La colazione di oggi: il caffè e le sue varianti nel mondo

 

In Italia è un’istituzione. Il caffè non è una semplice bevanda, bensì un rito: da svolgere da soli o in compagnia. Ma anche nel resto del mondo lo si apprezza. Non è un caso che appaia solo al terzo posto, dopo l’acqua e il té, nella classifica dei liquidi più bevuti. E se nello stivale l’espresso (preparato al bar con una macchina che eroga un getto di acqua calda sotto pressione su uno strato di caffè macinato e pressato in precedenza) è il tipo di caffè più gettonato, molti paesi hanno elaborato varianti entrate a far parte delle proprie tipicità nazionali. Le caratteristiche di queste varianti, come scopriremo, sono determinate da molteplici fattori: i più rilevanti si associano alla presenza di piantagioni di caffè, alla lavorazione dei chicchi, al gusto e allo stile di vita locali. Il caffè migliore, è risaputo, proviene dalle zone tropicali. Le specie del genere Coffea sono diffuse nella “Bean Belt”, la fascia equatoriale del globo, che comprende oltre 50 paesi. In essa rientrano molti stati dell’ America del Sud, dell’ Africa e dell’Asia sud orientale. A detenere il record della produzione mondiale di caffè sono cinque nazioni: al primo posto in classifica troviamo il Brasile, seguito dal Vietnam, dalla Colombia, dall’ Indonesia e dall’  Etiopia. Qualche dato? Il mercato del caffè è secondo solo a quello del petrolio; ogni anno si esportano più di 30 milioni di sacchi di caffè, che viene consumato da circa il 40% della popolazione terrestre. Secondo le statistiche, le tazze di caffè bevute annualmente ammontano a ben 500 miliardi. I paesi maggiormente coinvolti nell’esportazione del prodotto sono il Brasile, la Colombia (dove è presente il cosiddetto “Eje Cafetero”, una vastissima area di piantagioni di caffé), l’Indonesia e l’ Honduras, mentre tra i principali importatori figurano gli Stati Uniti, la Germania, la Francia, l’Italia e il Belgio. Le qualità di caffè differiscono in base al luogo di provenienza. Determinanti per l’aroma risultano il clima, il tipo di terreno, la coltivazione…Il sapore dei chicchi, idealmente, dovrebbe contraddistinguere il paese da cui derivano. In questo articolo ci occuperemo però non tanto della Coffea Arabica, quanto del caffè bell’è pronto: ovvero, delle varianti di caffè (considerato come bevanda) più diffuse al mondo.

 

 

Andiamo subito in Colombia, dove il caffè rappresenta il motore dell’economia. L’ Eje Cafetero, situato a sud di Medellin, è la “zona del caffè” per eccellenza: qui il caffè si coltiva, si produce e si esporta. In questo territorio immenso le piantagioni si alternano a città, paesini e paesaggi di una bellezza mozzafiato che hanno fatto guadagnare all’Eje il titolo di Patrimonio Mondiale dell’ Umanità UNESCO. Ma quali sono le principali tipologie di caffè preparate in Colombia? Su tutte, predominano due rivisitazioni dell’ espresso: se il Tinto corrisponde all’espresso classico, la Chaqueta è un caffè nero arricchito di panela, ovvero zucchero di canna non raffinato e plasmato in panetti che funge da dolcificante. Questo caffè viene anche detto Tinto Campesino. Poi c’è il Cortado, un caffè macchiato che mescola espresso e latte in parti uguali.

 

 

Proseguiamo il nostro tragitto in America Latina. Chi ha visitato il Venezuela sarà senz’altro rimasto intrigato dal caffè Guayoyo, un caffè nero dall’aroma decisamente soave diluito con acqua bollente. Il Cerrero è il suo esatto opposto, molto concentrato e dal gusto intenso, mentre il Guarapo viene dolcificato con il papelòn, l’equivalente della panela colombiana. Il Tetero, invece, si prepara con un 90% di latte e un 10% di caffè.

