San Martino, le oche e l’oca arrosto: tra leggenda e realtà

San Martino con l’oca in una statua della Chiesa di San Martino a Jona, in Svizzera, vicino al lago di Zurigo

 

“Chi no magna oca a San Martin, no’l fa el beco de un quatrin”

(Proverbio Veneto)

 

Di San Martino e della sua festa, MyVALIUM ha già parlato diverse volte. Ma oggi, data in cui ricorre la solennità del Santo, voglio approfondire un’altra famosa leggenda che lo riguarda: quella delle oche. Si narra che Martino, un monaco estremamente umile, quando seppe di essere stato nominato vescovo corse a rifugiarsi in una stalla. Non ambiva a grandi incarichi; avrebbe preferito rimanere un monaco, così si nascose sperando che nessuno lo ritrovasse. Qualcosa, però, mandò a monte il suo piano: le oche che gironzolavano nella stalla iniziarono a starnazzare facendo un gran baccano, e i paesani accorsero scoprendo il suo nascondiglio. Martino, di conseguenza, dovette accettare la nomina suo malgrado, e divenne il vescovo di Tours. A questo punto la storia, il folklore e la leggenda si intrecciano in modo tale che non è più possibile capire dove finisce l’una e inizia l’altro. Va detto, innanzitutto, che l’11 Novembre era una data cruciale per la cultura agreste: si concludevano i contratti agricoli e i contadini, se non veniva rinnovato il loro rapporto di lavoro, dovevano cercare un altro proprietario terriero per cui svolgere le proprie mansioni. Inoltre, il digiuno avventizio iniziava esattamente il 12 Novembre, giorno successivo alla festa di San Martino; San Martino era quindi una ricorrenza importante: rappresentava l’ultima occasione per dedicarsi alle grandi abbuffate. Non è un caso che fosse considerata una sorta di Capodanno agreste, sulla cui tavola la carne d’oca abbondava. Mangiare oca, un animale che – insieme al maiale – forniva grassi e proteine in quantità, era reputato un lusso (da qui il proverbio veneto che apre l’articolo) per gli agricoltori, abituati a cibarsi più che altro di polenta e cereali. Ma rappresentava anche il nutrimento ideale per affrontare il clima rigido dell’Inverno.

 

 

Tra l’oca e la leggenda di San Martino si stabilì una connessione che, da secoli, interseca il mito con la realtà. La tradizione del pasto dell’11 Novembre a base di oca era particolarmente diffuso nelle regioni del Nord Italia, dove lo è tutt’oggi: soprattutto in Veneto, per essere più precisi nel Padovano e nel Trevigiano, così come in FriuliEmilia Romagna e Lombardia.

 

 

Ma come viene cucinata, l’oca di San Martino? La sua preparazione varia da regione a regione; principalmente, però, si gusta al forno, arrosto accompagnata da mele e castagne, oppure in umido abbinata alla verza e alla polenta. La versione più tradizionale si concentra comunque sull’oca arrosto, farcita con noci, mele e castagne. Il giorno di San Martino, viene consumata insieme al vino novello e a una buona dose di caldarroste, che di sicuro non mancano mai.

 

Illustrazioni via Pixabay, foto delle oche via Unsplash

Foto di San Martino: Roland zh, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, da Wikimedia Commons

 

Halloween e il gatto nero: tra credenze, leggende e superstizioni

 

Da amante degli animali quale sono, quest’anno ho voluto approfondire un tema che pone da sempre molti interrogativi: perchè i gatti neri, adorabili come tutti i felini, vengono perennemente associati a Halloween? Ho fatto una ricerca e voglio riassumerne i punti salienti, lanciandovi un appello: per favore, fate del tutto perchè in questa notte stregata i mici dal manto color ebano restino, e si sentano, il più possibile al sicuro. Ma come e quando nasce la diceria secondo cui il gatto nero sia una creatura diabolica, un servitore delle streghe o talvolta una strega stessa, tramutatasi in gatto per salvarsi dalla cattura o dal rogo?

 

 

Tutto ha origine in antichissime leggende e superstizioni. Misterioso e indipendente, il gatto nero si muoveva silenzioso a notte fonda, mimetizzandosi nelle tenebre; di lui, rimanevano visibili solo gli occhi: non era raro che, se appariva nel buio all’improvviso,  spaventasse i cavalli dei cavalieri al galoppo. Questo suo aspetto, indubbiamente, ha contribuito a farlo percepire come un animale temibile e insidioso. Nel Medioevo, quando iniziò la caccia alle streghe, il sospetto e le insinuazioni erano all’ordine del giorno. Bastava poco per essere accusate di stregoneria: le donne sole venivano prese di mira più delle altre, perchè eludevano l‘ordine sociale; rompevano gli equilibri sui quali si fondava la società. Non era raro che vivessero come delle emarginate, o fossero guardate con estrema diffidenza. Non era raro neppure che queste donne possedessero degli animali da compagnia, gatti in particolare. Se poi conoscevano i poteri delle erbe e diventavano guaritrici, il gioco era fatto: erano sicuramente delle streghe, abili conoscitrici delle arti magiche, e i gatti neri rappresentavano i loro “famigli”, ossia i loro fedeli aiutanti. Spesso, sull’esistenza dei famigli si basavano decine di accuse di stregoneria. Il gatto nero, dunque, già considerato una creatura notturna e oscura, veniva definito un “servitore del demonio” o identificato con la strega stessa, poichè si riteneva che una strega potesse tramutarsi in gatto nero per ben otto volte.

 

 

Il periodo della caccia alle streghe fu perciò un’epoca in cui, nei confronti dei gatti neri, ebbe inizio una persecuzione cruenta arrivata fin quasi ai nostri giorni. Un episodio che probabilmente contribuì a divulgare l’immagine demoniaca del gatto nero fu l’emanazione, nel 1233, della bolla Vox in Rama da parte di Papa Gregorio IX. Nella bolla, Papa Gregorio IX si scagliava contro gli eretici tedeschi e le loro pratiche; menzionava anche riti satanici in cui il demonio aveva le sembianze di un grande gatto nero. La caccia alle streghe cominciò quasi due secoli dopo, ma l’associazione del gatto nero con il male e con Satana rafforzò l’avversione nei confronti dei felini dal pelo scuro.

 

 

La superstizione medievale, certamente, fece il resto: i racconti macabri, le dicerie sui gatti neri si moltiplicavano. Non è un caso che, tuttora, il gatto nero sia considerato un emblema di malasorte – conosciamo tutti, penso, la celebre credenza secondo cui un gatto nero che ci attraversa la strada porta sfortuna. A questo proposito, è utile scavare ancora più indietro nel tempo. Per gli antichi Celti, la festa pagana di Samhain sanciva il passaggio tra l’ultimo raccolto e l’inizio del semestre oscuro. Quella notte, il velo tra il mondo dei vivi e l’altromondo (che per i Celti era il regno dei morti e delle divinità) si assottigliava incredibilmente; ciò permetteva ai defunti di tornare nel mondo tangibile. Il gatto nero godeva sin da allora della fama di animale tenebroso, ammantato di mistero, tant’è che veniva inesorabilmente associato a quel varco tra i due mondi: era una sorta di “custode” che vigilava al loro confine. Per qualcuno, favoriva addirittura il ritorno degli spiriti.

