi emozionó molto, sentii dentro di me che la musica sarebbe stata una cosa importantissima nel mio futuro. Iniziai così ad andare a lezione di canto e il mio amore per la musica fu chiaro. Ho capito che sarebbe stata la mia principale dedizione quando mi sono resa conto che non avrei mai desiderato fare qualcosa di diverso.

 

 

Canto, pittura, sculture in ceramica e fashion design sono alcune delle espressioni in cui incanali il tuo talento creativo. Per quanto riguarda il canto, ti sei affidata agli insegnamenti di professionisti come Emanuela Cortesi e Fulvio Massa, ma hai seguito anche masterclass vocali tenute da nomi del calibro di Gary Samuels e Deborah Zuke Smith: potresti dirci qualcosa di più rispetto a queste esperienze?

Ho iniziato il mio percorso musicale da molto piccola, la mia prima insegnante si chiamava Lucia. Crescendo ho proseguito assieme alla cantante Emanuela Cortesi, una professionista vivace e solare così come le sue lezioni. Successivamente mi sono interfacciata con il cantante lirico Fulvio Massa, incuriosita dalla tecnica vocale del bel canto ma restando sempre fedele al mio stile. Questa diversità musicale tra il mondo “pop” e quello lirico mi ha dato molto, in termini di consapevolezza vocale. Durante il mio soggiorno a New York e a Broadway ho seguito svariate masterclass canore tra cui quelle assieme a Deborah Zuke Smith e Gary Samuels, grande voce statunitense assieme a cui ho avuto il piacere di cantare al Jazz Festival di Harlem.

Quali generi ti ispirano di più, musicalmente?

Mi piacciono molti generi, sin da piccola ho sempre cercato di distillare da ognuno ció che più mi piaceva e mi rappresentava. La mia missione artistica è unire i tasselli sonori di ogni genere per creare un unico mosaico che è per me la musica. I generi da cui attingo maggiormente sono il pop, il jazz, il soul e in alcuni suoi aspetti la classica, tutti rivisitati secondo il mio spirito.

 

 

Nonostante l’amore per l’arte, hai scelto di iscriverti al liceo linguistico: una decisione che poi si è rivelata utilissima anche per il tuo percorso nel canto. Punti a una carriera internazionale o preferisci muoverti entro i confini italici?

Sì, nonostante il mio temperamento artistico ho scelto di frequentare una scuola linguistica che mi potesse dare gli strumenti per essere indipendente sia dal punto di vista manageriale sia da quello artistico nell’interpretazione di brani nelle principali lingue. Il mio intento è quello di partire dall’Italia per poi portare la mia figura in tutto il mondo.

 

Un autoritratto olio su tela di Serena

Come definiresti il tuo stile vocale?

Il mio stile vocale nasce dalla commistione di differenti correnti artistiche, dal pop al jazz al soul, con alcune sfumature di classica. Ne deriva un timbro molto particolare, caldo e raffinato, che mi permette di affrontare e interpretare con estrema originalità vari generi musicali rientrando nel cosiddetto “crossover”.

Chi sono le cantanti che ami e che più ti ispirano?

Ci sono vari artisti di vari generi che apprezzo particolarmente: Frank Sinatra, Sade, Amy Winehouse, Cher, Annie Lennox, Sting, Michael Jackson, David Bowie….Ognuno di questi ha un un aspetto musicale e stilistico che trovo interessante. Ma soprattutto, l’aspetto che più riscontro negli artisti citati è la capacità di aver creato un personaggio riconoscibile ed estremamente originale che ha detto qualcosa di nuovo in un ambiente musicale molto vicino alla saturazione. Proprio su questa idea si sviluppa il mio progetto artistico, che sta dando qualcosa che prima non c’era. Ovviamente l’innovazione ha radici in chi ha fatto la storia che tuttora viene scritta. Questi artisti hanno avuto molta rilevanza nella mia crescita, mentre ora sono concentrata esclusivamente sulla mia figura.