 

 

In Messico il Café de Olla è una bevanda tradizionale; solitamente, per esaltare il suo sapore “antico”, viene servito in tazze o recipienti di argilla o di ceramica. Si beve caldo ed è composto da acqua, caffè macinato, cannella e piloncillo (il nome messicano della panela colombiana). Il Café de Olla ha un aroma inconfondibile che sancisce la sua unicità.

 

 

Restiamo in America, ma dirigiamoci negli Stati Uniti. Negli USA il caffè è molto amato, ma viene preparato in un modo completamente diverso dal nostro. Il più conosciuto è senz’altro il Caffè Americano, un caffè lungo, diluito con acqua bollente, bevuto in tazze alte e piuttosto capienti (le cosiddette “mugs”). Il Red Eye, invece, richiede una tazza di piccole dimensioni per esaltare il suo gusto intenso: è un mix potente di caffè espresso ed americano. Poi abbiamo il Drip Coffee, preparato con un filtro all’interno del quale viene posta una dose di caffè macinato. Per completare l’opera, si versa dell’acqua calda sul caffè in modo da creare un liquido uniforme. Va anche detto che gli americani adorano rendere il caffè il più goloso possibile: molto spesso lo arricchiscono con panna, marshmallows, biscotti e un’ampia varietà di delizie dolciarie.

 

 

Dall’America passiamo all’ Europa, dove non si può certo dire che le varianti del caffè facciano difetto. Una delle più note è certamente l’Irish Coffee, diffusissimo anche negli Stati Uniti: nasce in Irlanda, come suggerisce il suo nome, ed è una prelibata miscela di caffè caldo, whiskey rigorosamente irlandese e una buona dose di panna shakerata “posata” sulla superficie. Perchè shakerata? E’ molto semplice: in questo modo appare ancora più spumosa ed invitante. L’Irish Coffee si beve in un bicchiere di vetro simile a un calice, a stelo lungo, che viene riscaldato prima di essere riempito. La storia dell’Irish Coffee è curiosa. Fu inventato da Joe Sheridan, lo chef di un ristorante situato di fronte all’ aereoporto della città irlandese di Foynes, per rinfrancare dei viaggiatori di malumore a causa della cancellazione del volo su cui si sarebbero imbarcati. Qualche anno dopo un giornalista del San Francisco Chronicle, Stanton Delaplane, degustò l’Irish Coffee mentre si trovava in Irlanda e ne fu conquistato al punto tale da “esportarlo” immediatamente negli Stati Uniti.

 

 

Approdando in Germania, notiamo che anche i tedeschi amano abbinare al caffè i più golosi ingredienti. L’Eiskaffee, ad esempio, è un drink che combina il caffè freddo con polvere di cacao, gelato alla vaniglia e panna montata. Una ghiottoneria unica, non c’è che dire! Il Pharisäer Kaffee si prepara invece correggendo il caffè lungo con del rum ed aggiungendo una spolverata di cacao amaro, dello zucchero e una buona dose di panna montata: da leccarsi i baffi.

 

 

In Asia c’è davvero da sbizzarrirsi. Il Vietnam, al secondo posto tra i paesi esportatori di caffè, spicca per le varianti a dir poco creative con cui ha rivisitato la bevanda. Innanzitutto va detto che il caffè classico si prepara con una speciale caffettiera a percolazione, i cui filtri vengono posizionati proprio sopra al bicchiere. Su un filtro si inserisce il caffè macinato, poi si versa dell’acqua calda lentamente, a più riprese. Infine si mescola il tutto e si ottiene un caffè dal gusto molto intenso, che può essere gustato sia caldo che freddo (grazie ad alcuni cubetti di ghiaccio). Un’ altra versione di questo caffè prevede l’aggiunta di una modica dose di latte condensato, e riscaldato, precedentemente messo nel bicchiere. La variante detta Bac Xiu si avvale invece di latte condensato in dosi massicce raffreddato con molto ghiaccio. Il sapore particolarmente forte del caffè vietnamita è dovuto ai chicchi di Robusta con cui si prepara, che rispetto a quelli di Arabica contengono il doppio della caffeina. Il Caphe Trung potrebbe quasi essere definito un dolce: si montano dei tuorli d’uovo mescolandoli con lo zucchero e il latte condensato, unendoli successivamente al caffè preparato con la caffettiera a percolazione. Il risultato è super goloso, una sorta di crema densa che ricorda il tiramisù. Il Caphe Sua Chua è un delizioso mix di caffè nero e yogurt, mentre il Caphe Dua combina il caffè con il latte di cocco, e viene servito caldo oppure ghiacciato.

