Omaggio ad Arthur Rackham, illustratore di fiabe ma non solo

 

“Fabula Docet”

(Esopo)

 

Le illustrazioni delle fiabe hanno un ruolo importantissimo: aggiungono pathos e coinvolgimento a un genere altamente evocativo già di per sè. Prova ne è il fatto che quasi mai, neppure dopo anni, riusciamo a dimenticare le immagini associate alle fiabe della nostra infanzia. Ricordiamo con esattezza il libro da cui erano tratte, la copertina, i disegni che accompagnavano il testo. E insieme a tutto questo, lo stile dell’ illustratore. Perchè – fateci caso – non esistono due disegnatori che abbiano un tratto simile; ognuno vanta caratteristiche del tutto proprie e inconfondibili. Partendo da un simile presupposto, viene spontaneo approfondire l’ iconografia fiabesca di un’epoca in cui l’ interesse per il racconto fantastico (sia a livello filologico che simbolico, morale e artistico) raggiunse il suo culmine: l’età vittoriana. A quei tempi, Arthur Rackham si affermò come nome di punta dell’ illustrazione. Nato nel quartiere londinese di Lambeth nel 1867, Rackham crebbe in una casa di fronte al giardino botanico creato da John Tradescant il Vecchio e il Giovane due secoli prima: uno scenario ideale per il piccolo Arthur, che eccellendo nel disegno si dilettava a riprodurre i dettagli del corpo umano e i reperti esposti al British Museum e al Museo di Storia Naturale di Londra. Nel frattempo si era iscritto alla City of London School, dove i suoi elaborati artistici gli valsero svariati premi. Ma a scuola non rimase a lungo. A 16 anni fu costretto ad abbandonarla in seguito a dei problemi di salute, e decise di imbarcarsi per l’ Australia insieme alle sue zie.  Durante il viaggio non fece altro che disegnare, adorava immortalare tutto ciò che lo colpiva della realtà circostante. Tornato a Londra, all’ età di 18 anni pensò di ripetere l’ esperienza scolastica: iniziò a frequentare la Lambeth School of Art e, parallelamente, a lavorare come addetto alle vendite. Il suo talento per il disegno, in quel periodo, gli fruttò le prime collaborazioni nel campo dell’ illustrazione. Debuttò nelle vesti di freelance, e dopo un anno fu assunto dal Westminster Budget nel doppio ruolo di giornalista e illustratore. Era il 1892. Nel 1893 uscì “To the Other Side” di Thomas Rhodes, il primo libro che conteneva le sue immagini, mentre nel 1894 i lavori di Rackham apparvero in “The Dolly Dialogues” e “The Prisoner of Zenda” di Anthony Hope.

 

 

L’ attività di Arthur Rackham si svolse sempre all’ insegna dell’ eclettismo: oltre alle fiabe, illustrò romanzi per adulti e per ragazzi. Le sue opere, citando qualche titolo esemplificativo, impreziosiscono libri come “Alice nel Paese delle Meraviglie” di Lewis Carroll, “Canto di Natale” di Charles Dickens, “Peter Pan nei Giardini di Kensington” di James Barrie, raccolte di fiabe di Esopo, di Hans Christian Andersen e dei Fratelli Grimm, ma anche volumi immaginifici del calibro di “I viaggi di Gulliver” di Jonathan Swift, “Sigfrido e il crepuscolo degli dei” di Richard Wagner, “Il re del fiume dorato” di John Ruskin, “Sogno di una notte di mezza estate” di William Shakespeare. Solo la morte, sopravvenuta nel 1939 a causa di un male incurabile, interruppe la carriera di Rackham, che venne più volte omaggiato con premi e mostre (tra i quali ricordiamo una medaglia d’oro all’ Esposizione Internazionale di Milano del 1906 e un’ esposizione al Museo del Louvre nel 1914). Lo stile del grande illustratore rimane inimitabile: l’ impronta dell’ Art Nouveau è palese, accentuata da atmosfere oniriche ad alto tasso di magnetismo. Il colore riveste una funzione predominante, evoca e suggerisce, si sfuma in magici giochi cromatici o esalta dettagli conferendo loro un impatto visivo straordinario. Scenari, cose e personaggi sono tratteggiati con linee di contorno accuratissime, la fantasia che impregna le illustrazioni stimola potentemente l’ immaginazione del lettore. Tra gli artisti che ispirarono Rackham figurano nomi quali quello di John Tenniel, Aubrey Beardsley e Albrecht Durer. Il successo ottenuto dal disegnatore fu tale da sedurre persino la Disney, che assurse il suo stile a punto di riferimento quando, nel 1937, realizzò il film d’animazione “Biancaneve e i sette nani”.

 

Il luogo

 

Venezia, oggi, compie 1600 anni. Era il 25 Marzo del 421 quando sulla Riva Alta (Rialto), dove ebbe luogo il primo insediamento lagunare,  venne consacrata la Chiesa di San Giacomo (così riporta il manoscritto del Chronicon Altinate). La città di Venezia fu fondata allora, e 1600 anni dopo festeggia il suo anniversario con un caleidoscopio di eventi, mostre, percorsi alla scoperta degli splendori locali, conferenze e chi più ne ha, più ne metta. L’ avvio alle celebrazioni è fissato per le 11 in punto: nella Basilica di San Marco, il Patriarca Francesco Moraglia officierà una messa divulgata  in diretta TV su Antenna 3 e via social sulla pagina FB di Gente Veneta. Dalle 16 in poi, la Serenissima verrà invasa dal suono delle campane. Tutte le chiese contribuiranno a dar vita a questo speciale “concerto”, un tributo alla città da parte di tutto il Patriarcato di Venezia. Alle 18,30, invece, i festeggiamenti proseguiranno con un omaggio televisivo: lo speciale Venezia tramite cui Rai 2 racconterà la storia della perla lagunare in un connubio di musiche suggestive e spettacolari immagini. “1600 Venezia speciale anniversario” – questo il titolo del programma –  sarà introdotto dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, un inizio solenne così come solenne è la commemorazione della nascita di una città unica e preziosa, una vera e propria meraviglia che nessun altro luogo al mondo riuscirà mai a uguagliare. I più sentiti Auguri, Serenissima!