 

 

Quest’immagine sinistra veniva amplificata da una leggenda celtica, molto diffusa soprattutto in Scozia e Irlanda, ambientata durante la notte di Samhain. La leggenda ha come fulcro il mito del Cat Sìth, un gatto nero dalle dimensioni enormi: a prima vista poteva quasi sembrare una pantera. Il Cat Sìth, “gatto fatato”, esibiva una macchia bianca sul petto e possedeva spiccati poteri magici. Alcune versioni della leggenda raccontano che fosse in realtà una strega rimasta intrappolata nelle sue sembianze: dopo essersi trasformata in Cat Sìth per otto volte (il numero massimo che le era consentito), diventò un “gatto fatato” la nona. La figura del Cat Sìth è circondata da un’aura potentemente tetra e inquietante. Il gigantesco gatto nero aveva l’abitudine di appropriarsi delle anime dei defunti che non avevano ancora raggiunto l’aldilà; gli antichi Celti, pertanto, impedivano ai gatti neri di intrufolarsi nelle veglie funebri. Per placare il Cat Sìth, i Celti iniziarono a posizionare delle ciotole di latte davanti alle loro case: era un modo per benedirlo e tenerlo lontano dai cadaveri.

 

 

Ma le antiche civiltà non hanno sempre e solo affibbiato al gatto nero connotazioni demoniache; in alcune culture, ad esempio, questo animale è visto come un felino sinuoso, sontuoso e foriero di buona sorte. Nell’antico Egitto, il gatto nero era sacro e chi ne uccideva uno era punito con la morte. Il gatto nero veniva venerato: basti pensare che la dea Bastet, divinità che presiedeva alla casa, alla fecondità e alla vita familiare, esibiva una testa di gatto anzichè umana. I gatti neri sono ben visti e portano fortuna in molte nazioni. Qualche esempio? La Gran Bretagna, oppure il Giappone: lì sono considerati di buon augurio per le finanze e gli incontri sentimentali. Se un gatto nero attraversa la strada a qualcuno, potete star certi che costui lo ringrazierà! In Italia, poi,  è stata istituita la Giornata Nazionale del Gatto Nero (che cade il 17 Novembre) per abbattere le superstizioni e i pregiudizi che circondano ormai da troppo tempo i mici corvini, e mettono a repentaglio persino la loro adozione. E’ ora di sbarazzarsi di qualsiasi credenza o leggenda del passato: il colore è semplicemente un dettaglio, i gatti neri sono degni di tutto l’amore e il rispetto possibili.

 

Foto e illustrazioni via Pixabay e Unsplash

 

I fantasmi: chi sono e come sono nati

 

I fantasmi.
Prendono forma al chiaro di luna,
si materializzano nei sogni.
Ombre. Sagome
di ciò che non è più.
(Ellen Hopkins)

 

Tutti sappiamo cosa sono i fantasmi. Ma com’è nata, in realtà, questa figura da sempre ancorata nell’immaginario collettivo? Cominciamo dal nome. Il termine “fantasma” deriva dal latino “phantasma”, che a sua volta affonda le radici nel greco “φάντασμα”, da “ϕαντάζω” e “ϕαντάζομαι”, rispettivamente “mostrare” e “apparire”: un significato che, più o meno, si riconduce a quello di “apparizione soprannaturale”. Il fantasma viene anche detto “spettro” e rappresenta l’anima di un defunto che torna di frequente nel mondo dei vivi. Lo si dipinge come un’entità eterea, impalpabile, ammantata di un lenzuolo bianco che la ricopre dalla testa ai piedi. Da secoli ormai remoti, le leggende sui fantasmi si moltiplicano e si tramandano di generazione in generazione: sono un cardine del folklore di tutto il globo. In questo post approfondiremo una delle figure che più ha abitato le paure della nostra infanzia. Benvenuti nello Speciale Halloween di MyVALIUM, che come ogni anno vi accompagnerà, passo dopo passo, nel viaggio verso il 31 Ottobre.

 

 

I fantasmi: dal mondo antico in poi

Nell’antica Grecia e nell’antica Roma, i fantasmi erano anime in pena che vagavano nel mondo dei vivi, tormentandoli, per rimediare a un torto subito: poteva essere una morte violenta, una tumulazione non alla loro altezza, una sofferenza inflitta e immeritata. Mentre nell’Ellade tutti i fantasmi rientravano in questa categoria, nell’antica Roma venivano suddivisi in diverse tipologie. Le Larve, condannati ad errare senza pace, erano gli spiriti dei malvagi, di coloro che in vita si erano macchiati di terribili crudeltà; a causa della loro condizione, si rivelavano i più pericolosi e inquieti. I Lemuri, come le Larve, erano stati estremamente spietati durante la vita terrena, ma erano morti violentemente: i loro spettri perseguitavano i vivi e li conducevano alla pazzia. Per tenerli a bada, gli antichi romani effettuavano rituali di purificazione nel corso dei Lemuria, una ricorrenza celebrata a Maggio. Poi esistevano fantasmi “buoni”, che vegliavano sulla famiglia, i viveri e la casa: i Lari e i Penati; costoro venivano venerati e ricevevano svariate offerte.  Il Cristianesimo associava la figura dei fantasmi alle anime in pena non riuscite ad entrare in Paradiso. Condannati a “stazionare” in Purgatorio o castigati da Dio, apparivano nel mondo dei vivi per far richiesta di preghiere e di indulgenze. Con il passar del tempo, tuttavia, queste credenze si modificarono totalmente: per il Cristianesimo non esistono anime erranti, si tende a considerare manifestazioni demoniache i fenomeni più inquietanti e inspiegabili.

 

 

I fantasmi nel mondo

Un veloce giro di ricognizione intorno al mondo ci permette di scoprire come vengono considerati i fantasmi nei paesi più disparati. In Cina e in Giappone, ad esempio, agli antenati e ai loro spiriti si guarda con estremo rispetto. In Cina vengono chiamati éguǐ (饿鬼)  i fantasmi che non sono stati venerati adeguatamente dopo il trapasso. Tale condizione ha comportato conseguenze terribili: gli éguǐ vagano senza sosta in giro per il mondo. A queste anime, i cinesi hanno dedicato il Festival dei Fantasmi Affamati: si celebra il quindicesimo giorno del settimo mese del Calendario Lunare ed è ricco di usanze molto particolari, come la creazione di altarini con cibo e incenso per placare la fame degli éguǐ e il rito in cui si bruciano oggetti di carta raffiguranti beni materiali per offrirli agli spiriti.In Giappone i fantasmi sono un tema ricorrente nelle opere del teatro Kabuki; il loro nome è yūrei e appaiono prevalentemente per vendicarsi di torti subiti in vita.