 

 

Prima di passare ai caffè ghiacciati, che durante l’estate hanno spopolato e intendono farlo anche in autunno, diamo un’occhiata al caffè più diffuso nella penisola balcanica, in medio oriente e in tutti i paesi arabi: il caffè Turco. L’acqua, insieme al caffè in polvere e allo zucchero, viene fatta bollire in un bricco di ottone che i turchi chiamano “cezve” e i greci “briki”. Una volta pronto, è tassativo insaporire il caffè con delle spezie – in particolare il cardamomo. Anche buona parte dell’Africa, come abbiamo già visto, appartiene alla cosiddetta “Bean Belt”. Del continente nero non possiamo tralasciare il caffè Touba, un’ antichissima bevanda senegalese. Il Touba, autentico emblema della tradizione africana, viene addirittura servito per strada e come complemento ideale dello street food (in Senegal, infatti, lo si accompagna ai cibi salati). Questo tipo di caffè, dal gusto intenso e corposo, si prepara pestando i grani di caffè insieme ai chiodi di garofano e a baccelli di pepe tostati. Dopo aver filtrato la miscela, si aggiunge dell’acqua bollente e si filtra nuovamente; oppure si dolcifica il tutto tralasciando la seconda filtrazione. La bevanda che si ottiene ha un gusto unico, potente e speziato, e svolge un’ottima azione depurativa per lo stomaco e il fegato.

 

 

Con i bollori dell’estate, di recente, si è verificato un vero e proprio boom del caffè ghiacciato. Essenzialmente ne esistono due tipi: l’Iced Coffee e il Cold Brew Coffee. Il primo è un caffè che viene estratto a caldo e in seguito raffreddato. Tra le sue varianti in Italia troviamo l’Espresso Shakerato, mentre in Giappone furoreggia il Japanese Iced Coffee (che si avvale di un dripper per la sua preparazione) e negli USA l’Iced Latte arricchito di sciroppi aromatizzati. Il Cold Brew Coffee, al contrario, è un caffè preparato con acqua fredda (o addirittura ghiacciata) in cui vengono infusi dei fondi di caffè in polvere. L’operazione richiede dalle 12 alle 24 ore, dopodichè il caffè può essere scolato. Il Cold Brew Coffee affonda le sue origini a Kyoto, in Giappone, e fu diffuso in Europa dai mercanti olandesi che commerciavano con il paese del Sol Levante. Oggi, nazioni come il Vietnam, l’India e la Tailandia hanno creato delle proprie varianti della bevanda, gettonatissima anche negli Stati Uniti.

 

 

 

La colazione di oggi: i canditi, una tipica delizia natalizia

 

Nel periodo natalizio, i canditi sono gettonatissimi: arricchiscono innumerevoli dolci, su tutti il panettone (rileggi qui l’articolo che VALIUM gli ha dedicato), di un tocco di golosità irresistibile. Ma che cos’è esattamente la frutta candita, e quali benefici apporta? Lo scopriremo in questa nuova puntata de “La colazione di oggi”. La frutta candita è, innanzitutto, frutta che viene disidratata e conservata grazie allo zucchero. Per prepararla si utilizzano gli agrumi (cedro e arancia); lo zucchero favorisce l’ espulsione dell’acqua e si fa strada all’ interno del frutto, solidificandolo e rendendolo estremamente dolce. I procedimenti per ottenere la frutta candita, tuttavia, sono molteplici e differiscono l’ uno dall’ altro. Le variazioni riguardano soprattutto la canditura industriale e quella artigianale, due lavorazioni agli antipodi: la prima si avvale di un buon numero di additivi, aromi e conservanti chimici, per cui ci focalizzeremo solo sulla seconda, ovvero i canditi preparati artigianalmente. Il processo della canditura si perde nella notte dei tempi. L’obiettivo prioritario era quello di preservare la freschezza degli alimenti. Gli antichi Romani ed altri popoli solevano conservare i cibi sotto miele o servendosi dello sciroppo di palma. Oggi, la lavorazione ha luogo nelle pasticcerie artigianali: il mastro pasticcere esamina accuratamente la frutta a sua disposizione, la taglia a cubetti e la riveste di uno speciale sciroppo ricco di zucchero che ha preparato personalmente.

