“Judy”, lo struggente biopic su Judy Garland

 

” Somewhere over the rainbow
Bluebirds fly
And the dreams that you dream of
Dreams really do come true “

(Da “Over the Rainbow”, che Judy Garland canta ne “Il Mago di Oz”)

 

Forse, Judy Garland non aveva mai covato il sogno di diventare un’attrice. Per lei, figlia di due performer del vaudeville, debuttare sul palco di un teatro era stato naturale, quasi ovvio. Ce lo conferma Oriana Fallaci nel libro “I sette peccati di Hollywood” (1958), dove la Garland così si esprime durante un’ intervista: ” Non avevo mai chiesto di diventare una attrice. Non sono mai stata bella, non sono mai stata una Duse e tutto quello che so fare è cantare. Ma decisero di farmi diventare un’attrice da quando avevo dieci anni e cantavo con papà e le sorelle in teatro. Mi vide un tale della MGM e poi mi fece un provino e io divenni proprietà della MGM. ” Così ebbe inizio la carriera di una delle più leggendarie icone della storia del cinema. Nel 1939, quando uscì “Il Mago di Oz” di Victor Fleming, Judy aveva già preso parte a tre film e la sua fama si era diffusa in tutti gli Stati Uniti, ma fu il ruolo di Dorothy a consacrarla giovane stella del panorama hollywoodiano. La Garland aveva appena 17 anni, e un anno dopo il film di Fleming le valse un Oscar Giovanile. Pare, però, che proprio durante la lavorazione de “Il Mago di Oz”, per mantenersi in forma e sostenere i ritmi pressanti del set, venne spronata ad assumere quegli psicofarmaci che si tramutarono in una costante della sua vita. Una costante nefasta, naturalmente, che 30 anni dopo contribuì a determinare il suo declino. E’ a questo periodo che fa riferimento “Judy”, il biopic di Rupert Goold appena uscito nelle sale. Una straordinaria Renée Zellweger veste i panni della Garland nel suo ultimo anno di vita, il 1969: a quell’ epoca, l’ ex “enfant prodige” annoverava nel curriculum quasi 40 pellicole, due nomination degli Academy Awards e un Golden Globe, ma l’esistenza che conduceva era tutto fuorchè dorata.

 

Un ritratto fotografico di Judy Garland

Quattro divorzi sommati ad anni di eccessi, abuso di farmaci e depressione l’ avevano segnata fisicamente e psicologicamente, con gravi ripercussioni sulle sue condizioni economiche. La nomea di “inaffidabile” la rincorreva e diradava i contratti cinematografici, le banche si rifiutavano di erogarle prestiti. Sola e con i figli Joey e Lorna a carico (era in lotta per la custodia con l’ex marito Sidney Luft), licenziata dalla Metro-Goldwyn-Mayer dopo il flop del film “L’allegra fattoria” (1950), nel 1969 Judy Garland decise di volare a Londra per una serie di concerti destinati a rilanciare la sua carriera. Seppure a malincuore, si separò dai figli e da Mickey Deans, un uomo d’affari che divenne il suo quinto marito. Nella capitale inglese, accudita dall’ onnipresente assistente Rosalyn, l’ attrice firmò un contratto di cinque settimane per esibirsi nel nightclub “The Talk of the Town”: furono serate in cui eccezionali performance e crolli emozionali si alternarono a ritmo continuo. In parallelo con questa caotica fase esistenziale, il film mostra la Judy “del successo”, l’ adolescente che nel 1939 conquistò il pubblico dopo il lancio in grande stile che organizzò per lei la Metro-Goldwyn-Mayer. Ma dietro al glamour hollywoodiano, al di là della parvenza della perfezione, non era esattamente oro tutto quel che luccicava. Per “creare” i loro divi, le major ne pianificavano la vita a trecentossessanta gradi. Raggiungere la fama era un obiettivo perseguito attraverso vere e proprie macchine da guerra, che non di rado stritolavano le star in erba: costretta a una dieta perenne, calata in una quotidianità in cui le torte di compleanno erano fake per ostentare sfarzo, Judy Garland scoprì ben presto l’altro volto del successo.

 

Da “Il Mago di Oz” di VictorFleming (1939)

Snodandosi sui due piani temporali del 1939 e del 1969, che continuamente alterna, il film mette  a raffronto la Judy degli esordi con quella del crepuscolo, intrappolata nella sua spirale autodistruttiva. All’eccesso di controllo a cui venne sottoposta durante l’ adolescenza si contrappone il subbuglio emotivo degli “anta”: come filo conduttore, un talento che si accompagna a una sensibilità finissima, a un costante bisogno di amore.  Delle doti che se da un lato “nutrono” l’artista, dall’ altro finiscono per scontrarsi con il mondo sfavillante, certo, ma spesso anche spietato dello show business.