 

 

 

Milano Fashion Week: flash dalle collezioni AI 2020/21

GUCCI. 1

Dal 18 al 24 Febbraio, Milano ha ribadito il suo status di capitale della moda. 56 sfilate, 96 presentazioni, 34 eventi più un gran numero di mostre e appuntamenti hanno calamitato l’attenzione su una Fashion Week ricca di proposte, ma sfortunamente penalizzata dall’ espansione del coronavirus: l’assenza dei fashion operator cinesi (circa 1000 tra giornalisti e buyer) si è fatta sentire, anche se grazie all’ iniziativa “China We are with you” la Camera della Moda Italiana ha permesso loro di partecipare via web alla kermesse. Il sodalizio tra la CNMI e la società Chic Group, inoltre, ha fatto sì che otto brand cinesi emergenti presentassero digitalmente – ed attraverso contenuti appositi – le loro collezioni al Fashion Hub, dove oltre ai new talents made in China erano presenti designer provenienti dall’ Africa e dalla Danimarca. Tornando ai défilé, in passerella hanno sfilato i grandi nomi della moda italiana: Gucci, Alberta Ferretti, Moncler Genius, Prada, Moschino, e, ancora, Marni, Versace, Salvatore Ferragamo, Bottega Veneta, Missoni (per citarne solo alcuni), con Giorgio Armani in chiusura tra i “big” in calendario il 24 Febbraio. Anche nella capitale lombarda si è assistito ad un vivace andirivieni di ritorni, new entry e sfilate co-ed. Philippe Plein, per esempio, è tornato sulle passerelle milanesi così come Ports 1961, quest’ ultimo dopo una lunga assenza. La formula di far sfilare insieme i look Uomo e Donna è stata adottata da ben dieci brand (tra cui Versace, al suo debutto in co-ed), dimostrando di essersi ormai pienamente affermata. Le battute conclusive della Fashion Week sono state contraddistinte dell’ emergenza coronavirus. Giorgio Armani, Laura Biagiotti e Moncler Genius, pertanto, hanno deciso di mandare in scena a porte chiuse – ma ovviamente in live streaming – le loro collezioni. Tra i numerosi eventi organizzati, da segnalare l’ asta di 30 outfit (più un cappello su misura firmato Gareth Pugh) tratti dall’ archivio di Anna Dello Russo, che ha presentato anche il suo libro “ADR Book – Beyond Fashion”, e due chicche culturali imperdibili: la mostra “Memos: A proposito della moda in questo millennio”, a cura di Maria Luisa Frisa e realizzata dalla CNMI in collaborazione con il Museo Poldi Pezzoli (terminerà il 4 Maggio) e “Haimat. The sense of belonging”, l’ esposizione che Giorgio Armani dedica al grande fotografo Peter Lindbergh negli spazi del suo Armani/Silos (è visitabile fino al 2 Agosto). La data di chiusura di entrambe permette di visitarle anche a Fashion Week terminata. Veniamo ora ai cinque brand su cui VALIUM ha concentrato la sua attenzione: si tratta di Gucci, Fendi, Moschino, Versace e Dolce & Gabbana.

E’ inevitabile: Gucci ci trasporta, ogni stagione, in un universo immaginifico irresistibile e del tutto onirico. La collezione Autunno Inverno 2020/21 ha compiuto questo miracolo per l’ennesima volta. Chiamando la sfilata “Ritual” in virtù del cerimoniale che la accompagna, un rito quasi liturgico, Alessandro Michele ci introduce in una sorta di show nello show: su una grande pedana ruota una vetrina circolare al cui interno brulica il backstage del défilé, 60 modelle sottoposte alle cure degli hairstylist, dei make up artist e dei vestieristi. Lo staff dell’ Ufficio Stile Gucci indossa un’ uniforme grigia, colore che non denota di certo monotonia dal momento che identifica i visionari “façonnier de rêves” (creatori di sogni) della Maison. La sfilata inizia con la voce fuori campo di Federico Fellini che riflette sulla sacralità del cinema e dei suoi rituali: un chiaro parallelismo con il concept ideato da Michele, ma non solo. Il regista dell’ onirico per eccellenza e il “creatore di sogni” al timone del brand fiorentino sono accomunati – seppur con le dovute differenze – da un’ ispirazione molto simile. Per l’Autunno Inverno 2020/21 Alessandro Michele attinge a un “amarcord” che rievoca abiti e stili tipici dell’ infanzia. I colletti sono arrotondati, in pizzo come i guanti, le maniche a sbuffo, le gonne plissettate, i pantaloni ampi e rigorosamente alla caviglia. Spiccano look in tartan ma, soprattutto, sontuosi long dress a balze che sembrano usciti da una fiaba, quelle che incantavano noi bambine. Gli accessori rafforzano questo mood fatato: Mary Jane in vernice e con la zeppa accompagnano quasi tutti i look, cerchietti e hair accessories in strass risaltano accanto a cappelli da “Gatto con gli Stivali”, collant in pizzo si alternano a calzerotti cosparsi di piume. L’ allure, però, è tutto fuorchè naive. Per contrasto, gli abiti si coniugano con tessuti dalle trasparenze impalpabili o con colli e imbracature fetish in patent leather nero. Libertà, estro ed un inedito concetto di bellezza rimangono i cardini delle creazioni di Alessandro Michele, che ci sorprende con un “tableau vivant” di modelle posizionate sul perimetro della giostra/carillon in vetro dove è racchiuso il backstage: una nuova, sempre ammaliante “stanza delle meraviglie”.

 

GUCCI. 2

GUCCI. 3

 

FENDI. 1

La collezione sublima l’ eleganza signature di Fendi: seducente, decisa ma al tempo stesso estremamente raffinata. Sfoggiando troneggianti chignon composti da treccine, le modelle sfilano sinuose in abiti, cappotti e ensemble di gonna e maglione contraddistinti dal dettaglio iconico di stagione, lunghe maniche a sbuffo dai volumi “geometrici” che spuntano quasi a sorpresa. Le linee sono fluide e ben modellate sul corpo, talvolta svasate, il velluto prevale e i lunghi cardigan sono stretti in vita da una cintura. “Femminilità” sembra essere la parola d’ordine di look che alternano la pelle e la pelliccia al sensuale chiffon e al Paisley in pizzo. Accanto alle forme pencil o a ruota, appaiono silhouette impalpabili che evidenziano il coté più audace della donna Fendi: in un tripudio di trasparenze in total black, viene svelata l’ intrigante lingerie a rete sottostante. Tra i colori predominano il rosa cipria, il grigio, il bianco, il giallo, il marrone e l’arancio pastello.

 

FENDI. 2

FENDI.3

 

MOSCHINO. 1

Jeremy Scott inneggia alla Rivoluzione Francese prendendo spunto dalle proteste che coinvolgono svariati popoli mondiali. Ma il suo, piuttosto che un “j’accuse”, è un momento di tregua che offre al pubblico, una pausa di gioia e di sdrammatizzazione. Manda quindi in scena una Marie Antoinette in puro stile Moschino, vestita di un’ ampia crinolina che arriva a metà coscia (a proposito, c’è da dire che la minigonna sarà uno dei grandi ritorni dell’ Autunno Inverno 2020/21) abbinata ad altissimi cuissardes con plateau e lacci in raso. E’ una Marie Antoniette, la sua, che non disdegna l’iconografia affermatasi sulla falsariga del film di Sofia Coppola: colori sorbetto sia per gli abiti che per le maestose acconciature Pouf, dolcetti a profusione ed uno chic che flirta con sbuffi e fiocchi. La crinolina è senza dubbio il leitmotiv della collezione, e viene declinata in versioni molteplici. La ammiriamo in denim ricoperto di dorati arabeschi Barocchi, in tessuto matelassé adornato di ricami oro, accompagnata al celebre biker jacket di Moschino, sia nero che color rosa Barbie, o a felpe che ritraggono Anime giapponesi. Lo show raggiunge il suo apogeo con gli straordinari abiti-cake delle ultime uscite. Riproducono torte vistose, a più strati, decorate di ghirigori e di rose in simil zucchero: delizie per la vista che esaltano l’estro di cui è intrisa questa “ghiotta” collezione.