 

 

Va detto, comunque, che i procedimenti utilizzati per la canditura sono perlopiù mantenuti top secret. Ogni mastro pasticcere ha elaborato il proprio. Per far sì che la frutta cristallizzi velocemente, ad esempio, alcuni si servono del miele d’acacia, altri aggiungono qualche goccia di limone. Di base, gli ingredienti della frutta candita sono la frutta stessa, una buona dose di zucchero, del miele di acacia o, in alternativa, un po’ di succo di limone. Tutti componenti genuini, insomma, e ricchi di proprietà nutrizionali. Ma quali sono, virtù salutari a parte, i punti di forza dei canditi artigianali? Innanzitutto, il sapore caratteristico: intenso, profumatissimo. Degustarli è una vera e propria esperienza sensoriale, evocativa ed emozionale a un tempo.

 

 

Approfondiamo ora i benefici dei canditi a livello nutrizionale. Cominciamo col dire che abbondano di Vitamina A e Vitamina C, ma anche di fibre, acqua, minerali come il potassio e polifenoli, dei potenti antiossidanti. Il fruttosio non è presente in quantità troppo elevate, ma le alte dosi di zuccheri solubili rendono i canditi off-limits per chi ha dei problemi di linea, chi soffre di diabete o ha un eccesso di trigliceridi nel sangue.

 

 

A colazione, i canditi risultano perfetti perchè donano energia e tramutano in delizia qualsiasi alimento. Se li amate, le feste natalizie sono il periodo ideale per assaporarli appieno. I dolci che li contengono sono innumerevoli: iniziare con il panettone (che li affianca alle uvette) è d’obbligo, per poi procedere con l’ Angelica di Natale, il Christmas Cake, il Christmas Fruitcake (un caratteristico plumcake inglese), la Treccia di Natale, il tedesco Christstollen e, passando alle tipicità regionali italiane, il Pandolce ligure, il Panforte toscano, lo Zelten del Trentino, i Cannoli  e i Buccellati siciliani…mi fermo qui per motivi di spazio, ma la lista è pressochè infinita.

 

Il Christstollen

Concludo con qualche cenno storico sulla canditura, un termine che deriva dall’ arabo “qandat” probabilmente evoluto dal sanscrito “khandakah”. La conservazione degli alimenti sotto miele o nello sciroppo di palma era diffusa nell’ antica Roma, in Mesopotamia e nel territorio cinese; furono gli Arabi a portarla a livelli di eccellenza, propagando il suo utilizzo in Europa grazie ai rapporti mercantili con Venezia e poi con Genova. Nell’ Italia del Sud la canditura fu divulgata, invece, all’ epoca del dominio islamico sulla Sicilia, che durò per circa 250 anni: dall’ 827 al 1091.

 

 

 

Seven Magic Mountains, l’iconica opera di Land Art di Ugo Rondinone nel deserto del Nevada

 