 

 

In Nigeria e in Nuova Zelanda, invece, i fantasmi hanno essenzialmente la funzione di proteggere la comunità dei vivi, rappresentando un elemento di continuità tra il passato e il presente e un importante strumento di coesione sociale. In questi paesi, il culto degli antenati è molto sentito; i fantasmi nigeriani hanno la facoltà di orientare le deliberazioni e castigare chi non rispetta le regole, mentre gli spiriti dei Māori vegliano costantemente sui loro discendenti e ai luoghi del riposo eterno viene tributata una grande venerazione

 

 

Categorie di fantasmi

I più famosi sono i poltergeist, avvezzi a fare un gran baccano: sbattono le porte, muovono gli oggetti (ma talvolta li rompono), bisbigliano e causano rumori apparentemente inspiegabili. Altri fantasmi si presentano in modo puntuale, sempre nello stesso luogo e alla stessa ora, come il fantasma di Lucia che, con un candelabro in mano, percorre i corridoi di Palazzo Anchisi ne “Il segno del comando”. Altri ancora, appaiono in posti cruciali della loro vita passata: più di frequente, dove hanno trovato la morte o dove sono stati felici. Alcuni si manifestano ai moribondi; di solito sono genitori o parenti che già dimorano nell’aldilà, e sembrano voler guidare chi è in fin di vita nel momento del trapasso. Esistono, poi, fantasmi che infestano case o castelli, rendendoli la loro tipicità. Qualche esempio? Il fantasma di Anna Bolena nella Torre di Londra o quello di Azzurrina nel Castello di Montebello, in provincia di Rimini. Si definiscono “ectoplasmi” le figure spettrali che prendono forma durante la trance del medium, nelle sedute spiritiche. Approdando in Irlanda (ma anche in Scozia e nel Galles) possiamo incontrare la Banshee, un celebre spirito femminile appartenente al Piccolo Popolo (rileggi qui l’articolo che le ho dedicato), mentre in America Latina non è difficile imbattersi nella Llorona, anche detta “la donna che piange”: uno spettro condannato a vagare di notte lungo i fiumi. Potrete riconoscerla dal pianto accorato intervallato da urla terrificanti, dalla veste bianca che indossa e dai lunghi capelli sciolti sulle spalle. Secondo la leggenda, la Llorona è il fantasma di una donna che, dopo aver scoperto di essere stata tradita dal padre dei suoi figli, li ha uccisi annegandoli in un fiume e poi si è suicidata.

 

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La Festa di Mezz’Autunno o Festa della Luna cinese: una ricorrenza intrisa di fascino e leggende

 

Quest’anno è caduta il 6 Ottobre, perciò ce la siamo già lasciata alle spalle. Ma voglio parlare ugualmente della zhōngqiūjié 中秋节 cinese, ovvero “Festa di Mezz’Autunno”. E’ anche detta “Festa della Luna” ed è una delle celebrazioni tradizionali di spicco del paese della Grande Muraglia. La sua data è fissata al quindicesimo giorno dell’ottavo mese lunare, quando la luna si trova più lontana dalla terra: quella notte, il plenilunio risplende come non mai. Il periodo in cui si colloca la festa, nel Calendario Gregoriano, supera di una manciata di giorni l’Equinozio d’Autunno. La Festa della Luna, infatti, viene celebrata a cavallo tra Settembre e Ottobre.

Il significato della festa

Un’altro appellativo della festa è “Festa della Riunione Familiare”, e questa definizione dice tutto: la contemplazione della luna, le offerte che a lei si dedicano, sono una parte preponderante delle celebrazioni. Ma sono attività che non si compiono da soli, bensì con la propria famiglia. Quella notte, riunirsi in famiglia è tassativo. Non importa quali sono le distanze che separano ciascun membro familiare, ciò che conta è ritornare a casa, ritrovarsi, trascorrere la sera al chiar di luna: ci si siede attorno a un tavolo sul terrazzo, tutti insieme, per ammirare la luna piena e lasciarsi lambire dal suo chiarore. Esiste un’usanza specifica anche riguardo ai pasti. La Festa di Mezz’Autunno prevede che si consumino le celebri tortine lunari, il dolce tradizionale legato a questa importante data. Le tortine lunari hanno una forma tonda o quadrata, ma più comunemente tonda, come la luna, e sulla loro superficie sono incisi sinogrammi beneaugurali. Può essere presente anche la simbologia legata alla festa, come il coniglio, Chang’e (la dea cinese della luna) , i fiori e dei rametti di vite. Al loro interno, le tortine contengono un soffice ripieno di pasta di semi di loto, oppure tuorli d’uovo che simboleggiano il plenilunio. Questo dolce si accompagna a frutta dalla forma rigorosamente rotonda; l’uva, le melagrane, le giuggiole (i datteri cinesi), i cachi, le mele e il pomelo, grazie all’aspetto tondeggiante sono in grado di rievocare la luna piena, ma non solo: il cerchio è anche il simbolo dell’unità familiare.

 

 

Fino a non molto tempo fa, tutti questi cibi di posizionavano anche su un tavolinetto che fungeva da piccolo altare, dove, mentre l’incenso bruciava e ardevano alcune candele, venivano offerti alla luna. Tale tradizione, sfortunatamente, si è molto affievolita con il passar del tempo.

 

 

La storia

Le origini della Festa della Luna sono antichissime. Alcune fonti la fanno risalire all’epoca dell’Imperatore Wu Di, appartenente alla dinastia Han e vissuto tra il 156 e l’87 a.C. L’Imperatore era solito celebrare il plenilunio d’Autunno dedicandogli tre giornate celebrative: “Guardando la luna sulla Terrazza del Rospo”, questo il nome della festa, era un omaggio alla luna comprendente svaghi e banchetti. Secondo altre teorie, la Festa della Luna sarebbe iniziata sotto il dominio della dinastia Shang (1600-1100 a.C.): gli Imperatori, come pure il popolo, in Autunno veneravano la luna piena per ringraziarla del raccolto e invocare i suoi auspici per quello a venire. In futuro, più precisamente all’epoca della dinastia Tang (618-907 d.C.), i festeggiamenti in onore della luna si diffusero anche presso le classi benestanti, desiderose di seguire l’esempio degli Imperatori. Nel corso di queste feste, si brindava alla luna mentre impazzavano i balli e le esibizioni musicali. A quei tempi, le celebrazioni iniziarono a coinvolgere il popolo in un crescendo inarrestabile: i giardini si riempivano di lanterne, il suono dei gong si alternava al ritmo sfrenato battuto dai tamburi. Le offerte alla luna erano associate a rituali di volta in volta più spettacolari. Molto comune, per esempio, era concludere il rito con la prostrazione delle donne della famiglia prima di appiccare il fuoco ai dipinti collocati sull’altare. Tra il 960 e il 1279 d.C., con la dinastia dei Song Settentrionali, la Festa della Luna diventò ufficialmente una festa tradizionale e venne fissata una data ben precisa per le celebrazioni: come vi ho già anticipato, il quindicesimo giorno dell’ottavo mese lunare. Bisogna considerare, infatti, che per il Calendario Cinese l’Autunno è compreso tra il settimo e il nono mese dell’anno.