 

MOSCHINO. 2

MOSCHINO. 3

 

VERSACE.1

Donatella Versace celebra l’ inclusività e l’uguaglianza. La sua prima sfilata in co-ed sancisce un’ autentica parità tra uomo e donna in fatto di look: alcuni outfit si declinano sia al maschile che al femminile con poche differenze. Non si tratta di no gender, bensì di un modo squisitamente sartoriale di eliminare le differenze. Stampe floreali, zebrate, quadrettate accomunano l’ uomo e la donna, il medesimo suit fucsia viene indossato da entrambi con la sola variazione in doppiopetto per lei, le pellicce tigrate in dégradé sono le stesse, quelle maschili appena più lunghe. Lo stile Versace, graffiante, si fa protagonista assoluto: le minilunghezze sono un leitmotiv del womenswear,  ricorrono in gonnelline svolazzanti, pantaloni svasati e abitini minimal. Il tipico glam del brand si incarna in un nero “grafico” per poi stemperarsi grazie ad accenti casual (come i jeans multistripe in gradazioni délavé) e ad un tocco sporty che dinamizza i look, combinando per esempio una maglia da rugby con la minigonna e la toque di Astrakhan. Sono poi presenti parka, top da gym con logo Versace, piumini cortissimi, tutti abbinati a dei tronchetti in total black o in total white muniti di platform. La sera definisce una nuova sensualità “made in Medusa” attraverso minidress vertiginosi e senza spalline, dalla linea arrotondata sullo scollo. A concludere lo show è proprio l’ outfit più d’impatto di questa serie: un miniabito argentato indossato da Kendall Jenner. La linea è minimal ma sinuosa, una bordatura silver impreziosisce e sottolinea la scollatura. Nonostante l’orlo inguinale e le forme nette,  è uno degli evening dress più “ricchi” mai apparsi in una collezione.

 

VERSACE.2

VERSACE. 3

 

DOLCE & GABBANA. 1

Nero, bianco, grigio, un tocco di rosso e uno di beige: su questa palette Dolce & Gabbana imbasticono una collezione che è un inno all’ artigianalità ma anche alle molteplici sfaccettature della donna siciliana, loro musa da tempo. I colori scelti diventano essi stessi degli emblemi di sicilianità. Il “profondo nero” tradizionalmente sfoggiato dalla popolazione femminile dell’isola, ad esempio, predomina e si declina negli outfit più svariati: pull dalle lunghe maniche, paltò con applicazioni floreali, trench, ensemble corredati di coppola, abiti fascianti con inserti see-through, ma lo ritroviamo anche in un potente simbolo di seduttività come le calze autoreggenti (versione contemporanea dei collant a giarrettiera). Il materiale clou è la lana, rigorosamente lavorata a mano. Dolce & Gabbana hanno infatti dichiarato di aver affidato la realizzazione dei capi ad un gran numero di magliaie a domicilio, così da valorizzare il savoir faire “Made in Italy”. Inutile dire che il risultato sia straordinario, raffinatissimo e molto accurato: lavorata ai ferri o all’ uncinetto, la maglia assume persino una texture che ricorda lo shearling. Poi c’è il bianco della “purezza Barocca”, bluse ed abiti ricchi di volant, ricami, pizzi ed inserti crochet, bustini sovrapposti a camicie maschili con cravatta. Il grigio è in buona parte associato ai completi gessati o da uomo, ma anche a lunghi e comodi coat in lana. Il risultato è una collezione che, esaltando la più squisita artigianalità italiana, riesce a coniugare preziosi manufatti con uno stile che è un tributo formidabile all’ isola di Sicilia.

 

DOLCE & GABBANA. 2

DOLCE & GABBANA. 3

 

 

Il “Sogno d’amore” di Marc Chagall in mostra a Napoli

Marc Chagall, “Il gallo viola” (1966-72)
Olio, gouache e inchiostro su tela, 89,3×78,3 cm Private Collection, Swiss © Chagall® by SIAE 2019

Inaugurerà all’ indomani di San Valentino e, già nel titolo, si accinge a prolungarne la magia: “Chagall. Sogno d’amore” è la mostra che Napoli dedica a Marc Chagall. Ospitato nella suggestiva Basilica della Pietrasanta – Lapis Museum di Napoli, l’ iter espositivo ripercorre la vita, l’ opera e il grande amore dell’ artista russo per Bella Rosenfeld, che sposò nel 1915. 150 capolavori suddivisi tra dipinti, acquarelli ed incisioni tracciano questo excursus avvalendosi di testimonianze rare, pressochè sconosciute al pubblico; ad accomunarle è un universo onirico venato di stupore e meraviglia. La mostra, curata da Dolores Duràn Ucar, esplora a tutto campo l’ immaginario di Chagall: sogno e realtà si fondono in un poetico mix di fiabe, ricordi, suggestioni religiose e belliche esaltato da cromie di un’ intensità vibrante. La fantasia predomina, tratteggiando personaggi, atmosfere e ambientazioni collocati nel labile confine in cui si intrecciano utopia e mondo tangibile. Per sottolineare le sfaccettature di questo cosmo artistico, l’ esposizione si dirama in quattro sezioni che ne indagano altrettanti temi ricorrenti:  la tradizione russa che permò l’ infanzia (e non solo) del pittore, il senso di sacralità profuso nelle opere dedicate alla Bibbia, il bestiario che – nelle acqueforti delle Favole – si fa metafora dell’ umano e, ancora, l’ universo circense, avvolto da uno spiccato mood bohemienne. Ma è l’amore  il vero filo conduttore dell’arte di Marc Chagall, quell’ amore che lo legò per sempre a Bella Rosenfeld e ne fece la sua musa ispiratrice. I dipinti che la vedono protagonista, intrisi di pigmenti puri e sospesi in scenari sognanti, rappresentano l’epitome dei suoi leitmotiv stilistici.

“Chagall. Sogno d’Amore”, organizzata e prodotta dal Gruppo Arthemisia, si avvale del patrocinio del Comune di Napoli. E’ sotto l’egida dell’Arcidiocesi di Napoli e in sintonia con la sezione San Luigi della Pontificia Facoltà Teologica dell’ Italia meridionale, Scuola di Alta Formazione di Arte e Teologia, della Rettoria della Basilica di S.Maria Maggiore alla Pietrasanta e dell’ Associazione Pietrasanta Polo Culturale ONLUS.