Nel cuore del deserto del Nevada, a circa 30 minuti da Las Vegas, si innalzano pinnacoli in netto contrasto con il paesaggio circostante: sono sette, e a prima vista potrebbero sembrare totem o torri di pietra. I colori, molteplici e fluorescenti, li rendono ancora più impattanti. Ci troviamo davanti a un miraggio? Il nostro sguardo viene catturato immediatamente, la mente comincia a farsi domande. Perchè quelle sette monumentali sculture sono comparse all’ improvviso, in un luogo del tutto inaspettato, e decifrare la loro funzione è quasi imprescindibile. Ecco dunque la risposta: Seven Magic Mountains è una celebre opera di Land Art di Ugo Rondinone. L’ artista, nato in Svizzera nel 1964 e residente a New York, ha inaugurato il suo capolavoro l’ 11 Maggio del 2016 prevedendone la fruizione per due anni; in realtà, i totem variopinti e torreggianti rimarranno nel deserto per molto altro tempo ancora (forse fino al 2027). Il perchè non è difficile da intuire: l’ installazione è diventata iconica, quasi un emblema del paesaggio stesso. Il pubblico accorre a visitarla in massa, tanto più che per vederla non si paga neppure il biglietto. Ma con quale intento è nata e quale è stato il processo di lavorazione di Seven Magic Mountains? Il complesso si trova nel deserto del Mojave, precisamente nella valle di Ivanpah, e sorge su un terreno brullo circondato dalle montagne. A comporre l’ opera sono macigni calcarei sovrapposti verticalmente; si va da un minimo di tre pietre a un massimo di sei. L’ altezza delle “montagne” raggiunge i nove – dieci metri, e ciascun masso è tinto di un colore fluorescente. Osservando le sette creazioni, affiorano indizi di una sacralità primordiale: elementi del Hoodoo di matrice africana, residui totemici dei nativi americani appartenenti alla tribù degli Ojibway.

 

 

Coniugando Land Art e Pop Art, l’ opera in realtà sancisce un connubio tra natura e artificio. La sua realizzazione, che si è avvalsa del contributo di giovani land artist locali, è durata ben cinque anni. Prodotta dal Nevada Museum of Art e dall’ Art Production Fund di New York, Seven Magic Mountains si erge a pochi passi dal lago Jean Dry e fiancheggia l’ Interstate Highway 15 (che attraversa da nord a sud la California, il Nevada, l’ Arizona, lo Utah, l’ Idaho e il Montana). Rondinone ha dichiarato di essere subito rimasto colpito da quel tratto di deserto in cui regnano solo il silenzio e il sole. Ha pensato, quindi, di collocare proprio lì le sue sette montagne magiche, i sette cumuli di pietre accatastate l’una sopra l’ altra. L’ ispirazione riconduce a un tema predominante nel lavoro dell’ artista svizzero, il rapporto tra uomo e natura. Le sue sculture e i suoi dipinti rievocano spessissimo elementi cosmici e naturali: la luna, il sole, l’aria, l’universo…Natura, romanticismo ed esistenzialismo compongono per Rondinone una sorta di triade di riferimento. Da essa scaturisce il dualismo che permea l’ opera situata nel deserto. Le Seven Magic Mountains costituiscono un trait d’union che connette il naturale e l’ artificiale, la sedimentarietà e l’astrazione, la solidità e l’ equilibrio precario, il minimalismo e il romanticismo. Il misticismo, in questo mix, è presente eccome. Soprattutto nel suggerire riflessioni tra la divinità naturale e i simulacri di Las Vegas, a una manciata di chilometri dall’ installazione.

 

 

Le sette sculture, sicuramente, ispirano meditazioni. Pongono interrogativi, esortano a ragionare, a dedurre e a rinvenire collegamenti. Le loro cromie vivaci, le loro forme irregolari e massicce erompono come per magia dal suolo arido del Mojave. Immaginatele mentre si stagliano contro il suggestivo cielo del tramonto…Tra le mille luci di Las Vegas e quella landa solitaria e selvaggia, le Seven Magic Mountains si insinuano come un’ oasi di straordinaria poesia. Dal 2016 in poi, l’ installazione è stata visitata da milioni di persone. Turisti e autoctoni se ne sono innamorati al punto tale da far sì che i due anni inizialmente dedicati alla sua fruizione fossero prorogati. A causa del particolare clima del deserto, tuttavia, i totem sono stati sottoposti a frequenti restauri: i raggi del sole, le temperature – una media di 37 gradi tutto l’anno – e i persistenti venti sabbiosi rappresentano degli ineludibili fattori di danneggiamento. Le vernici utilizzate per tingere i massi, ad esempio, contengono pigmenti eco-compatibili che tendono a scolorire con il tempo. Ogni restauro è stato quindi eseguito nel massimo rispetto sia della salvaguardia ambientale che della presevazione di una delle più prestigiose opere di Land Art degli Stati Uniti da 40 anni a questa parte.