 

 

Le leggende

Esistono due leggende, in particolare, legate alla Festa della Luna: quella del coniglio lunare e quella della dea Chang’e. Il coniglio è una figura mitologica ricorrente nell’Estremo Oriente; lo ritroviamo in Cina, Corea e Giappone. In Cina viene anche chiamato “coniglio d’oro” o “coniglio di Giada”; le sue origini affondano in una nota fiaba del Buddhismo Indiano. La fiaba narra che Buddha, un giorno, si fermò a meditare in una meravigliosa radura. Dopo aver recitato i sutra, l’Illuminato si tramutò in un bramino e rivolse un appello agli animali del bosco affinchè lo aiutassero, perchè aveva fame e sete. Gli animali accorsero, ognuno con un’offerta per il povero bramino: la lontra gli offrì sette pesci, lo sciacallo la sua preda. Poi arrivò il coniglio, che cibandosi di erbe disse al Buddha che avrebbe potuto offrirgli solo se stesso. Così, tolse dalla sua pelliccia alcuni insetti per non sacrificarli e si gettò tra le fiamme di un fuoco. Buddha rimase talmente colpito dal gesto del coniglio che, per ricompensarlo del suo sacrificio, incastonò le sue sembianze nella luna, dove si dice che fabbrichi l’elisir di lunga vita per la dea Chang’e. Chang’e, la dea cinese della luna, è la protagonista di un’altra leggenda che viene tramandata di padre in figlio durante la Festa di Mezz’Autunno. Chang’e era la moglie di Hou Yi, un valoroso arciere al servizio dell’Imperatore Yao. Un giorno, l’Imperatore gli ordinò di eliminare con le sue frecce 9 dei 10 soli che erano improvvisamente comparsi nel cielo causando un calore e una siccità insopportabili. Hou Yi riuscì nella sua impresa e la Regina Madre, per ricompensarlo, gli regalò la pillola dell’immortalità. Ma lo pregò di non ingerirla immediatamente: avrebbe dovuto prepararsi per dodici mesi pregando e non toccando cibo. Appena tornò a casa, Hou Yi nascose la pillola in un luogo sicuro. Quando venne chiamato per una nuova missione, però, sua moglie Chang’e si accorse della pillola e volle subito ingoiarla. Pochi secondi dopo, il suo corpo si sollevò magicamente da terra e prese il volo verso la luna. Non fece neanche in tempo a posare i piedi sulla sua superficie, che per l’affanno sputò la pillola e quest’ultima si trasformò in un coniglio lunare, mentre Chang’e prese le sembianze di un rospo a tre zampe. Hou Yi, nel frattempo, l’aveva inseguita sulla luna e cominciò a bersagliarla con mille frecce. Chang’e rimase a vivere sulla luna, mentre Hou Yi scelse il sole come sua dimora. Secondo la leggenda, Hou Yi e Chang’e si incontrano regolarmente ogni mese, esattamente il 15, e simboleggiano il sole e la luna: ecco che tornano i principi dello yin e yang dell’antica filosofia cinese, emblemi della dualità dell’universo. Hou Yi e Chang’e sono sole e luna, maschile e femminile, nero e bianco, oscurità e luminosità…due poli opposti, ma rigorosamente dipendenti l’uno dall’altro.

 

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Il luogo: alla scoperta di Scilla con Domenica Fontana

 

Benvenuti a una nuova puntata della rubrica “Il luogo”, lo spazio dedicato ai viaggi, ai borghi incantati e alle località che meritano di essere scoperti e vissuti. Oggi vi porto in Calabria, precisamente a Scilla: un comune di poco più di 4000 abitanti affacciato sul mar Tirreno, dove la bellezza si mescola con la leggenda e ogni angolo vibra di storia e di magia. Scilla è arroccata su un promontorio che guarda lo Stretto di Messina, e già il suo nome richiama l’antico mito della ninfa trasformata in creatura marina dalla gelosia della maga Circe. Il Castello Ruffo, che sovrasta il borgo, sembra ancora vegliare sulle acque e sui segreti che esse custodiscono. Scilla è una gemma incastonata sulla Costa Viola, un tratto di litorale dal nome poetico, nato da un incantesimo naturale: al tramonto, il mare si tinge di riflessi purpurei, grazie alla luce che danza fra i fondali e alghe sottili che donano alle acque tonalità fiabesche;  uno spettacolo che affascina ogni sera come fosse sempre la prima. Ma questa non sarà una puntata come le altre. A raccontarci Scilla sarà Domenica Fontana, un’amica speciale che è nata proprio qui, tra le onde e le pietre di questo luogo incantato. Domenica ne conosce ogni angolo, ogni profumo, ogni storia. E soprattutto, lo ama profondamente. Ho conosciuto Domenica grazie a un Master organizzato dall’Università degli Studi di Urbino, “Insegnare Italiano a Stranieri”, che entrambe stiamo terminando di frequentare. Con lei ho condiviso un percorso bellissimo fatto di lavori di gruppo (noi facciamo parte del mitico Gruppo 1), “studio matto e disperatissimo” (un omaggio a Leopardi, e le colleghe sanno il perchè!) e nuove sfide, tutte gravitanti nell’orbita dell’insegnamento dell’Italiano L2. Essendo da sempre innamorata di Scilla, ho chiesto a Domenica (che vedete nella foto qui sotto) se le sarebbe piaciuto accompagnarci a conoscerla: lei ne è stata entusiasta. Preparatevi a lasciarvi incantare da un racconto che profuma di salsedine, tradizione e meraviglia.

 

Domenica, come ti presenteresti ai lettori di MyVALIUM?

Ho cinquant’anni. Sono nata a Scilla e ci ho vissuto per circa vent’ anni. Poi mi sono trasferita nella vicina città di Reggio Calabria, dove ancora oggi vivo e lavoro. Sono mamma di due ragazzi meravigliosi, Erica ed Antonino. Sono pigra, ma faccio lunghe camminate terapeutiche chiacchierando insieme alle mie amiche, di cui apprezzo anche le eccellenti doti culinarie. Avrete dedotto che ho delle amiche speciali!

Stai per concludere un Master, “Insegnare Italiano a Stranieri” organizzato dalla prestigiosa Università di Urbino, che rivela la tua passione per il mondo e le sue molteplici culture. Cosa ti lega, invece, alle tue radici? Alla magnifica Scilla dalla storia secolare e leggendaria?

Prima di risponderti vorrei soffermarmi sul Master. È stata una sfida con me stessa che ho vinto. Ne serberò un ricordo speciale per le conoscenze che mi ha fornito e per le persone che mi ha fatto incontrare, come te Silvia. Essere nata in un luogo incantevole come Scilla lo reputo un privilegio. Sono innamorata del mio paese e credo lo siano tutti gli scillesi. Ora non ci abito più, ma tutte le volte che ci torno il mio cuore impazzisce di gioia e rimango sempre affascinata dalla bellezza del suo territorio. Non so spiegarlo meglio. È un continuo colpo di fulmine.

 

 

Scilla è stata descritta come un luogo a metà tra uno scoglio e un’isola: come commenteresti questa immagine così evocativa?