La mostra è visitabile dal 15 Febbraio al 30 Giugno 2019 presso la Basilica di Santa Maria Maggiore alla Pietrasanta (piazzetta Pietrasanta 17-19) di Napoli

Per info: www.chagallnapoli.it

 

Marc Chagall, Gli innamorati con l’asino blu,1955 ca.
Olio su tela, 30×27 cm Private Collection, Swiss © Chagall®, by SIAE 2019

 

Marc Chagall, I fidanzati su sfondo blu, 1931-32
Olio su tela, 24×19,2 cm Private Collection, Swiss © Chagall®, by SIAE 2019

 

Photo courtesy of Gruppo Arthemisia

 

 

 

Il close-up della settimana

(Photo by Patrick Demarchelier)

Era un “piccolo grande uomo”, prendendo in prestito il titolo di un film di Arthur Penn, laddove “piccolo” si riferisce unicamente alla sua statura. “Grande”, invece, è l’ aggettivo che definisce il suo talento immenso, ciclopico, che lo ha innalzato alle più alte vette del design della moda: è così che Azzedine Alaia verrà per sempre ricordato. Sono innumerevoli, le mostre fino ad oggi dedicate ai suoi abiti-scultura; il Musée d’Art Contemporain di Bordeaux, Palazzo Corsini a Firenze, il Guggenheim Museum di New York, il Musée d’Art Modern di Parigi e Galleria Borghese a Roma sono solo alcune delle prestigiose strutture che li hanno messi in esposizione. Non è un caso che la passione per la moda di Alaia sia nata e cresciuta in parallelo con quella per l’arte: classe 1940, tunisino, studia scultura all’ Accademia delle Belle Arti di Tunisi prima di trasferirsi a Parigi e dedicarsi al fashion design. E’ il 1957, e Azzedine debutta in grande stile nel team di Dior approdando in seguito da Guy Laroche e Thierry Mugler, ma alla fine degli anni ’70 corona il sogno di aprire un atelier proprio che avvia nel suo appartamento di rue de Bellechasse. Da allora, e per ben 20 anni a venire, quell’ indirizzo sarà meta di celebrities e grand dames del jet set del calibro di – per citarne solamente un paio – Greta Garbo e Marie-Hélène de Rotschild. L’ escalation di gradimento, nel 1980, è tale da spingere Alaia a lanciarsi anche nel prèt-à-porter. Il successo è immediato: agli Oscar della Moda indetti a Parigi nel 1984, il couturier viene premiato sia in qualità di “Miglior stilista” che per la “Migliore collezione” dell’ anno, e la sua fama varca i confini della Francia fino a raggiungere New York e Beverly Hills. “The King of Cling”, come viene soprannominato per gli abiti iperfascianti e seduttivi che crea, conta su una schiera di fedelissime che include, tra le altre, Madonna, Tina Turner, Naomi Campbell, Carine Roitfeld, Grace Jones (indimenticabile nel suo attillatissimo long dress rosa con cappuccio ), Shakira, Janet Jackson, Stephanie Seymour e Raquel Welch. Il prèt-à-porter si impone intanto come uno dei suoi punti di forza al pari dell’ Haute Couture: rimane celebre la collezione in cui, nell’ AI 1991/92, porta in passerella il maculato in total look ispirandosi a suggestioni street style e hip hop. Intorno alla metà degli anni ’90 Azzedine Alaia sparisce dai riflettori, ma continua a presentare le sue collezioni nel multispazio del Marais in cui ha unito boutique, showroom e atelier.  Nel 1996 partecipa alla Biennale di Firenze insieme a Julian Schnabel, realizzando uno straordinario abito che “dialoga” con le opere dell’ artista statunitense. Quattro anni dopo firma una partnership con il Gruppo Prada che acquisisce le licenze del suo marchio, ma nel 2007 ne riprende possesso concludendo un accordo con la holding svizzera Richemont. Avverso a un concetto di moda come “marketing”, Alaia si dichiara lontano dalla logica che identifica la moda con uno status symbol e che prevede collezioni a ritmo serrato. Sue priorità rimangono il design, la ricerca sull’ abito, l’ unicità dello stile. Il nuovo millennio consolida la sua carriera di couturier a pieno titolo: nel 2008 viene insignito della Légion d’Honneur dal governo francese, si susseguono le mostre a lui dedicate e le donne più famose del mondo fanno sfoggio delle sue creazioni. Tra le sue fan vanta, adesso, Michelle Obama, Marion Cotillard, Carla Bruni, Rihanna, Beyoncé, Gwyneth Paltrow, Kim Kardashian, Nicki Minaj oltre a molte, moltissime altre celebs ancora. Nel 2015 Azzedine Alaia lancia il suo primo profumo e la Galleria Borghese di Roma celebra il genio del designer tunisino tramite una mostra dal significativo titolo di Couture Sculpture. Il 18 Novembre scorso, “The King of Cling” muore a Parigi all’ età di 77 anni: la sua leggenda, ora, si accinge a tramutarsi in mito.

 

Il close-up della settimana

Guy Bourdin il provocatorio,  il visionario, il geniale. La sua opera, di forte stampo surrealista, lo ha reso uno dei Maestri indiscussi della fotografia del XX secolo. La Fondazione Sozzani si accinge a celebrarlo con due mostre milanesi allestite negli spazi della Galleria Carla Sozzani, a 10 Corso Como: In Between e Untouched, a cura di Shelly Verthime, verranno inaugurate rispettivamente il 9 Settembre e il 14 Ottobre e proporranno una selezione di scatti vintage e più recenti, rigorosamente in bianco e nero, del talentuoso fotografo francese. Si tratta di un focus piuttosto inedito, meno conosciuto rispetto alla produzione di forte impatto cromatico a cui si tende ad associare Guy Bourdin immediatamente. Eppure, il “black and white” rappresenta il leitmotiv di circa la metà delle sue foto destinate al fashion ed evidenzia come, sin dagli esordi, la sua opera sia contraddistinta da una straordinaria sensibilità visiva. Nato a Parigi nel 1928, Bourdin debuttò come fotografo aereo con la French Air Force di Dakar,   dove svolse il servizio di leva.  Al ritorno in Francia, fondamentale si rivelò l’ incontro con Man Ray: l’ artista dadaista divenne il suo mentore e firmò l’ introduzione del catalogo della sua prima mostra fotografica, inaugurata nel 1952 a Parigi. Risale a tre anni dopo l’ inizio della collaborazione di Bourdin con Vogue Paris, sfociata in un sodalizio più che trentennale. Con Vogue il giovane fotografo approdava al mondo della moda, un settore per il quale realizzò servizi e campagne pubblicitarie come quelle – leggendarie – per il brand di calzature Charles Jourdan.  Le immagini graffianti, il glamour che converte gli accenti patinati in elementi surreali, i colori smaglianti, divennero poco a poco il suo signature style. Ogni scatto di Guy Bourdin raccontava una storia, prendeva le distanze dal mero “figurativismo”. Le sue doti da storyteller visivo aprirono la strada a una nuova fotografia di moda e lo resero richiestissimo:  oltre che per Vogue, effettuò photo shoot per Harper’s Bazaar e Maison del calibro di Versace, Issey Miyake, Ungaro, Chanel e Loewe gli affidarono le loro advertising campaign. Irriverente e unconventional, Bourdin non accettò mai il Grand Prix National de la Photographie di cui il Ministero della Cultura Francese lo insignì nel 1985. Oggi, a 26 anni dalla sua morte, viene considerato uno dei fotografi più influenti nella storia della fashion photography e le sue opere sono incluse nelle collezioni di musei come il Victoria & Albert Museum e il Tate Modern di Londra, la Galerie Nationale du Jeu de Paume di Parigi, il National Museum of China di Pechino e il Getty Museum di Los Angeles.

10 Corso Como (photo by justraveling.com)

Le due mostre che la Fondazione Sozzani gli dedica, evidenziano il coté più squisitamente intimo della sua fotografia: giochi di luci ed ombre, un alto tasso di raffinatezza e la forza impattante dell’ immagine sono il fil rouge che le accompagna.

