Macondo

 

“Nelle notti d’inverno, mentre faceva cuocere la minestra nel camino, soffriva la nostalgia del caldo del suo retrobottega, il ronzio del sole nei mandorli polverosi, il fischio del treno nel sopore della siesta, proprio come a Macondo soffriva la nostalgia della minestra invernale nel camino, del richiamo del venditore di caffè e delle lodole fugaci della primavera. Stordito da due nostalgie opposte come due specchi, perse il suo meraviglioso senso della irrealtà, e alla fine raccomandò a tutti che se ne andassero da Macondo, che dimenticassero tutto quello che lui gli aveva insegnato del mondo e del cuore umano, che se ne fottessero di Orazio, e che in qualsiasi luogo si fossero trovati si ricordassero sempre che il passato era menzogna, che la memoria non aveva vie di ritorno, che qualsiasi primavera antica è irrecuperabile, e che l’amore più sfrenato e tenace era in ogni modo una verità effimera.”

Gabriel Garcìa Màrquez, da “Cent’anni di solitudine” (Mondadori, 2021)

 

Es Vedrà (Ibiza)

 

Immobile la piccola barca resta

indelebile tra la riva e la roccia arcana

nel mare solido della memoria

porta il mio cuore estatico

in perpetuo ritorno…

 

(Contessa Pinina Garavaglia,

da “Per Sempre Giovani”)

 

 

I nomi e i luoghi

 

” Frate Lino da Padova tirò fuori bottiglie di grappa alle erbe. Lampone, mirtillo, asperula, asparago selvatico, genziana. Assaggiare il ginepro, un liquido marrone dal forte sapore catramato, fu come sfregare la lampada di Aladino. Mille odori uccisi dalla modernità igienista sbucarono dal nulla e ne chiamarono altri all’ appello. Rividi una sequenza olfattiva folgorante: il profumo di cembro di una vecchia camera da letto della Val di Zoldo, con mio padre che richiudeva le imposte spalancate dalla bufera; la sciolina da neve bagnata messa a scaldare accanto a sci finlandesi di legno privi di lamine, marca Jarvinen; mia nonna che apriva d’inverno la marmellata di albicocche messa a bollire l’estate; formaggi appesi ad affumicare sotto il camino di una malga; l’odore dei materassi di paglia in una locanda carnica anni cinquanta, a Comeglians, con un catino e una brocca come lavabo. Ritorno al Giau, non voglio che la luce mi sorprenda. Ormai le stelle accelerano, cadono quasi in verticale oltre il Col di Lana. Fu importante quella notte con Lino il Priore. Parlammo dello zoccolo di rosso porfido che fa da basamento e scantinato alle dolomie più recenti, un fondale marino antichissimo che affiora ogni tanto in superficie con fossili di fantastiche piante tropicali. Parlammo anche della memoria. “Non c’è via d’uscita”, brontolò il frate. “Persino nella savana o nei monasteri del Tibet entra la globalizzazione. Niente si salva dalla TV, niente. Temo che resterà solo il deserto.” (…) Quando dopo molte grappe uscii e Lino chiuse il pesante uscio del convento, pensai di ripetere i nomi di quelle montagne, come un esorcismo contro la desertificazione. Cercai le magiche scogliere e le invocai, nella foresta. Sciliar, Vaèl, Renon, Vaiolett. Nel bosco passai accanto a una croce coperta di neve. Sotto, una montagna di pietre portate dai pellegrini come voto dalla Val d’Adige. Finchè ci saranno i nomi, pensai, ci saranno i luoghi. “

Paolo Rumiz, da “La leggenda dei monti naviganti” 

 

 

 

Il viaggio

 

” Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione. Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto: “Non c’è altro da vedere”, sapeva che non era vero. La fine di un viaggio è solo l’inizio di un altro. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si è visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l’ombra che non c’era. Bisogna ritornare sui passi già fatti, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre. Il viaggiatore ritorna subito. “

José Saramago, da “Viaggio in Portogallo”