 

Martedì Grasso: Venezia, le maschere e i “mascareri”

 

“Spesso una maschera ci dice più di un volto.”
(Oscar Wilde)

 

E’ una storia antichissima, quella del Carnevale veneziano. Un documento del Doge Vitale Falier attesta la sua esistenza già nel 1094, ma solo nel 1296 venne dichiarato festa pubblica con un editto del Senato della Repubblica di Venezia. A quei tempi il Carnevale iniziava il mese di Ottobre, a volte il giorno di Santo Stefano, per poi protrarsi (in entrambi i casi) fino al mercoledì delle Ceneri. Un tripudio di maschere e costumi favoriva il divertimento più sfrenato: nell’ anonimato, scatenarsi in balli, burle e satire non provocava alcun imbarazzo. La Serenissima, anzi, incoraggiava simili comportamenti. Non è un caso che il Carnevale fosse stato istituito in base al principio “panem et circensem”, garantendo una valvola di sfogo per il malcontento del popolo nei confronti del governo. La maschera, in particolare, divenne un elemento fondante del Carnevale lagunare. Lo scopo con cui veniva indossata era ben preciso: assicurava il livellamento sociale eliminando ogni differenza rispetto al sesso, all’ età, alla religione, al ceto di appartenenza. Tutti potevano sbizzarrirsi nel tramutarsi in qualcun altro, l’ identità assumeva le sembianze di un mero travestimento. Lungo le calli e i campi, il saluto che ci si scambiava era solo uno: “Buongiorno, siora maschera!”. Celare il volto donava un’ indicibile sensazione di libertà; ci si allontanava dal proprio io e dal proprio quotidiano, alimentando la fantasia con la creazione di sempre nuovi personaggi. La gioia, la giocosità e la licenziosità spadroneggiavano, sul grande palcoscenico veneziano. Una folla mascherata e variopinta dava vita ad una sorta di spettacolo permanente. La maschera, che nella preistoria si indossava durante i rituali religiosi, a Carnevale diventava una complice, una fedele alleata che permetteva di dedicarsi a frizzi e lazzi di ogni tipo.

 

 

Dal 1271 in poi, di conseguenza, a Venezia si sviluppò un fiorente artigianato delle maschere. Sorsero scuole e botteghe, vennero ideate nuove tecniche di lavorazione. I materiali utilizzati erano l’argilla, il gesso, la cartapesta, la garza, modellati grazie a strumenti sempre più specifici. Gli ornamenti delle maschere veneziane divennero celebri: i “mascareri” le impreziosivano con un trionfo di arabeschi, piume e perline accentuandone la sontuosità straordinaria. A poco a poco, si moltiplicarono le fogge e le decorazioni. Il savoir faire artigianale raggiunse livelli di sublime minuziosità, creando maschere che erano degli autentici capolavori. Uno statuto promulgato il 10 Aprile 1436 riconobbe ufficialmente il mestiere del mascarero; ciò favorì un ulteriore incremento nella produzione del più importante accessorio carnascialesco.

 

 