IN BETWEEN (dal 10 Settembre all’ 11 Ottobre) include 20 fotografie di moda perlopiù inedite scattate da Bourdin tra il 1950 e il 1987. I riflettori sono puntati sull’ universo visionario scaturito dalla sua collaborazione con Vogue Francia e sulle tappe salienti di questo excursus, a partire dal photo shoot cult ” Chapeaux choc” pubblicato nel Febbraio 1955 fino alla ricezione dell’ Infinity Award che assegnò a Bourdin l’ ICP di New York.

UNTOUCHED (dal 15 Ottobre al 12 Novembre) mette in mostra 30 foto rare che Bourdin realizzò tra il 1950 e il 1955, periodo chiave per l’ incubazione del suo processo creativo. La curatrice Shelly Verthime racconta di aver rinvenuto i negativi e i provini degli scatti in una scatola Kodak contenuta nell’ archivio del grande fotografo: accuratamente catalogato, il materiale è rimasto inedito per 50 anni e racchiude l’ imprinting artistico di Guy Bourdin prima del suo esordio nella fashion photography. Con la mostra coinciderà la presentazione di un libro che porta lo stesso titolo.

GUY BOURDIN

Due mostre di Shelly Verthime

Dove: Galleria Carla Sozzani, 10 Corso Como – Milano

Quando:

In between (1955-1987) – Dal 10 Settembre al 11 Ottobre 2017 – Inaugurazione: il 9 Settembre 2017 dalle ore 15 alle 20

Untouched (1950-1955) – Dal 15 Ottobre al 12 Novembre 2017 – Inaugurazione: il 14 Ottobre 2017 dalle ore 15 alle 20

Per info e orari: www.galleriacarlasozzani.org

Photo: Guy Bourdin, Vogue Paris 1971
© The Guy Bourdin Estate, 2017
Courtesy of Art + Commerce, 2017

“Christian Dior, couturier du reve”: la grande mostra che celebra i 70 anni della Maison

Christian Dior, Bar suit, Haute Couture, Spring-Summer 1947, Afternoon suit, Shantung jacket , Pleated corolla skirt in wool crêpe, Musée des Arts Décoratifs, UFAC
© Photo Les Arts Décoratifs / Nicholas Alan Cope

Sono trascorsi 70 anni da quando il New Look, nel secondo dopoguerra, rivoluzionò in toto la silhouette femminile. Era il 1947 e la collezione Primavera/Estate di Christian Dior, contrapponendo uno charme elegante alle austerità imperanti durante il conflitto bellico, riscosse un successo tale da far sì che Parigi fosse ribattezzata “capitale della moda internazionale”. Da allora, la Maison Dior ha conosciuto un’ epopea di invariato splendore che in occasione del suo 70mo viene celebrata da una retrospettiva parigina: “Christian Dior, couturier du reve” è appena stata inaugurata presso il Musée des Arts Décoratifs e sarà visitabile fino al 7 Gennaio 2018. La mostra approfondisce ad ampio spettro l’ universo Dior, ripercorrendo il percorso inaugurato da Monsieur Christian fino ad approdare ai suoi illustri successori; il tributo è in grande stile, forse il più maestoso mai dedicato alla Maison. Agli oltre 300 abiti di Haute Couture selezionati viene affiancato, infatti, il fitto patrimonio intangibile costituito dalle emozioni, dalle storie di vita, dalle affinità e dalle ispirazioni, un heritage insostituibile documentato attraverso documenti, tele d’atelier, fotografie, schizzi, illustrazioni e reperti pubblicitari oltre che da accessori come i cappelli, le scarpe, le borse e dagli storici profumi Dior.

Christian Dior, Opéra Bouffe gown, Haute Couture, Fall-Winter 1956, Aiman line Short evening gown in silk faille by Abraham, Paris, Dior Héritage
© Photo Les Arts Décoratifs / Nicholas Alan Cope *

A dare il via al percorso espositivo, un approfondimento biografico sul “couturier du reve”: l’ infanzia a Grenville, gli Anni Ruggenti trascorsi in una Parigi effervescente dove inaugurò una galleria d’Arte, gli inizi nella Haute Couture come illustratore vengono evidenziati al pari delle sue passioni. L’ arte fu, senza dubbio, l’ amore principale di Christian Dior. Lo rivela il feeling che instaurò con nomi del calibro di Giacometti, Max Jacob, Dalì, Leonor Fini, Jean Cocteau e moltissimi altri habitué della galleria, ma anche la cospicua serie di dipinti, arredi, sculture, oggetti di antiquariato e d’arte esposti ad avvalorare la sua inclinazione. I curatori Florence Muller e Olivier Gabet hanno organizzato un excursus cronologico e tematico che si estende nei 3000 mq del Museo con dovizia di particolari: “raccontare” la Maison Dior significa anche, naturalmente, non tralasciare il prezioso ruolo che le creazioni fur di Frédéric Castet, i beauty look di Serge Lutens, Thyen e Peter Philips e le fragranze di François Demachy hanno rivestito nel forgiare la sua estetica. Fondamentale è poi lo spazio dedicato ai couturier che, dal 1957 (anno in cui Christian Dior morì improvvisamente) ad oggi, hanno portato avanti il suo heritage. Le creazioni di Yves Saint Laurent, Marc Bohan, Gianfranco Ferrè, John Galliano, Raf Simons e Maria Grazia Chiuri vengono omaggiate  in 6 gallerie che evidenziano le loro rispettive riletture di uno stile ormai leggendario.

Maria Grazia Chiuri for Christian Dior, Essence d’herbier cocktail dress, Haute Couture, Spring-Summer 2017, Ecru fringe cocktail dress, floral raffia and thread embroidery adomed with Swarovski crystals, derived from a Christian Dior original
© Photo Les Arts Décoratifs / Nicholas Alan Cope *

Quando il New Look trionfò, si impose una moda dai codici del tutto inediti: la linea a corolla, che sottolineava la vita e amplificava le gonne a dismisura, esaltava una nuova femminilità. Le spalle si arrotondavano dolcemente, il busto risaltava grazie a bar jacket aderenti e gli accessori – cappello, borsa, guanti – si tramutavano in parte integrante della mise. Al razionamento dei tessuti tipico della Seconda Guerra Mondiale venivano sostituite stoffe in metratura extra, la donna si riappropriava del gusto di abbigliarsi e di esibire glamour allo stato puro. La passione per l’arte e per l’ antiquariato divenne, per Christian Dior, sommo leitmotiv ispirativo: se ne rinvengono tracce sia nel design che nei pattern decorativi. Dal 1957 ad oggi, i couturier che gli sono succeduti hanno reinterpretato la sua cifra stilistica attingendo ai più svariati spunti. La raffinata audacia di Saint Laurent, lo chic lineare di Marc Bohan, le suggestioni architettoniche di Gianfranco Ferrè, la Punk couture teatrale di John Galliano, il rigoroso minimal di Raf Simons e il femminismo luxury di Maria Grazia Chiuri vengono analizzati, nella mostra, tramite outfit tanto splendidi quanto significativi.