 

Dal film “Nuvole Passeggere” (1946), registi vari

Adattato dalla pièce teatrale “End of the Rainbow” di Peter Quilter, “Judy” (guarda qui il trailer) ha già fatto l’ en plein di premi in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Una menzione speciale va a Renée Zellweger, che si è calata perfettamente nel ruolo della protagonista: un’ interpretazione, la sua, talmente fedele di Judy Garland da rievocarne persino la gestualità e il modo di parlare. Nei paesi anglosassoni, dove il film è già uscito da mesi (a Settembre negli USA, a Ottobre nel Regno Unito), i riconoscimenti di cui la Zellweger è stata insignita sono innumerevoli. Per citane solo alcuni, la candidatura al Premio Oscar 2020 come migliore attrice, il Golden Globe e il Premio BAFTA 2020. Senza tralasciare, inoltre, la standing ovation interminabile che le è stata tributata al Toronto International Film Festival: il meritato elogio alla verve drammatica di un’attrice che, nel 2001, il mondo aveva imparato a conoscere nelle vesti della buffa e pasticciona Bridget Jones.

 

Al Greek Theater di Los Angeles nel 1957

Con John Hodiak nel film “The Harvey Girls” (1946)

 

 

Ritratto a colori di Judy Garland via Kate Gabrielle from Flickr, CC BY 2.0

 

“Haunted” di Antonio Marras: quando la moda si fa performance art

Negli spazi della Triennale, dove si snoda il percorso espositivo di Nulla Dies Sine Linea, Antonio Marras ha presentato la sua collezione AI 2017/2018: per la prima volta le creazioni Uomo e Donna hanno sfilato insieme, e si è trattato di un debutto d’eccezione. Il Marras artista celebrato dalla mostra ha tramutato l’ allestimento in una location onirica, suggestiva, spettrale. O meglio Haunted, come ha intitolato la performance che ha tradotto il suo fashion show in una vera e propria pièce teatrale. Antonio Marras ci trasporta in Scozia, nel castello fatato dove visioni, reminescenze e fantomatiche creature si succedono in un pot-pourri che rievoca le atmosfere di Edgar Allan Poe: scenari in cui tutto è immateriale e la realtà sconfina con il sogno. A far da sottofondo, sonorità inquietanti che alternano il rigoglio dell’ acqua a porte che scricchiolano, a vetri che si infrangono, alle note di un pianoforte lontano. E poi, all’ improvviso, una risata sinistra, l’ eco del latrato di un cane: frammenti di ricordi, apparizioni che mescolano il vissuto all’ intangibile calando lo spettatore in un non-luogo dal potente impatto visivo. Al suo interno, si susseguono misteriose presenze e apparizioni: giovani uomini che lanciano aereoplanini di carta, enigmatiche donne in veletta, fanciulle sdraiate su superfici a specchio come eteree ninfe, i gendarmi di Pinocchio con lo sguardo celato da occhialini alla John Lennon.

 La sartorialità dei look è impeccabile, il rétro una costante: se gli scolari indisciplinati indossano suit con pantalone corto, cappotti e parka dal sapore Mod, le “jeunes filles d’antan” sfoggiano long dress a balze con stampe floral, kimono, damascati rifiniti in lamè, tessuti impalbabili riccamente lavorati ed incrostati di paillettes. L’ itinerario prosegue tra figure maschili in coat o chiodo impreziositi da ricami, individui “senza volto”, ragazze che giocano a mosca cieca in ricercati abiti con tanto di “farfalle” applicate. Ovunque spuntano cappelli, copricapo e turbanti con l’ immancabile veletta. Su due scale a pioli, irriverenti, due uomini mangiano il lecca-lecca facendo sberleffi mentre a pochi passi di distanza, tutta tulle e ricami color crema, ecco apparire una sposa.

Maschile e femminile non conoscono barriere nè differenze, si fanno portatori della stessa eleganza estrosa che al leopard print accosta pattern a contrasto e nei ricami floral persino sul completo da caccia incarna un suo leitmotiv. Ai dettagli in pelliccia, ricorrenti, si alterna la sofisticatezza di capi come il cappotto da uomo con mantella, il preziosismo dei decori è minuzioso. Un’ ultima, onirica visione prima di quella di un appassionato ménage à trois: simile a una gigantessa, una donna barbuta sferruzza un’ enorme massa di lana grezza. L’ apparizione è surreale, quasi felliniana. In sottofondo, una porta si chiude e scricchiola: la nostra magica avventura è giunta al termine.

Per vedere il video della performance e della collezione: https://www.antoniomarras.com/