Uno scoglio e un’isola dici? La rocca imponente a strapiombo sul mare, che in cima ospita il castello Ruffo di Calabria, effettivamente sembra una piccola isola, se vista dall’alto. A proposito del castello, che ovviamente non può mancare in un giro turistico, quando siete arrivati alla fine della salita che porta al suo ingresso, voltatevi e avrete uno sguardo d’insieme di Scilla con i suoi tre quartieri principali: Marina Grande, Chianalea e San Giorgio. E mentre fissate rapiti il paesaggio, immaginate di trovarvi sulla testa di un’aquila e di osservare il suo corpo adagiato sul mare (San Giorgio), con le ali ancora spiegate (Marina Grande e Chianalea). Se foste vicino a me, vi direi di chiudere gli occhi adesso e di ascoltare una delle leggende sulla nascita di Scilla: “Un giorno due aquilotti disturbano il sonno di Zeus con i loro volteggi e schiamazzi. Il Dio si sveglia furioso e scaglia contro i piccoli una saetta. Mamma aquila, che da lontano aveva visto la scena, prende il volo disperata e con il suo corpo fa da scudo agli aquilotti. Viene colpita e cade esanime in mare, ma all’improvviso risorge come uno scoglio adagiato sulle acque.” Ora aprite gli occhi e guardate l’aquila.

 

 

Potresti raccontarci qualcosa della famosa leggenda di Scilla e Cariddi?

Qualcosa? Mi inviti a nozze. Intanto sappiate che di versioni del mito di Scilla ce ne sono tante. La più famosa è ovviamente quella descritta da Omero nell’Odissea. Pensa che i bambini scillesi, fin dalla scuola materna studiano e recitano questa parte dell’Odissea e tutte le leggende mitologiche sul paese. La parte raccontata nell’Odissea non ve la dico, potete andare a leggerla. Vi racconto gli antefatti, ovvero come e perché una bellissima ninfa di nome Scilla è stata trasformata nel mostro famelico a sei teste che divorerà, tra i tanti marinai, anche l’intero equipaggio di Ulisse. È una storia vecchia come il mondo, i cui ingredienti principali sono la bellezza, l’amore, la gelosia, il potere e il sopruso, e i cui protagonisti sono sempre loro tre: Scilla, Glauco e la maga Circe. Scilla, la bellissima ninfa, in alcune versioni ricambia l’amore del bel marinaio Glauco, ma suscita la gelosia e l’invidia di Circe, in altre invece lo rifiuta perché Glauco è descritto come un essere marino, metà pesce e metà uomo, e sarà lui in questo caso a chiedere alla maga di essere vendicato. Scilla in ogni caso non potrà evitare il suo inesorabile destino di essere trasformata in mostro: «I piedi son dodici, tutti invisibili: / e sei colli ha, lunghissimi: e su ciascuno una testa / da fare spavento; in bocca su tre file i denti, / fitti e serrati, pieni di nera morte» (Odissea, XII canto).

 

 

Quali sono i monumenti che a Scilla è imprescindibile vedere?

Il Castello dei Ruffo di Calabria, come vi dicevo, simbolo di Scilla che la rende riconoscibile in tutto il mondo. Le chiese, una delle quali, quella dello Spirito Santo di fronte la spiaggia principale, risale al 1700 ed è sopravvissuta ai tanti terremoti e ai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Poi le fontane e i Palazzi storici, come quello Scategna del 1500, che oggi è un albergo e ristorante (visitabile). E poi le bellezze che ci regala la natura, tra cui il belvedere sullo stretto di Messina, da dove si possono ammirare le incantevoli  isole Eolie che al tramonto si stagliano sullo sfondo rosso-violaceo dell’orizzonte.

 

 

La città è famosa per i suoi vicoli che si aprono sul mare

È il quartiere di Chianalea, soprannominato per l’appunto “la piccola Venezia” con le sue case a picco sul mare. In molte di queste case, il piano terra è ancora utilizzato come rimesse per le piccole imbarcazioni che durante i mesi invernali vengono messe al sicuro dalla forza del mare in tempesta. Invece da molti dei balconi si può addirittura pescare. A Chianalea oggi ci abitano pochi scillesi. Le abitazioni sono state trasformate in ristoranti, pizzerie, bar, locali di ritrovo, negozietti di prodotti tipici e souvenir, alberghi e b&B. Ciononostante la vocazione di questo quartiere per la pesca non è scomparsa. Ancora ci sono barche e pescatori che anche se solo per hobby (pochi infatti vivono di pesca) portano avanti le tradizioni dei loro antenati, e insieme a queste, anche i riti e le superstizioni.

 

 

Si perché il vero pescatore non ti rivela i suoi segreti e le sue conoscenze conquistate a forza di fatica e sudore. E non ti dirà mai se e quanto ha pescato. Il pesce va nascosto ben bene all’interno della barca e tirato fuori solo quando tutti sono andati via. Questo succede anche con la pesca del pescespada che attira molti turisti al porto di Scilla al tramonto, quando le passarelle, imbarcazioni utilizzate oggi per pescare il pesce spada, rientrano dopo una lunga giornata in mare e mostrano solo un pesce spada alla gente, sul quale praticano il rito della “cardata della croce” ovvero incidono la pelle del pesce con un segno simbolico, misto di pagano e cristiano, che viene fatto con le unghie di quattro dita a mo’ di croce. In verità di pesci spada ne hanno pescati più di uno ma li hanno fatti scendere dalla passerella prima dell’arrivo in porto, utilizzando piccole barche che li portano via dagli occhi indiscreti che potrebbero influenzare negativamente il pescato futuro.

 

 

Che spiagge consiglieresti a chi vorrebbe passare l’estate in questo magico luogo?

La spiaggia principale, ovviamente, il lido delle sirene, le sirene che cercarono di ammaliare Ulisse. La cosa strana è che oggi Scilla inganna gli stranieri, come se ci fossero davvero le sirene che con il loro canto attirano a sé le persone, non per divorarle, ma per conquistarle per sempre. Ti dico questo perché molti turisti che viaggiano in auto diretti in Sicilia, spesso, sono tratti in inganno dall’uscita in autostrada per la città di Scilla. Le due parole infatti sono quasi simili e facilmente confondibili ad alta velocità. Quando si accorgono dell’errore è troppo tardi: sono già stati rapiti dalla sua bellezza e non possono non fermarsi almeno una notte.

 

 

Che suggerimenti ci dai sui negozi e sui locali (ristoranti, bar, pub e quant’altro) che bisogna assolutamente visitare?

Di locali dove mangiare ce ne sono tanti e di tutti i gusti (bar, pub, pizzerie, ristoranti, gelaterie) ovunque a Scilla. In quanto scillese, non sarebbe corretto per me indicarvene alcuni rispetto ad altri. Pertanto vi dico che si mangia bene un po’ ovunque e se volete maggiori dettagli sui singoli locali sbirciate le valutazioni degli altri clienti sui siti online. Posso però consigliarvi di non perdere l’occasione di mangiare su una palafitta sul mare a Chianalea, a pranzo o a cena; non sarete delusi né dal cibo e né dalle emozioni instragrammabili che vi regaleranno il mare cristallino, gli scogli e i pesci che si radunano sotto la palafitta in attesa che qualcosa cada dall’alto.

 

 

E in quanto a vita notturna, a movida, Scilla com’è?