John Galliano for Christian Dior, Shéhérazade ensemble, Haute Couture, Spring-Summer 1998 Evening ensemble , Ballets-Russes-inspired kimono, pyramid line with large silk velvet funnel collar, appliqué décor, embroidery and incrustation of Swarovski crystals, Long double satin sheath dress, Paris, Dior Héritage © Photo Les Arts Décoratifs / Nicholas Alan Cope *

A concludere l’ esposizione, la navata centrale si tramuta in sala da ballo per accogliere un novero di evening dress spettacolari. Alcuni di essi sono stati indossati da VIP del calibro della Principessa Grace di Monaco, Lady Diana Spencer, Charlize Theron e Jennifer Lawrence, affascinanti figure chiave dell’ iconografia Dior. Altre creazioni, sono per la prima volta visibili a Parigi. Tutti gli abiti contribuiscono, mirabilmente, ad illustrare la storia mitica di una Maison che del glamour ha fatto il suo emblema più sublime.

Gianfranco Ferré for Christian Dior, Palladio dress, Haute Couture, Spring-Summer 1992, In Balmy Summer Breezes line, Long embroidered and pleated white silk georgette sheath dress Paris, Dior Héritage © Photo Les Arts Décoratifs / Nicholas Alan Cope *

“CHRISTIAN DIOR, COUTURIER DU REVE”

Una mostra a cura di Florence Muller e Olivier Gabet con lo sponsor di Swarovski

Dal 5 Luglio 2017 al 7 Gennaio 2018

c/o Museé des Arts Décoratifs

107, Rue de Rivoli

Parigi

Per info: www.lesartsdecoratifs.fr

 

Raf Simons for Christian Dior, Haute Couture, Fall-Winter 2012
¾-length yellow duchess satin evening dress with Sterling Ruby SP178 shadow print, Paris, Dior Héritage, © Photo Les Arts Décoratifs / Nicholas Alan Cope *

Yves Saint Laurent for Christian Dior, Bonne Conduite dress, Haute Couture,
Spring-Summer 1958, Trapèze line, Smock dress in speckled wool by Rodier, Paris, Pierre Bergé – Yves Saint Laurent Foundation © Photo Les Arts Décoratifs / Nicholas Alan Cope *

Marc Bohan for Christian Dior, Gamin suit, Haute Couture, Fall-Winter 1961, Charme 62 line,Tweed suit, Short double-breasted jacket, Trapeze skirt and matching scarf Paris, Dior Héritage © Photo Les Arts Décoratifs / Nicholas Alan Cope *

Photo courtesy of Musée des Arts Décoratifs

“Rei Kawakubo/Comme des Garçons: Art of the In-Between”: al via la mostra annuale del MET

Blue Witch, spring/summer 2016. Photo by © Paolo Roversi; Courtesy of The Metropolitan Museum of Art

Il caschetto nero, geometrico, con frangetta, e l’ immancabile chiodo: la sua immagine stessa è iconica. E a un’ iconografia innovativa, potentemente di rottura, Rei Kawakubo ha consacrato tutta la propria ricerca stilistica. Non è un caso che proprio a lei il Costume Institute del Metropolitan Museum of Arts di New York dedichi la sua mostra-evento annuale, appena inaugurata e visitabile fino al prossimo 4 Settembre. Classe 1942, nata a Tokyo, Rei Kawakubo è la seconda designer vivente (e la prima designer donna) che il  Museo della 5th Avenue decide di omaggiare dopo la grande retrospettiva dell’ ’83 su Yves Saint-Laurent. Il titolo dell’ esposizione – curata da Andrew Bolton – è indicativo: “Rei Kawakubo/Comme des Garçons: Art of the In-Between”, un inno agli interstizialismi sui quali l’ estetica della stilista si fonda e si sviluppa, i punti di incontro che connettono gli ossimori donando loro una forma del tutto inedita. E’ questo il tema base di un iter snodato tra circa 150 abiti appartenenti alle collezioni che Kawakubo ha creato dal 1980 ad oggi,  un approfondimento che esula dai criteri cronologici suddividendosi in 8 aree corrispondenti a dualismi quali Fashion/Anti-Fashion, Design/Not Design, Model/Multiple, Then/Now, High/Low, Self/Other, Other/Subject, Clothes/No Clothes. Non esistono definizioni per Rei Kawakubo, la creazione coinvolge un concetto ed il suo esatto opposto in una convivenza che abbatte qualsiasi confine: quando nel 1969, a Tokyo, dà vita al brand Comme des Garçons dopo una laurea in Letteratura all’ Università di Keio e alcune esperienze come freelancer, la sua filosofia è ben chiara sin dal nome con cui lo battezza.

Body Meets Dress–Dress Meets Body, spring/summer 1997. Photo by © Paolo Roversi; Courtesy of The Metropolitan Museum of Art

Il debutto sulle passerelle parigine, nel 1981, afferma con forza la sua rivoluzionaria visione. Le modelle sfilano pallide, avvolte in forme che anzichè evidenziare il corpo lo rimodellano, stravolgono i volumi in una miriade di asimmetrie, sovrapposizioni, elementi tridimensionali. La palette cromatica è un inno al nero, tutt’ al più accostato al bianco o al grigio. Lo stile rimette in discussione la moda nella sua accezione stessa: minimalismo, modernismo e concettualismo si mixano, a imporsi è un’ ispirazione che attinge unicamente all’ essenza interiore. Gli abiti di Kawakubo nulla concedono agli stilemi standard, ai riferimenti geografici o alla tradizione. I punti cardine del fashion vengono costantemente rovesciati, sezionati e riassemblati secondo criteri agli esatti antipodi del “conventional”, donando alla nozione di “bellezza” un significato nuovo e sfaccettato in toto.  Per Comme des Garçons è un boom, il trionfo di un’ estetica giapponese che ha in Rei Kawakubo, Yohji Yamamoto e Issey Miyake le proprie punte di diamante. Quel che accomuna i tre innovativi designers è la sperimentazione sulle forme e sui materiali, la concezione dell’ abito come una struttura scultorea che definisce la silhouette ex novo.

Rei Kawakubo for Comme des Garçons. Photo by © Paolo Roversi; Courtesy of The Metropolitan Museum of Art

Nel tempo, Kawakubo accentua questo aspetto fino a creare delle vere e proprie opere d’arte: con l’arte, d’altronde, la stilista celebrata dal MET ha sempre mantenuto un feeling speciale. Basta pensare alla campagna pubblicitaria Comme des Garçons dell’ ’89 con Francesco Clemente come protagonista o a quella che, nel ’93, Cindy Sherman imbastisce sui propri self-portraits concettuali. Le contaminazioni tra arte, moda e cultura sono una costante dell’ incessante ricerca di Rei Kawakubo: dal suo immaginario fertile scaturisce un tripudio di iniziative e di intuizioni. Comme des Garçons è ormai un brand che coinvolge il suo universo creativo a 360°: nel 1988 nasce Six, la rivista biennale del marchio, a cui fa seguito una linea di profumi che dal 1994 anticipa il trend “no-gender” proponendosi in versione esclusivamente unisex, le magnifiche advertising campaign vengono firmate da top names della fotografia quali Paolo Roversi e Juergen Teller.

Blood and Roses, spring/summer 2015. Photo by © Paolo Roversi; Courtesy of The Metropolitan Museum of Art

L’ eclettismo di Rei Kawakubo, così come la sua ispirazione, non ha confini e si traduce inoltre – citando un ulteriore esempio – nell’ ideazione del Dover Street Market, noto tempio del luxury retail che si disloca oggi tra Londra, New York, Pechino e Tokyo.  L’ inventiva della designer si dirama in molteplici direzioni, tutte rigorosamente associate da un denominatore comune: la ricerca del nuovo in senso assoluto. Un obiettivo che ha pienamente centrato, a cominciare dalla moda. “Non esistono limiti” – come ha dichiarato Kawakubo stessa – “Cerco di fare abiti che non sono mai esistiti prima”.