 

Serena insieme a Raffaello Bellavista, suo partner nella vita e nell’arte

Com’è nato il sodalizio con Raffaello Bellavista?

Mi piace sempre tenere le cose personali e belle della mia vita il più private possibile, però posso sicuramente dire che con Raffaello ci siamo incontrati grazie alla musica ed è stata una coesione totale, sia dal punto di vista sentimentale sia da quello artistico.

 

 

A Raffaello, infatti, sei legata anche da un rapporto sentimentale. Quale valore aggiunto apporta alla vostra love story il fatto di lavorare insieme, e viceversa?

Il fatto di avere entrambi questa spinta artistica interiore, che si fonde così perfettamente l’una con l’altra, rende ovviamente il rapporto ancora più magico. Infatti abbiamo scelto di unire anche la nostra musica in un format molto interessante con caratteristiche crossover.

In “Eros e Thanatos”, la performance ideata e diretta dal Principe Maurizio Agosti, il tuo contributo ha aggiunto ulteriore pathos alla rappresentazione. Hai mai pensato di diversificarti come attrice teatrale?

In passato ho più volte preso parte a rappresentazioni teatrali, anche da protagonista, con riconoscimenti e premi ricevuti, ma ho sempre dato la priorità alla parte musicale. A Venezia, in “Eros e Thanatos” questa mia esperienza pregressa è stata di grande importanza, infatti il mio intervento richiedeva una duplice abilità che ha potuto mettere in luce il mio lato musicale ma anche quello della recitazione. A Maurizio Agosti va il merito di aver colto la poliedricità della mia figura e di averla saputa con grande sapienza inserire all’interno del suo spettacolo. Nella prima parte ero su un trono totalmente immobile, dormiente, coperta da un velo. Alla fine dello spettacolo il Principe ha sollevato questo velo, con una serie di espedienti narrativi mi ha risvegliata e tra lo stupore generale ho cantato un’aria di Handel in chiave crossover accompagnata al pianoforte da Raffaello Bellavista. Concludendo, penso che “Eros e Thanatos” conoscerà un’importante seguito proprio per la sua unicità nel rappresentare un perfetto concetto di sinestesia tra più generi artistici oltre al fatto che è cucito su misura per ognuno dei protagonisti.

 

 

Due scatti tratti da “Eros e Thanatos”, la performance tenutasi nel prestigioso Palazzo Labia (sede RAI di Venezia)

La moda è un’altra delle tue diramazioni professionali. Hai sfilato e posato davanti all’ obiettivo sin da piccolissima, ma in seguito hai preferito concentrarti sul fashion design. Per quale motivo?

Sin da piccola mi ha affascinato molto il mondo della moda, mia nonna era una sarta bravissima, e oltre a trasmettermi qualche nozione di sartoria che poi ho sviluppato in autonomia crescendo, mi ha ispirato ad avvicinarmi anche a questo mondo. In questo momento della mia vita, ho deciso di esprimere me stessa anche attraverso gli abiti, che disegno e realizzo personalmente. Quello che ho sviluppato è l’idea di una linea di alta moda griffata Serena Gentilini, dedicata esclusivamente ai concerti nei quali indosso le mie creazioni. Un’eccezione è concessa al mio compagno in amore e in arte Raffaello Bellavista, che talvolta indosserà i miei design. I primi capi di questa linea sono già stati mostrati con successo nel mio ultimo concerto sui colli di Rimini. All’interno della stessa serata anche Raffaello ha indossato capi di mia creazione. La linea, proprio per l’ispirazione artistica che la anima, porta il nome di “RS”. Come ultima curiosità, in fase di progettazione e poi anche una volta mostrati, mi sono state fatte offerte molto elevate per acquistare i miei abiti, ma la filosofia dietro ognuno di questi rende la linea esclusivamente personale.

 

 

Serena in una posa da cover girl

A questo punto non posso che riallacciarmi alla filosofia che hai abbracciato sia come artista che come donna. Che cosa ci racconti, al riguardo?