Nel periodo d’oro del Carnevale veneziano, il ‘700, si affermò la cosiddetta Baùta: un travestimento che constava di una maschera bianca detta “larva” unita ad un tricorno e ad un tabarro rigorosamente neri. Uomini e donne adottarono la Baùta all’ unanimità, anche perchè il suo utilizzo non era esclusivamente riservato al Carnevale. La si indossava a teatro, durante le feste, e garantiva uno strategico anonimato per le avventure galanti. Inoltre, la forma rialzata della maschera nella parte inferiore del volto permetteva di bere e di mangiare senza problemi. Tra le donne, anche la Moretta era molto diffusa. Si trattava di una mascherina tonda in velluto nero che si abbinava, solitamente, a un look altamente raffinato. Indossarla non era il massimo della comodità: per mantenerla sul viso si doveva stringere tra i denti un bottone interno, il che rendeva pressochè impossibile la conversazione. Ma a Carnevale ogni scherzo vale e tutto si può fare, per cui il mutismo della donna in moretta veniva equiparato a un seduttivo alone di mistero. Agli antipodi di questa figura di dark lady si colloca la maschera della Gnaga, che esibiva dei marcati lineamenti felini. Il suo nome, non a caso, deriva da “gnau”, in dialetto veneziano il “miao” del gatto. Gli uomini la adoravano: si accompagnava a un travestimento da donna che includeva un cestino contenente un micio, e favoriva una metamorfosi a tutto tondo. Le Gnaghe erano popolane irriverenti che si esprimevano con voce stridula, simile appunto al miagolio di un gatto, e di frequente sbeffeggiavano i passanti o li stupivano con scherzi al limite della trivialità. Pare che anche gli omosessuali ricorressero a questo travestimento per girare per Venezia indisturbati. Era comune, inoltre, che la Gnaga rivestisse il ruolo di una balia: nel suddetto caso, la seguiva un esilarante corteo di uomini travestiti da bambini.

 

 

Un omaggio a Venezia: la collezione da fiaba di Alberta Ferretti per i 1600 anni della Serenissima

 

Anche Alberta Ferretti è sbarcata in laguna, e ha presentato una collezione intrisa di meraviglia. La designer ha celebrato i 1600 di Venezia omaggiandola con creazioni a dir poco da fiaba, magiche e preziosissime: il tributo ideale per una città straordinaria, opulenta e decadente al tempo stesso, onirica, trait d’ union tra Oriente ed Occidente e dunque storico crocevia di culture. Persino la location della sfilata esalta il patrimonio della perla lagunare; Alberta Ferretti ha scelto Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento Veneziano, inneggiando a un’ epoca che per la Serenissima fu di massimo fulgore. Non è un caso che in ogni look si intreccino arte, storia e moda dando vita a un mix sontuoso, dai livelli di sublimità quasi sacrale. La palette, metallica, è parte integrante dello sfarzo delle creazioni: l’ oro, l’ argento, il nero e il bronzo sono i colori attorno ai quali ruota l’ intera collezione, inondata di luce dai loro bagliori.

 

 

I look scultorei (la maggioranza) si alternano a quelli più eterei e fluidi, gli abiti dagli orli rasoterra ad ampi pantaloni. Le forme sono perlopiù svasate, arricchite da gonne ariose con accenni di strascico, i tessuti spaziano dall’ impalpabile damasco di seta al velluto, dal pizzo al tulle. E se frange a cascata, finissimi ricami floreali, ruches movimentate come onde, tripudi di piume e accenti rocaille fanno da leitmotiv, il plissè soleil trionfa: scolpisce gli abiti schiudendoli in ampie, sorprendenti raggiere. Le mantelle non potevano mancare, in una simile collezione. Sono importanti, drappeggiate, misteriose. Accentuano la solennità delle creazioni e vengono spesso incorporate nell’ outfit, come dimostra il look che chiude la sfilata: un long dress con mantella, una miriade di plissè argentati cinti in vita da un ricamo filigranato in 3D che riproduce la scultura delle enormi mani realizzata da Lorenzo Quinn sulla facciata di Ca’ Sagredo.

 

 

Il motivo della raggiera ricorre, e non solo negli abiti. Diventa uno spettacolare gioiello che espande i suoi raggi saldati sui collier, siano essi posizionati in orizzontale o in verticale. L’allure fiabesca delle mise viene potenziata a dismisura da queste “fiamme” che rimandano ai bagliori solari. Ai gioielli, luminosi e surreali, spetta anche il compito di sottolineare il contrasto tra una collezione che è pura luce e il mood notturno, vagamente enigmatico, che si insinua nei look. Per la realizzazione dei monili, Alberta Ferretti si è avvalsa del savoir faire di un talentuosissimo artista veneziano: Massimiliano Schiavon, discendente da una famiglia che lavora il vetro da ben sei generazioni. I bijoux che hanno sfilato in passerella, infatti, sono in vetro soffiato; oltre alle raggiere includono ramoscelli di fiori, lingue, perle lagunari, che Schiavon ha plasmato con maestria esaltandone la cangianza e la radiosità. L’ omaggio di Alberta Ferretti a Venezia ha coinvolto un altro prestigioso nome dell’ artigianato locale: quello di Rubelli, la storica impresa familiare che, dal 1889, produce tessuti rifacendosi alle più antiche tecniche di lavorazione veneziane. Un esempio? I tradizionali damaschi marezzati e i caratteristici cuoi impressi del Barocco lagunare.