Cavoli, la movida. E chi se la ricorda più! Da ragazza c’era e come. Discoteche nei lidi in spiaggia, nelle piazze e nei locali. Si ballava ovunque. Oggi tutta la movida notturna si è spostata a Reggio Calabria, la vicina città metropolitana distante solo una ventina di chilometri. Se cercate quindi divertimento fino alle piccole ore del mattino è lì che dovete recarvi, agli incantevoli lidi sulla spiaggia di fronte al mare dello Stretto di Messina, la dimora della Fata Morgana. E magari se rimanete fino all’alba potreste essere così fortunati da vederla. Se invece cercate passeggiate tranquille, accompagnate dal dolce rumore delle onde del mare e dal suo profumo intenso, magari dopo una cena romantica su una pedana a palafitta sul mare, allora rimanete a Scilla. Di notte con i suoi locali e vicoli illuminati, rischiate davvero di innamorarvi, e non del paese intendo.

 

 

Qual è il periodo migliore per soggiornare sul Promontorio Scillèo?

Io adoro Scilla d’estate, ma vi suggerirei di venire a giugno e settembre per vivere il paese senza le calche di luglio e agosto. Per chi adora il mare d’inverno, invece, allora deve venire a Scilla nei mesi di gennaio e febbraio quando gli impetuosi venti di libeccio scatenano delle mareggiate così violente che sembrano voler inghiottire l’intero quartiere di Marina Grande e il Castello. Con i cambiamenti climatici in corso però è facile che l’estate inizi già dal mese di maggio e si prolunghi per tutto ottobre, e qualche giornata calda potreste addirittura beccarla a dicembre. Quindi, perché no?, Scilla è da visitare in qualunque momento dell’anno.

 

 

Crediti foto

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Foto di copertina: JanaZbunka, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

Castello Ruffo al tramonto (sesta foto dall’alto): Cesare Barillà, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

Marina Grande (decima foto dall’alto): Cirimbillo, CC BY-SA 3.0 via Wikimedia Commons

Castello Ruffo di notte (22esima foto dall’alto): Cirimbillo, CC BY-SA 3.0 via Wikimedia Commons

 

Giugno e i suoi proverbi

 

A Giugno, l’estate esplode: per la natura, è un periodo di cruciale importanza. Gli alberi si riempiono di frutti, l’erba è alta e rigogliosa, nei campi di grano si inizia la mietitura. Il Solstizio d’Estate ci regala luce a piene mani, è il giorno più lungo dell’anno. Ma anche la notte è impregnata di una profonda magia: la scia della Via Lattea risplende nell’oscurità, luminosissima nel punto in cui si incrociano Sadr (l’astro 33.000 volte più brillante del Sole) e la stella doppia Albireo, entrambe collocate nella Costellazione del Cigno. Dopo il crepuscolo, il Triangolo Estivo è perfettamente distinguibile; Deneb, Altair e Vega diffondono nel cielo il loro fulgore. E se Giugno viene chiamato il mese del Sole, la notte di San Giovanni, con i suoi rituali e le sue leggende, è considerata la più incantata dell’anno. Un simile contesto non poteva che ispirare molteplici proverbi. Il tema predominante è la natura, che a Giugno diventa sovrana; subito dopo viene il meteo, determinante per la buona riuscita di tutte le attività agricole. Scopriamo insieme i proverbi più noti dedicati al mese del Solstizio d’Estate.

 

 

Giugno, la falce in pugno

 

 

Giugno ventoso, porta il grano sull’aia

 

 

Giugno ciliegie a pugno

 

 

Se marzo non marzeggia, giugno non festeggia

 

 

Acqua di giugno rovina il mugnaio

 

 

La notte di San Giovanni, ogni erba nasconde inganni

 

 

In giugno, in bene o in male, c’è sempre un temporale

 

 

Di giugno levati il cuticugno

 

 

Se piove ai santi Paolo e Piero piove per un anno intero

 

 

Per san Paolino c’è il grano e manca il vino

 

 

Per San Barnaba, l’uva viene e il fiore va

 

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Il corvo, tra mito e simbologia

 

Restando in tema di oscurità novembrina  (un argomento accennato nell’articolo apparso ieri su VALIUM), oggi incontriamo il corvo: un volatile che ha il colore del buio pesto e una fama tenebrosa. Il corvo comune o corvo selvatico (nome scientifico Corvus frugilegus Linnaus) è un passeriforme la cui area di diffusione spazia dall’Europa Centrale al Giappone passando per l’Asia Minore e l’estremo Oriente. In questo periodo dell’anno, prima dell’arrivo dei rigori invernali, è solito migrare in direzione sud-ovest, ma non tutti i corvi effettuano lo svernamento. Mentre alcuni volano verso luoghi caldi anche molto lontani (dal Nord Europa, ad esempio, ai paesi del Mediterraneo), altri gruppi si rifugiano presso gli alberi dove si dedicheranno alla nidificazione: i corvi, infatti, nidificano in colonie sui rami delle piante, e le fasi del corteggiamento hanno inizio già nei mesi freddi. Ma perchè il corvo, nel mondo occidentale,  viene frequentemente associato a connotazioni e presagi oscuri? Basta pensare al suo aspetto per provare un senso d’inquietudine: il piumaggio è di un nero talmente profondo da evidenziare riflessi verdi o color porpora, se viene lambito dai raggi del sole; il becco, parzialmente nero e ricurvo, ha ispirato la maschera che nel Medioevo indossavano i Medici della Peste. Non è un caso che il corvo, nutrendosi (anche) di carcasse, rimandi così spesso alla simbologia della morte. E poi, l’antica leggenda che lega i corvi della Torre di Londra al destino della Corona è ben nota: se i misteriosi pennuti muoiono o si allontanano, e il loro numero scende sotto il sei, secondo la profezia cadrà la Corona stessa.

 

 

Il corvo e le streghe

Il corvo, in realtà, è un animale complesso che in secoli e culture diverse è stato soggetto a molteplici interpretazioni, non solo negative. Eppure, la sua reputazione sinistra prevale. Nel Medioevo, ad esempio, la figura del corvo veniva immancabilmente messa in relazione con quella della strega, della quale incarnava uno dei famigli: le entità demoniache, cioè, con sembianze di gatti, furetti, corvi o gufi che la strega riceveva in regalo dal diavolo e che diventavano i suoi servitori o assistenti. Il corvo, inoltre, veniva considerato un messaggero delle adoratrici del demonio, che all’occorrenza avevano la facoltà di tramutarsi in un cupo passeriforme. Anche demoni specifici come Malphas e gli Harab erano soliti trasformarsi in corvi.

 

 

Il corvo e Odino

La mitologia norrena associa i corvi a Odino, che un kenning definiva “dio corvo”. La divinità suprema del mito scandinavo possedeva due corvi, seduti costantemente sulle sue spalle; il loro scopo era quello di volare intorno al mondo per poi riferire a Odino, una volta tornati, le notizie e i segreti più importanti. Il dio norreno li spronava a prendere il volo all’alba; la sera, dopo aver vagato per mari e monti, i corvi ritornavano e si posavano sulle spalle di Odino per bisbigliargli all’orecchio quanto avevano appreso. I volatili si chiamavano Huginn, “pensiero” in norreno, e Muninn, ossia “memoria”: due nomi indicativi, se pensiamo che il corvo è un animale che vanta una straordinaria intelligenza.