Il mio punto cardine è l’integrità con se stessi, punto che ho sempre portato avanti facendo scelte all’apparenza e di fatto più difficili, che mi hanno chiesto alta determinazione e fatica, ma che mi hanno dato e mi stanno dando molta soddisfazione. Non è solo questione di realizzare se stessi e arrivare al successo, ma la qualità con la quale ci si arriva.

 

 

La tua linea RS, che produci dallo scorso agosto, al momento è focalizzata sull’ideazione di abiti di scena per te e per Raffaello Bellavista (da qui il nome, un acronimo delle vostre iniziali). Prevedi una presentazione ufficiale delle tue creazioni?

I primi capi sono già stati svelati e ne saranno svelati ulteriori durante le prossime performance. Nel 2021 presenterò l’intera linea durante un super evento per addetti ai lavori ma anche per i miei seguaci, in un’esperienza sinestetica tra varie forme d’arte facenti perno sul mio personale concetto di fashion design.

Credi che la tua attività di stilista, un giorno, possa svilupparsi in una direzione che non riguardi esclusivamente il vostro duo?

La mia linea è strettamente legata alla mia ispirazione artistica e musicale. Tengo molto a mantenere prevalentemente personale l’utilizzo degli abiti del mio marchio. Per il futuro, non posso ancora dire nulla con certezza.

 

Serena e Raffaello durante il live organizzato alla Tenuta Biodinamica Mara, sui colli riminesi

Quali sono i progetti più imminenti a cui si dedicherà la poliedrica Serena?

Presto usciranno alcuni miei singoli su tutte le piattaforme di streaming musicale. A breve saranno annunciate una serie di date nelle quali presenterò il mio format e anche quello assieme a Raffaello in sale prestigiose e con la collaborazione di artisti di grande importanza.

 

Il duo Gentilini-Bellavista con Alessandro Cecchi Paone in occasione dell’ evento alla Tenuta Mara

Serena e Raffaello, la nuova coppia della musica italiana

 

 

Ancora qualche immagine del live del duo all’ avveniristica Tenuta Mara. Tutti gli abiti indossati da Serena nelle foto (escluse quelle relative alla performance veneziana) fanno parte della sua linea RS: le stoffe sono firmate Golden Group, azienda leader nel settore tessile con base a San Marino e capeggiata dall’ imprenditore Lucio Marangoni

 

 

Photo courtesy of Serena Gentilini

 

 

Giulia Pivetta: la moda tra fenomenologia e cultura giovanile

 

La osservi, e pensi che Giulia Pivetta sia una perfetta incarnazione del tipo di donna che più spesso descrive: l’ età è indefinibile, l’ aspetto a metà tra la donna adulta e un’ adolescente in via di sboccio, il look vagamente rétro. In realtà Giulia ha 33 anni, cinque libri e numerosi articoli già all’ attivo ed è impegnata su più fronti, ad esempio come docente alla Domus Academy di Milano. Ma quel che salta all’ attenzione è la sua ricerca, da sempre incentrata sulla moda come fenomeno sociale e sulle culture giovanili. La moda che Giulia racconta si interseca con la “strada”, con il fermento adolescenziale, con le evoluzioni del costume, e viaggia di pari passo con il mutare delle epoche e dei loro iter di stile.  Il suo studio approfondisce il punto d’ incontro tra estetica e cultura: Lolita, il dandy, il “Pink Feminism” delle Millennials sono solo alcuni dei temi inerenti al suo universo. Su tutti, risalta un’ indagine a 360° – o sarebbe meglio dire “una passione smisurata” – che ruota attorno agli anni ’60. E’ Giulia stessa a spiegarci da dove nasce, e molto altro ancora.

Cosa mi racconti di te e del tuo percorso?