Il fashion show di Alberta Ferretti ha avuto il patrocinio del Comune di Venezia, dal quale la designer ha ricevuto un invito diretto a prendere parte alle celebrazioni del 1600mo anniversario della città. Neppure la scelta di Ca’ Rezzonico è stata casuale: l’ iniziativa ha infatti l’ obiettivo di supportare la Fondazione Musei Civici di Venezia. L’ evento si è tenuto il 4 Settembre, una data cruciale in quanto coincide con lo svolgimento della Mostra Internazionale del Cinema.  Questa concomitanza con il Festival, kermesse di caratura mondiale, non ha fatto altro che accrescere il valore e il prestigio dell’ omaggio di Alberta Ferretti alla Serenissima. Un omaggio che ne coglie, esaltandolo, tutto il potente e sottilmente misterioso incanto.

 

 

 

Foto tratte dal lookbook della collezione

 

 

Lo sfizio

 

San Valentino, cuori, singletudine…La “week of love” di VALIUM non poteva che concludersi con un emblema associato all’ amore eterno. O perlomeno alla cerimonia che, ufficializzandola con un “sì”, tramuta una relazione in unione indissolubile. Non è un caso che l’ abito da sposa mantenga intatta la sua allure da sogno nonostante divorzi e convivenze: nell’ immaginario comune è bianco, vaporoso e abbinato a un lungo velo, il look perfetto per una fiaba a lieto fine. Chi segue VALIUM, però, avrà dedotto che agli stilemi romantici preferisco l’appeal travolgente di una sposa “rock”. Questa mia ricerca mi ha portato a scoprire la collezione 2018 di Annagemma dell’ Atelier Lascari, 21 abiti contraddistinti da nomi di donna evocativi, un know-how sartoriale che reinventa i cardini del bridal grazie a lavorazioni inedite, tessuti tecnologici e laser cut. Il risultato sono straordinarie interpretazioni dell’ abito da sposa di volta in volta in chiave glam, street-chic o avantgarde, autentici look da red carpet che combinano dettagli rock con il tulle più fiabesco e sognante. Annagemma Lascari, mente creativa dell’ atelier, dal 1993 veste le spose con creazioni pensate su misura che sono un’ ode all’ alta moda: la qualità scenografica degli abiti si coniuga a una ricercatezza estrema, l’ originalità si fonde con raffinatissimi tessuti e ricami fatti a mano dando vita a una couture “made in Milano” in toto. Non sorprende che sia proprio Annagemma Milano – Unexpected Bride il nome completo di questa collezione.

 

 

Tra 21 meraviglie dello stile sposa ho scelto il look # 1, Grace, un tributo all’ iconica Grace Kelly di “Caccia al ladro”: l’ abito ne riflette il glam inquieto nel design minimal di un underdress che si fa principesco quando si adorna di un tripudio di tulle tempestato da micro borchie bianche applicate a point d’esprit. Queste “capocchie di spillo”, che movimentano la superficie del tulle e accompagnano ogni passo con il loro incantevole frusciare, sono vere e proprie calamite per lo sguardo. Indossabile separatamente o insieme al suo underdress, l’ abito viene personalizzato da sfiziosi accessori: una micro tocque da posare sul capo, una gorgiera in tulle per evidenziare un twist a metà tra il boyish e l’ onirico, una fascetta in sinamay che replica il tema delle micro borchie oppure, ancora, una cintura con borchie argentate che sottolinea l’ anima rock di una sposa dalla personalità sfaccettata, ma rigorosamente unconventional. Come il suo wedding dress .