Il corvo e il suo ingegno fuori dal comune

Forse, il corvo ha acquisito la nomea di animale “diabolico” anche in virtù delle sue abilità intellettive. Questo volatile ha la capacità di elaborare un pensiero sommamente complesso, è in grado di risolvere problemi e di concepire accuratissime strategie di sopravvivenza. Solo animali come il delfino e lo scimpanzè, oltre al corvo,  possiedono la dote di riconoscersi allo specchio; ma non è finita qui: a contraddistinguere il corvo è anche uno sbalorditivo senso della memoria. A quanto pare, i nomi dei due corvi di Odino non erano stati scelti a caso! D’altronde, in tempi molto antichi, l’intelligenza e la saggezza del passeriforme dalle piume nere erano state notate persino dai Celti d’Irlanda e dai nativi americani, che su di esse imbastirono innumerevoli leggende.

 

 

Il corvo e l’alchimia

Il corvo e il mistero sono un tutt’uno. Gli aspetti che lo legano alla simbologia magica non vanno dimenticati. Su tutti, spicca la valenza del “passaggio” da una condizione all’altra, indossolubilmente associata al concetto di metamorfosi e trasformazione. Il corvo è un’importante emblema di transizione; i nativi americani lo ricollegavano al Grande Spirito, colui che connetteva il mondo terreno con l’aldilà. Ma a prescindere da questo, la funzione simbolica di “passaggio” rivestita dal corvo è in stretto connubio con il viaggio iniziatico nel mondo spirituale: la transizione, ad esempio, dall’ignoranza alla conoscenza. Gli alchimisti utilizzavano il corvo con degli intenti ben precisi. Decapitandolo, favorivano la nascita del basilisco (la creatura mitologica serpentiforme che era in grado di uccidere o tramutare qualcuno in pietra con un solo sguardo); la testa del corvo, infatti, insieme al suo cuore, venivano frequentemente adoperati per la creazione di potenti pozioni magiche.

Foto: Sonny Mauricio via Unsplash

 

La banshee, eterea e fantasmatica creatura del folklore irlandese

 

Ho spesso parlato delle radici irlandesi di Halloween, che per i Celti dell’ Isola di Smeraldo era Samhain. E irlandese è anche la banshee, un mitico spirito del folklore locale: il nome che porta, letteralmente “donna delle fate”, deriva da “bean” (“donna” in gaelico) e “sidhe” (proveniente da “sith”, che sempre in gaelico significa “fata”). Conosciutissima in Irlanda e in Scozia, la banshee viene raffigurata come una giovane donna dai lunghi capelli vestita di bianco, o di rosso, dalla testa ai piedi. Secondo altre rappresentazioni, indossa un abito verde a cui abbina una mantella grigiognola, oppure un velo che la ricopre completamente donandole un alone di mistero. La banshee a volte canta, più spesso ha il volto rigato dal pianto e presto vedremo il perchè. Può apparire sotto svariate forme, ma le sue urla lancinanti permettono di distinguerla senza possibilità d’errore.

Chi è e da dove proviene la banshee?

Questa creatura del mito irlandese fa parte del piccolo popolo (in gaelico “sidhe”), ovvero il popolo fatato degli gnomi, gli elfi, i folletti, le fate, i leprechaun e molti altri personaggi ancora: tutti spiriti che dimorano abitualmente nel regno della Natura. Le leggende più remote collocano la banshee nei paraggi dei fiumi, dei ruscelli e delle paludi; a volte, invece, gli scenari che la vedono protagonista sono le verdi colline irlandesi. E’ importante sapere che la banshee viene considerata lo spirito protettore di determinate famiglie d’Irlanda, in particolare tutte coloro che hanno un cognome iniziante per ‘O o per Mac. Il suo segno distintivo sono le grida strazianti che emette per annunciare la morte imminente di una persona vicina a chi le ode: la banshee urla e piange disperata, in particolare quando ad essere in fin di vita è un membro delle famiglie che lei protegge. I brividi che provocano le sue grida, il terrore che queste incutono, fanno sì che la banshee venga annoverata tra gli spiriti maligni. In realtà, le antiche leggende irlandesi non la dipingono come tale.

 

 

A proposito di leggende: si dice che, proprio per l’ambiguità che circonda la sua figura, non bisognerebbe mai posare lo sguardo su una banshee; potrebbe usare i propri poteri contro chi la osserva, oppure sparire misteriosamente. Bisogna aggiungere, però, che è rarissimo avvistare questa fantasmatica “donna delle fate”. Pare che si mostri solo a chi è prossimo a morire, quindi al destinatario delle sue urla. Il fatto che la si identificasse con un presagio di morte, a partire dall’VIII secolo, ha determinato la sua inclusione tra le entità malvagie: un’appartenenza a cui ha senza dubbio contribuito anche la superstizione popolare.

 

 

Tre leggende

Il fiume Daelach, nella contea di Clare, viene soprannominato “Banshee’s brook”, ovvero “il ruscello della banshee”. Questo appellativo deriva dal fatto che, nei periodi di piogge scarse, il corso d’acqua assume una sinistra colorazione rosso sangue. Scientificamente, ciò potrebbe essere causato dalla risalita di notevoli quantità di ferro dall’ alveo del fiume, ma la leggenda dà al fenomeno una spiegazione ben diversa: ogni volta il Daelach diventa color sangue, echeggiano le grida di una banshee. E le acque tornano della loro tonalità originaria, guarda caso, solo dopo la morte di un abitante del luogo.

Nel 1014, prima di affrontare la battaglia di Clontarf, il re irlandese Brian Boru aveva visto la banshee Aibhill sulla sponda di un fiume. Aibhill era intenta a lavare i vestiti dei soldati del re, ma dopo un po’ l’acqua si tingeva di un rosso insanguinato. Nonostante l’avvertimento, il sovrano decise di scendere in campo: inutile dire che perse la vita nel combattimento.

Il magnifico castello di Duckett’s Grove, fatto edificare nel XVII secolo da William Duckett nella contea di Carlow, è celebre per la sinistra leggenda che lo circonda. Oggi è ridotto a un rudere a causa di un incendio che lo devastò nel 1933, ma i suoi immensi giardini e i suoi campi verdeggianti rimangono intatti: tantevvero che la tenuta è visitabile. Alla sua sciagura, secondo la leggenda, contribuì una banshee. Pare che William Duckett fosse legato a una giovane donna che morì dopo essere caduta da cavallo nei dintorni di Duckett’s Grove. La madre della ragazza, disperata, maledisse la tenuta: da quel giorno, una banshee si installò nel castello e vaga nelle sue stanze. Alcuni assicurano di averla vista muoversi dietro alle finestre, eterea e spaventosamente inquietante.

 

Foto: Vitaliy Shevchenko via Unsplash

 

I fiori di campo e la loro bellezza selvaggia

 

Che posto solitario sarebbe un mondo senza fiori di campo!