Blue Witch, spring/summer 2016. Photo by © Paolo Roversi; Courtesy of The Metropolitan Museum of Art

La mostra è corredata da un catalogo, a cura di Andrew Bolton, che raccoglie scatti originali di Paolo Roversi, Nicholas Alan Cope, Inez & Vinoodh, Craig McDean, Kazumi Kurigami, Katerina Jebb, Collier Schorr, Ari Marcopoulos e Brigitte Niedermair.

“Rei Kawakubo/Comme des Garçons: Art of the In-Between”

Dal 4 Maggio al 4 Settembre 2017

Metropolitan Museum of Arts, 1000 5th Avenue, New York

Per info: www.metmuseum.org

Blue Witch, spring/summer 2016. Photo by © Paolo Roversi; Courtesy of The Metropolitan Museum of Art

Body Meets Dress–Dress Meets Body, spring/summer 1997. Photo by © Paolo Roversi; Courtesy of The Metropolitan Museum of Art

Body Meets Dress – Dress Meets Body, spring/summer 1997. Photo by © Paolo Roversi; Courtesy of The Metropolitan Museum of Art

18th-Century Punk, autumn/winter 2016–17. Photo by © Paolo Roversi; Courtesy of The Metropolitan Museum of Art

18th Century Punk, autumn/winter 2016–17. Photo by © Paolo Roversi; Courtesy of The Metropolitan Museum of Art

Cubisme, spring/summer 2007. Photo by © Craig McDean; Courtesy of The Metropolitan Museum of Art

Inside Decoration, autumn/winter 2010–11. Photo by © Craig McDean; Courtesy of The Metropolitan Museum of Art

Photo courtesy of The Metropolitan Museum of Art

Quando il design incontra la creatività visionaria: a tu per tu con Valentina Guidi Ottobri

Photo by Matteo Carassale

Festa del Lavoro a parte, il 1° Maggio  coincide per lei con una data speciale: quella del suo compleanno. Classe 1988, fiorentina, Valentina Guidi Ottobri si accinge infatti a spegnere 29 candeline. Questa intervista, oltre a tracciarne un ritratto, vuol essere dunque una dedica ad un giovane e già affermatissimo talento creativo italiano:  travolgente, entusiasta, intuitiva, Valentina è da tre anni la Home buyer di Luisaviaroma, ma il suo ruolo spazia attraverso skills trasversali che mettono in gioco a 360° la sua inventiva.  Negli editoriali che concepisce per il brand, l’ interior design si interseca con la moda e con l’ arte in maniera costante, come ad instaurare un’ inedita dimensione estetica. Suggestioni, reminescenze, una miriade di spunti ispirativi affollano l’ immaginario di questa ventinovenne con un senso dello stile innato e l’ estro nel DNA: figlia di un architetto anticonformista e discendente da una famiglia di collezionisti d’arte, Valentina ha respirato creatività e amore per il bello sin dall’ infanzia. Oggi, con esperienze professionali che approdano al design dal fashion world, mette le sue doti al servizio di progetti innovativi e di un “mecenatismo” che la vede coinvolgere i new talents in iniziative e mostre delle quali è curatrice.  Il “fiuto” non le manca, e insieme all’ empatia rappresenta uno dei suoi principali atout. Non è un caso che, nonostante i traguardi raggiunti, “altezzosità” sia un vocabolo a lei sconosciuto: la fame di conoscenza, lo spirito eclettico, la continua ricerca di stimoli la tengono costantemente connessa all’ universo che la circonda. Un universo che non contempla preconcetti nè barriere di sorta. Prima di dare il via alle domande, non mi resta che concludere con un “Buon Compleanno, Valentina!”

Come è iniziata la tua avventura in LVRHome?

La mia avventura inizia quando il proprietario di Luisaviaroma, Andrea Panconesi, approva il mio progetto dedicato al mondo del design. Il reparto Home di LVR rappresenta una visione “lifestyle” che ci siamo voluti conquistare. Prima che iniziassi il mio progetto, Luisaviaroma vendeva solo moda. Dal punto di vista creativo ho dovuto inventarmi un nuovo story-telling che unisse moda e mondo arredo, fatto, per come lo intendo io, da oggetti iconici. Oggetti che, anche da soli, raccontano una storia. Ne è uscito fuori qualcosa di inconsueto e al tempo stesso molto potente.

Tra queste tre definizioni: “visionaria”, “creativa”, “innovatrice”, qual è quella che più ti si addice?

Con la mia immaginazione sono capace di creare mondi paralleli dove mi piace passeggiare per molte ore del giorno e della notte. Cerco di possedere ogni sogno per far sì che le ispirazioni mi restino stampate nella mente. Le idee sono tutto, mi inebriano con la loro magica atmosfera e mi danno l’energia necessaria per trasformarle in qualcosa di reale che abbia il loro stesso aspetto. Per rispondere alla domanda, visionaria.

Qual è il tuo approccio nei confronti dell’home design? Quali sono gli atout su cui punti e quali gli obiettivi che ti prefiggi?

I punti che caratterizzano il mio progetto sono certamente il rapporto privilegiato con i designers e gli shooting che si distinguono per la loro visione life-style tra moda e design. L’obiettivo più grande adesso sta nel conquistarci il mondo degli architetti e degli interior-designer.

Come nasce, per te, l’ispirazione?

Viviamo in un’era di contaminazioni. Arte, moda e design si contaminano a vicenda attraverso simboli ed espressioni. I miei lavori creativi riflettono la convivenza di percezioni visive derivanti da questi 3 settori. Poi ci sono i film, una delle mie più grandi passioni. I miei registi preferiti sono Woody Allen, per l’ironia con la quale dissacra ogni luogo comune, David Lynch tra  incubi sperimentali e loop ossessivi, Fellini per il suo romanticismo e Herzog con la sua poetica rarefatta.

Il tuo CV include anche un’esperienza a Mumbai, in India, nelle vesti di stylist per Marie Claire. Come hai vissuto quel periodo e cosa ti ha lasciato dentro?

Il periodo in cui vivevo a Mumbai è stato uno dei più estremi e appassionati della mia vita. Abitavo a Juhu e ogni mattina per andare in redazione prendevo un “Tuk-tuk”. Da quel piccolo mezzo così rumoroso e aperto si poteva godere di tutto quello che capitava in strada. Odori, colori, suoni, sbadigli, risate, preghiere, mercanzie, street food, è tutto molto intenso. All’inizio è uno shock vedere bambini storpi che chiedono l’elemosina, corvi che mangiano i cadaveri dei cani, le mucche, le galline, il traffico, lo sporco, la folla, il cibo cucinato per terra. Solo in seguito ti rendi conto che non c’è niente di pericoloso in quel disagio ma che la vita indiana si svolge per la strada. Solo allora inizi ad appassionarti ai dettagli che si stagliano in mezzo al caos: gli occhi neri intensi di donne bellissime , i colori sfavillanti: il verde mela, il fuchsia, il giallo, il rosso, l’arancio, e poi i canti che provengono dai templi, i fiori e i gioielli.  L’India mi ha lasciato tanto, tante emozioni e suggestioni di cui cerco di far tesoro ogni giorno.