Ho sempre avuto una grandissima propensione verso tutto ciò che è visivo, che riguarda l’immagine. Non so se è una questione generazionale o più personale, del modo in cui cresci…Però sono sempre stata molto attaccata alle immagini, soprattutto alle immagini degli abiti: quello che gli abiti rappresentavano per me nella mia vita, nella mia infanzia, anche in modo inconscio. Da lì mi è venuto il desiderio di fare la stilista. Questo è stato il mio primo input, per cui i miei studi dopo le superiori sono stati orientati al Fashion and Textile Design. Mi sono diplomata al NABA, ma non ho concretizzato il mio sogno perché, in quel momento, non sentivo l’ambiente canonico della moda particolarmente adatto a me. Avevo un’idea molto romantica, molto “rétro” se vuoi, della figura dello stilista, che non combaciava con la realtà dei fatti. Nel contempo mi sono avvicinata ai temi delle avanguardie storiche, delle culture, dello stile, tutto quello che lontano dalle passerelle accadeva e che alle passerelle, poi, in realtà parlava. Per cui mi sono specializzata in modo molto naturale in quello che ora è il mio mestiere: raccontare immagini e abiti che per me hanno rappresentato la felicità per tanti anni e anche tuttora. Ho iniziato a raccontare non tanto la situazione delle passerelle, ma come gli abiti e la moda fanno parte della vita quotidiana della gente, come dalle passerelle si vada a parlare di persone vere. Della moda, cioè, intesa come qualcuno che crea ma anche come qualcosa che ha a che fare con la vita delle persone. Le subculture e le avanguardie sono state un po’ un pretesto, perché non ti parlano di fashion design ma ti parlano di ragazzi. La cultura giovanile, l’adolescenza con la sua ribellione sono gli elementi fondamentali della mia ricerca.  ll mio è un cercare di raccontare con parole facili, ma non superficiali, che cos’ è la moda reale. E poi ci sono queste benedette immagini a guidarmi, questi vestiti che sono essenzialmente immagini. La scrittura per me è un veicolo, uno strumento, non il fine principale: non voglio fare la scrittrice.

 

Il titolo e il logo della copertina di “Ladies Haircult” (2016, ed. 24 Ore Cultura)

Docente, autrice, fine conoscitrice dei fenomeni di moda e di costume. Come ti sintetizzeresti in una definizione?

A volte vivo molto male, altre molto bene il fatto di non sentirmi racchiusa in una definizione. Per sintetizzare potrei dire che sono un’autrice giornalista, poi però bisognerebbe specificare “di moda e di costume”…Non amo le definizioni strette perché secondo me semplificano, e le semplificazioni banalizzano.

 

La copertina di “Dreamers & Dissenters” (2012, ed. Vololibero)

Nei tuoi libri volgi spesso lo sguardo allo stile e alla cultura pop anni ’60: cosa ti affascina di più, di quel periodo?

Sono stati un po’ il motivo scatenante che mi ha fatto aprire il vaso di Pandora: quando li ho scoperti, mi si è aperto davanti tutto un mondo. E’ facile capire cosa affascina degli anni ’60. Negli anni ‘60 c’è stata la sintesi e allo stesso tempo l’esplosione di un’estetica, di tante estetiche…Ho scritto un libro che è, appunto, una lode spassionata a questo decennio. Si intitola “Dreamers and dissenters” ed è illustrato da Matteo Guarnaccia. Nel libro prendo in analisi un’ epoca che definisco “di dissenzienti e sognatori” e racconto tutti gli stili nati allora. Ne abbiamo inseriti forse una trentina, ma ci siamo dovuti limitare! In soli dieci anni è nata una serie di input, al di là delle passerelle, su cui ci sarebbe stato da scrivere tanto altro ancora. E’ stato un decennio davvero ipercarico, con un’energia che si è concentrata come poche volte è capitato nella storia. Un fermento che ha coinvolto le gerarchie sociali, le estetiche, l’arte, la musica…

 

 

Le copertine di “Ladies’haircult” (2016) e “Barber Couture” (2014), ed. 24 Ore Cultura

La moda è, da sempre, legata a doppio filo all’ evoluzione del costume. Qual è il rapporto che le unisce e quale delle due influenza l’ altra per prima?