(Roland R. Kemler)

 

Cominciano a sbocciare già all’inizio della Primavera, e in Estate trionfano in tutto il loro splendore: i fiori di campo sfoggiano una bellezza selvaggia e costellano le distese campestri di una miriade di colori. Nascono spontanei, non hanno bisogno della semina nè della coltivazione, eppure sono meravigliosi. Non è un caso che siano stati immortalati da alcuni degli artisti più celebri di tutti i tempi: ricorrono nei dipinti di Claude Monet, Vincent Van Gogh, Gustave Klimt…Gli Impressionisti, che dipingevano en plein air in mezzo alla natura, li adoravano letteralmente. Anche perchè la loro comparsa nei prati, nei campi e nel sottobosco coincideva con il risveglio della natura. A sbocciare per prime sono le margherite, i cosiddetti occhi della Madonna (fiori di Veronica) e le primule; successivamente spuntano il tarassaco (su VALIUM ho parlato del buon miele che si ottiene da questa pianta) e la camomilla. Quando il clima si fa più caldo, e il sole invade i campi in attesa della mietitura, ecco che i papaveri cominciano a schiudersi; i loro petali rossi e impalpabili vibrano di rutilante splendore. In aree più ombreggiate ed erbacee, invece, le campanule e i muscari non passano inosservati. Questi ultimi, costituiti da raggruppamenti di piccoli fiori color indaco lungo uno stelo tubolare, sono utilizzatissimi anche come pianta ornamentale per la scenograficità della loro nuance. Ma oltre a quelli già citati, quali sono i fiori di campo più conosciuti?

 

 

Il fiordaliso, ad esempio, azzurrissimo e al centro di due affascinanti leggende della mitologia romana. Ma anche l’anemone, detto il fiore del vento, e poi la margherita di mais (glebionis segetum), così soprannominata perchè somiglia a una margherita completamente gialla. E ancora, la viola del pensiero, la viola riviniana, il ranunculo favagello.

 

 

La digitale rossa colpisce per il contrasto tra il suo nome ed i suoi fiori, infiorescenze pendule tipicamente viola, mentre il garofano dei poeti è diventata una nota pianta ornamentale, come d’altronde l’adonide estiva. Tra i fiori di campo troviamo anche il gittaione, la lantana, la dimorphoteca sinuata, con i suoi colori vivaci, il farfaraccio maggiore.

 

 

E infine il tussilago farfara, dai caratteristici petali giallissimi e sottili. A questa pianta venivano attribuite proprietà medicamentose sin dai tempi dell’antica Roma: pare che il suo nome derivi dal latino “tussis”(tosse), una patologia che il tussilago si era rivelato molto efficace nel curare.

 

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Tre fiori primaverili e le loro leggende

 

La Primavera è la stagione dei fiori, uno dei supremi emblemi del risveglio. Di quelli che sbocciano in questo periodo conosciamo più o meno ogni cosa: i loro nomi, i loro colori, i loro profumi, le loro caratteristiche…li utilizziamo in cucina, quando è possibile (rileggi qui l’articolo sui fiori edibili). Non tutti sanno, però, che a molti fiori si associano delle magnifiche leggende. Ve ne racconto tre.

 

Il lillà e la leggenda di Siringa e del dio Pan

 

 

La prima leggenda riguarda il Syringa Vulgaris, nome botanico del lillà. Si narra che Pan, il dio dei monti e della vita agreste, un giorno si imbattè in Siringa, una splendida ninfa delle acque dell’Arcadia. Per Pan fu un colpo di fulmine: con l’intento di sedurla, la riempì subito di mille complimenti. L’aspetto del dio, per metà uomo e per metà con sembianze caprine, fece però inorridire Siringa, che fuggì spaventata. Temendo che Pan potesse raggiungerla, Siringa chiese aiuto a suo padre Ladone, il dio dei fiumi. Ladone, quindi, la trasformò in un arbusto di lillà per impedire a Pan di possederla: il dio caprino era noto per il temperamento selvaggio e per i suoi bagordi orgiastici. Pan, in lacrime, non riuscendo più a trovare Siringa si disperò. A questo punto, la leggenda si dirama in due versioni differenti. Secondo la prima, quando Pan passò davanti al cespuglio di lillà udì il melodioso lamento del vento tra le sue fronde; decise dunque di reciderle e con esse costruì un flauto da cui non si separò mai più. La seconda versione, invece, racconta che Siringa si trasformò nella canna di un canneto per sfuggire a Pan. Il dio se ne accorse ed estrasse dal canneto sette canne che accorciò e unì tra loro realizzando uno strumento musicale. Nacque così il suo celebre flauto, che non a caso porta anche il nome di “siringa”. E il lillà? Da allora, venne per sempre chiamato Syringa Vulgaris.

 

La pratolina e la leggenda di Bellis e del dio della Primavera

 

 

La pratolina è una di quelle margheritine che in Primavera invadono i prati. Scientificamente si chiama Bellis Perennis: un nome che, come nel caso della Syringa Vulgaris, ebbe origine da una leggenda molto antica. Bellis era la bellissima figlia di Belus, il dio celtico della luce. La leggenda vuole che, un bel giorno, Bellis iniziasse a danzare su un prato con il suo fidanzato. Il dio della Primavera la notò immediatamente: perse la testa per lei e si fiondò sulla coppia per strapparla dalle braccia dell’amato. Quest’ultimo, infuriato, reagì all’assalto del dio con estrema violenza. Spaventatissima, Bellis decise quindi di fuggire da entrambi; chiuse gli occhi, si estraniò da quel contesto e si trasformò in una leggiadra margherita. La pratolina, anticamente, era un fiore che riscuoteva grande apprezzamento sia presso i reali che la gente comune. Tra i suoi estimatori annoverava Margherita di Valois, prima moglie di Enrico IV di Francia, San Luigi dei Francesi e Margherita D’Angiò, la consorte di Enrico VI di Lancaster. In inglese, il nome della pratolina è intriso di suggestività: “daisy“, infatti, deriva da “day’s eye”, ovvero “occhio del giorno”.

 

Il giacinto e la leggenda di Giacinto e di Apollo

 

 

Veniamo ora alla leggenda che riguarda lo Hyacintus, una pianta bulbosa dalle infiorescenze coloratissime. Il suo nome deriva da Giacinto, un prestante giovane della mitologia greca. Principe di Sparta, Giacinto era amato dal dio Apollo, ma ad essere affascinati da lui erano anche Zefiro (personificazione del vento dell’ ovest), Borea (personificazione del vento del nord) e Tamiri. La gelosia di Zefiro nei confronti di Apollo, purtroppo, fu fatale al bel principe di Sparta. Apollo era innamoratissimo di Giacinto; un giorno, in previsione delle Olimpiadi a cui quest’ultimo avrebbe preso parte, i due amanti iniziarono una gara di lancio del disco. Apollo lanciò il disco, e osservando quella scena Zefiro impazzì di gelosia: soffiò una forte folata di vento sulla coppia, ma la raffica cambiò la traiettoria del disco. Giacinto fu colpito violentemente dall’attrezzo, che si scagliò contro la sua tempia uccidendolo. Apollo, disperato, tentò in tutti i modi di salvare il suo amante; non ci riuscì, però non permise ad Ade, il dio dell’ oltretomba, di portarlo con sè: trasformò il sangue versato da Giacinto in un fiore profumatissimo e dal colore intenso a cui diede il suo stesso nome. Per celebrare Giacinto, a Sparta tra Maggio e Giugno si tenevano le Giacinzie, una tre giorni composta da riti simboleggianti la morte e la rinascita.