Ritratto by Chiara Rigoni

Trend nel design e nel fashion: la “velocità” è un leitmotiv comune?

Il mondo del design è molto più lento rispetto alla moda, vive di un gusto più autentico e canoni estetici più definiti. Ci sono tanti prodotti che una volta comprati durano per sempre.

Da sempre sei impegnata nel sostegno dei talenti. In che direzione sta andando questo tuo percorso?

In Italia abbiamo tanti giovani talentuosi, a cui non viene dato lo spazio che meriterebbero. Non esistono dei veri e propri direttori creativi, come nel mondo della moda, strapagati e in grado di decidere su tutto. Nel design i creativi disegnano prodotti molto diversi tra loro seguendo gli obiettivi delle diverse aziende per cui lavorano e guadagnando, nella maggior parte dei casi, royalties bassissime. E’ da questa carenza che nasce la mia idea di progetto per LVRHome: dare modo ai designer di firmare il proprio catalogo ed uscire con il proprio nome accanto ai brand più celebri come Flos, Kartell, Fornasetti, Vitra. Queste capsule collections sono frutto molto spesso di auto -produzioni o piccole produzioni in collaborazione con vari artigiani che sono loro stessi a trovare. Online si trovano già le collezioni di:

CTRLZAK
Lanzavecchia + Wai
Marcantonio Raimondi Malerba
Matteo Cibic
Maurizio Galante
Vito Nesta
Zanellato e Bortotto

Prossimamente si aggiungeranno anche: Marco Parmeggiani, Federico Pepe, Elena SalmistraroLorenza Bozzoli. Con tutti loro ho dei buonissimi rapporti, li stimo molto e in alcuni casi sono nate delle vere e proprie amicizie. Mi faccio “paladina” dei loro interessi e nel prossimo futuro vedo progetti ancora più grandi fatti in collaborazione con Gallerie e Fondazioni legate all’arte con installazioni a giro per il mondo.

Photo by Matteo Carassale

Il connubio tra arte e design è una costante che si traduce anche nella tua attività di curatrice. Che ci racconti al riguardo?

Il lavoro come curatrice non è troppo lontano da quello che faccio come Creative Director, quando mi chiamano per realizzare una campagna pubblicitaria o per una consulenza. Costruisco un mondo e poi lo descrivo. Quello che più mi appassiona è un concetto espresso in modo totalizzante. E’ la persecuzione di un’ideale estetico e/o culturale che si manifesta con un risultato unico, coerente in ogni dettaglio. A giugno curerò una mostra sulla defezione estetica, il tradimento della forma e la rivalutazione dei contenuti. Si intitolerà DIVINA SPROPORZIONE e tratterà diversi temi: la vecchiaia, la malattia, gli Dei , la mitologia in un parallelismo tra classico e contemporaneo.

Oggi festeggi il tuo 29mo compleanno ed io, oltre a farti un mondo di auguri, ti chiedo: qual è il tuo bilancio? C’ è qualcosa che vorresti aggiungere, variare, eliminare nella tua traiettoria esistenziale (o professionale, a scelta)?

Happy b.day to me! Sono felice di quanto raccolto e imparato fino a qui. C’è ancora tanto da fare e e questa inconscia consapevolezza mi crea molto entusiasmo e voglia di mettermi alla prova.

Photo courtesy of Valentina Guidi Ottobri

Per saperne di più:

www.valentinaguidiottobri.com

www.luisaviaroma.com

“Photography: 4 ICONS” da oggi in mostra a Bologna

Rajasthan, India, 1983 © Steve McCurry

 

Chi ama la fotografia d’Arte, e sottolineo Arte con la A maiuscola, non può lasciarsi sfuggire questo appuntamento imperdibile: a Bologna, negli spazi di ONO Arte Contemporanea in via Santa Margherita 10, è fissato alle 18,30 l’ opening della mostra Photography: 4 ICONS. Steve McCurry, Christian Cravo, Gian Paolo Barbieri, Eolo Perfido.  L’ esposizione, organizzata da ONO Arte in collaborazione con Sudest57, fino al 27 Maggio 2017 metterà a confronto 4 grandi Maestri della fotografia contemporanea evidenziando le concezioni e gli stili tramite cui si approcciano all’ espressione artistica.

Italy; 2012© Steve McCurry

STEVE MCCURRY, uno dei fotografi più autorevoli al mondo, è solito utilizzare forme e cromie quasi di stampo pittorico. Le sue foto raccontano storie: i suoi celebri ritratti, con i protagonisti che puntano immancabilmente lo sguardo verso l’ obiettivo, racchiudono un vero e proprio universo di eventi e di percorsi: spetta a McCurry il compito di indagarlo a fondo. La sintesi è il denominatore comune dei suoi paesaggi e dei suoi scatti di reportage, dove “natura” e “uomo” incarnano una dicotomia costante tra “naturale” versus “artificiale”.

Jodhpur, Rajasthan, India, 2007 © Steve McCurry

 

EOLO PERFIDO è ritrattista, fotografo pubblicitario e street phographer tra i più stimati e celebri. La sua serie Clownville ha come leitmotiv la maschera. Una maschera che più che coprire rivela, convoglia in superficie il lato più oscuro ed intimo dei soggetti immortalati. Il tema, lungi dal rimanere circoscritto all’ “individuale”, diviene “universale”: in quei personaggi potremmo identificarci, la loro perturbante realtà potrebbe essere la nostra. Il realismo sprigionato dagli scatti di Perfido è indiscutibilmente potente.

  Rocker © Eolo Perfido

GIAN PAOLO BARBIERI è il top name della fotografia di moda italiana, internazionalmente celebrato da icone del calibro di Diana Vreeland, Yves Saint-Laurent e Richard Avedon. Eleganti, raffinati, i suoi scatti sono un tripudio di immaginifica e scenografica compostezza formale. Nei ritratti di Barbieri il soggetto è il protagonista assoluto di una narrazione che l’ obiettivo riassume in un incipit, lasciando intravedere uno snodo più complesso.

Rainbow © Gian Paolo Barbieri

CHRISTIAN CRAVO, classe ’74, nato da madre danese e da padre brasiliano, vanta un upbringing nel più effervescente ambiente artistico di Salvador di Bahia. In Danimarca, dai 13 anni in poi, inizia la sua liason con la fotografia e con le sue tecniche. Le immagini di Cravo traducono in un bianco e nero incisivo tutta la possente forza insita nel dato naturale. La sua è una fotografia dalle linee pure, pervasa da un formalismo che traspone la realtà in un reportage dove l’ unicità e l’ eccezionalità dei soggetti emergono  con grande vigore espressivo.

Elephant and Calf, Kenya 2011© Christian Cravo

La mostra, patrocinata dal Comune di Bologna, si compone di 25 fotografie e di una collezione di Art Box che Anders Weinar ha disegnato e personalizzato per ciascun autore: ogni Art Box include 5 stampe fine art ed è prodotta in 7 edizioni.

Per saperne di più:

www.onoarte. com

www.icons57.com

www.sudest57.com

Photo courtesy of ONO Arte Bologna