Diciamo che la moda non è fatta altro che di persone che guardano quello che succede, che sentono quello che sta per succedere e lo trasferiscono negli abiti. Per cui, c’è un po’ questo: la moda ruba dalla strada, dalle subculture ma anche dalle persone, prende ispirazione da quelle che sono espressioni autentiche di stile, poi le rilegge e le fa diventare una cosa poetica anche quando non c’è poesia. Ma questo è solo un aspetto. Dall’ altro lato è anche vero che lo stilista fa un lavoro di sintesi, di input, crea qualcosa di nuovo che diventa qualcos’altro e addosso alla gente diventa un’altra cosa ancora. Quindi, secondo me, è un continuo dare e ricevere tra una parte e l’altra. Anche perché il punto di contatto è rappresentato dagli stilisti, che sono uomini nel mondo…E oltretutto, sempre di più. Oggi il fashion designer lavora con un team di persone, è come se nel suo studio avesse una microcollettività, gli input vanno e vengono. E’ una cosa normalissima, un motivo di grande orgoglio per i designer di tutti i marchi più famosi: avere un team con cui lavorare attraverso uno scambio continuo.

 

La copertina di “Lolita. Icona di stile” (2016, ed. 24 Ore Cultura)

Nel 2016 hai analizzato in un libro il fenomeno di Lolita e delle “ninfette”, su Marie Claire è uscito un tuo articolo sul “Pink Feminism” delle Millennials. Come è cambiata l’affermazione del femminile, da Lolita in poi?

Sono due argomenti molto connessi, e non solo per via del rosa! L’ affermazione del femminile con Lolita si veste di un linguaggio, diciamo, “antico”, nel senso che è qualcosa che c’era già: Lolita incarna una tipologia di femminilità ancestrale, che però tramite lei inizia a parlare un linguaggio pop. Se vuoi anche grazie al film, perché nel momento in cui qualcosa di scritto prende una forma estetica e si fa immagine, diventa veicolabile a tutti. Questo è stato il grande apporto di Lolita. E poi, il nome: un nome che fosse attuale, moderno, e lo è tuttora. Un nome che fosse unico, perfetto per il momento in cui è uscito, per la persona che stava a rappresentarlo e per il tipo di femminilità che rappresentava. Da allora è cambiato il fatto che l’infanzia, o anche il lato bambino, giocoso, è diventata un valore, qualcosa da difendere e che non va buttata via insieme al primo paio di scarpe col tacco e al primo filo di rossetto. Ed è un valore che va preservato, mentre prima si lasciava alle spalle nel momento in cui si entrava nell’ età adulta.  “Pink Feminism” perché il rosa è il colore della donna, ma è anche un colore che rimanda molto all’ infanzia, quindi ha una doppia valenza. Poi ovviamente viene chiamato così anche per via del “Millennial Pink” e del successo pazzesco che ha avuto questo colore. Ma è un tipo di messaggio, quello che passano le femministe di oggi, che – e si vede anche nelle foto dell’articolo – non fa finta di essere qualcos’altro. Si rifà all’ infanzia, a uno spirito ancora molto presente in tutte le ragazze che hanno 18, 16 anni: non è che da un momento all’ altro ti dimentichi delle penne colorate che fino a due settimane prima avevi usato per scrivere nel tuo diario.

Nell’ articolo sottolinei che il “sistema lo combatti meglio se ne fai parte integrante”. Non pensi che, essendo l’arte una delle più alte forme di espressione umana, le artiste che citi operino da un punto di vista privilegiato?

Oggi tutto è molto più connesso, non esiste un milieu intellettuale che vive lontano dalle dinamiche del mondo e che quindi può permettersi certe cose perché tanto, poi, alla fine rimane immune da tutto. C’è sempre una ricerca personale, secondo me. Un percorso di indagine condotta anche sulla base della sensibilità individuale. Il sistema lo combatti meglio dal di dentro, se sei parte di esso: queste ragazze sono delle artiste, ma al tempo stesso lavorano come fotografe, registe…Fanno tante cose. Certo, si tratta   sempre di lavori che hanno una componente creativa molto alta. Ma è una scelta personale il fatto di fare un lavoro artistico a mille livelli, dove c’è una tua espressione propria o meno. E vale anche per tutte coloro che producono lavori che possono far parte del commercio, del sistema. Non noto divisioni così nette.

Dalla celebre t-shirt che recitava “We all should be feminists” ideata da M.Grazia Chiuri a molti altri esempi attuali, anche il mondo della moda è stato contagiato dalla vena femminista: tendenza o potente elemento amplificatore?

Dipende da quale espressione della moda si tratta. Parlando ad esempio di Dior, Maria Grazia Chiuri è una donna e quindi ha molto senso che voglia far arrivare a tutte, anche a livello di mainstream, quella frase.  Io non trovo che se il femminismo passa a più livelli, attraverso cioè un capo di abbigliamento, attraverso la moda, sia negativo. Gli abiti veicolano sempre dei messaggi, e piuttosto che un messaggio di distruzione preferisco che portino un messaggio di coscienza e di autocoscienza. Penso che è nella natura della moda trasmettere messaggi. Poi, che la gente sia conscia o meno del messaggio che sta portando addosso, è un altro discorso.

 

Luca Rubinacci. Foto © Mattia Balsamini tratta dal libro “Dandy. Lo stile italiano” (2017, ed. 24 Ore Cultura)

In “Dandy. Lo stile italiano”, il tuo ultimo libro, ti occupi di questa storica figura maschile e del suo universo. Qual è l’identikit di un dandy italiano del nuovo millennio?

Nel libro esistono dei caratteri che accomunano tutti, poi ovviamente ognuno li declina a proprio modo e si vede. Ognuno ha la sua identità. A livello stilistico è il fatto di conoscere quello che si indossa, cioè sapere che alla base di un abito o alla base dell’abbigliamento c’è la cultura, e soprattutto arrivare all’ abbigliamento attraverso la cultura. Che non vuol dire una mera ricerca estetica dal punto di vista delle forme, ma è tutto quel compete la cultura tessile, la cultura della manifattura, la cultura dell’artigianalità, la storia…Questo, a mio avviso, è il leitmotiv presente nell’ identikit di un dandy italiano. Poi è ovvio che se mi chiedi dei dettagli estetici tipo “ha la pochette” piuttosto che “le scarpe verdi”, fatico a dirlo. I protagonisti del mio libro sono molto diversi tra loro ed una cosa che, a mio parere, li accomuna, è quella di riuscire a amalgamare molti mondi, di non rimanere ancorati alla sartoria artigianale. Mescolare un abito fatto a mano con qualcosa, magari, di origine militare o che arriva dagli anni ’60. Secondo me è fondamentale.

 

Luigi Presicce nella copertina di “Dandy. Lo stile italiano”. Foto © Jacopo Menzani e Tommaso Majonchi.

Chi rappresenta maggiormente, oggi, la quintessenza del dandy del Bel Paese?

In realtà lo fanno tutti. Io i “miei dandy” li ho scelti proprio perché per me tutti rappresentano – per un motivo o per l’altro – quella figura, per cui non ho preferenze. Potrebbe essere Alessio Berto come Gerardo Cavaliere, i fratelli Guardì…Oppure Luigi Presicce, l’artista in copertina. Dandy lo sono un po’ tutti, li ho selezionati con cura! Ognuno di loro è esemplificativo di un carattere ben preciso.

 

Rodolfo Valentino. Foto © Ullstein Bild / Alinari

Hai qualche progetto in serbo di cui mi vorresti parlare?

Assolutamente sì: è un progetto che si sta chiudendo in questi giorni, ma fino a un nuovo ordine non posso pronunciarmi. Ti aggiornerò appena posso!

 

Sergio. Foto © Giulia Gasparini

Barnaba Fornasetti. Foto © Mattia Balsamini

Tavolo del Maestro Liverano. Foto courtesy Liverano & Liverano