Primavera

 

“…allora posai i vestiti sull’erba e prima di entrare nel fiume guardai il colore che ci lasciava il sole e il colore che ci lasciava il cielo e la luce tutta che era ormai diversa, perchè la primavera era iniziata dopo aver vissuto nascosta dietro la terra e dentro i rami. Entrai nell’acqua piano piano, senza il coraggio di respirare, e sempre con la paura che, appena entravo nel mondo dell’acqua, l’aria, svuotata dal fastidio che ero, si arrabbiasse e , diventata vento, soffiasse forte come d’inverno, quando quasi spazzava via le case e la gente. Avevo cercato la parte più ampia del fiume, la più bassa, la più lontana dal paese, dove non andava praticamente mai nessuno, perchè non volevo che mi vedessero. L’acqua scorreva sicura di sé, di quel peso che le veniva dalla neve delle montagne e da tutte le sorgenti che fuggivano dall’ombra attraverso un foro nella roccia. Fusa per la frenesia di fondersi, l’acqua formava il fiume. Poco dopo aver superato le stalle e il recinto dei cavalli mi ero accorto che un’ape mi seguiva insieme al fetore di sterco e all’odore dei glicini che stavano fiorendo. L’acqua era fredda, la fendevo con le braccia, la pestavo con i piedi, chiazzata dal sole che nasceva oltre le Pietre Alte con la smania di volare. Ci infilai la testa perchè l’ape perdesse le mie tracce; sapevo bene che certe api vecchie di sette anni erano più che astute. Dentro era torbido, una nube di vetro, e mi fece pensare alle sfere di vetro nei cortili, sotto i pergolati di glicine robusto, di quei glicini che scendevano lungo le case. Ogni primavera le dipingevamo del colore della rosa e per questo la luce del paese sembrava diversa, inebriata com’era dal rosa delle case. D’inverno, al chiuso delle sale da pranzo, rosse del fuoco che fuggiva su per il camino, facevamo i pennelli con le code dei cavalli, e i manici di legno che poi legavamo con il fildiferro. Quando erano pronti li mettevamo al sicuro e partivamo, uomini e ragazzi, a cercare la polvere rossa della Maraldina, la montagna coperta di eriche con in cima l’albero rinsecchito e il vento che fischiava tra i cespugli. (…) Appena tornati in paese lasciavamo i sacchi sotto la tettoia, aspettavamo il bel tempo per mescolare la polvere rossa con l’acqua e facevamo la pittura rosa che poi l’inverno cancellava.”

Mercé Rodoreda, da “La morte e la primavera” (Edizioni La Nuova Frontiera)

 

Jonna Jinton Sweden: incantevoli gioielli argentei che brillano nelle lande del Nord

Jonna Jinton

Sui suoi gioielli spira l’incantata aria del Nord: quella che si insinua tra i fitti boschi, increspa le superfici dei laghi, agita le fiamme dei falò. E’ un’aria impregnata di un’atmosfera fiabesca, che in Inverno, con la prima neve, si accentua mentre il buio avanza e il sole tramonta sempre più presto. Ci troviamo in Svezia, nel cuore della Scandinavia, e ad accompagnarci in questo viaggio è Jonna Jinton, artista e YouTuber originaria di Gothenburg ma trasferitasi nelle lande settentrionali del Regno quando aveva 21 anni. Lì, circondata da un paesaggio naturale mozzafiato, ha cominciato a dedicarsi all’ arte in svariate forme: fotografia, pittura, scrittura, musica, ripresa cinematografica e, non ultima, la creazione di gioielli. Ma soprattutto ha abbracciato lo stile di vita che ama di più al mondo, a contatto con la natura selvaggia e con il susseguirsi delle stagioni. Foreste popolate da una fauna che include lupi e renne, immensi laghi, la spettacolare aurora boreale, una distesa di ghiaccio che di notte “canta” emettendo particolarissimi suoni sono scenari di cui Jonna può godere semplicemente affacciandosi alle finestre della sua casa-laboratorio.

 

 

L’ avventura della gioielleria è iniziata nel 2009. Dopo aver appreso le tecniche della lavorazione dell’argento, l’artista svedese ha fondato una piccola impresa artigiana dove, in società con sua madre Anita, vendeva i monili che insieme realizzavano a mano. A uno stop di qualche anno è seguita una ripresa dell’attività. Nel 2018 Johan, il marito di Jonna, si è unito alla società ed è nato Jonna Jinton Sweden, un brand che oggi si avvale di un discreto numero di argentieri e dipendenti. I gioielli in argento di Jonna Jinton sono realizzati e prodotti a Skultuna, nella Svezia centrale; la spedizione della merce in tutto il mondo viene invece effettuata nel villaggio di Myckelgensjö. Per acquistare queste meravigliose creazioni di stampo vichingo, infatti, basta accedere al sito web di Jonna Jinton. La sezione “Jewelry” ospita la sua collezione: una serie di orecchini, anelli, collane e bracciali ispirati alla tradizione nordica e alla magia naturale e faunistica svedese, ma anche a concetti motivazionali ben precisi. Qualche esempio? La linea Wild si rifà ai palchi, le “corna” ramificate delle renne, e ne riproduce la forma forgiandola in argento, mentre la scritta “Be like the bison”, incisa su collane e braccialetti, è un invito ad affrontare le tempeste della vita come fa il bisonte, che non indietreggia mai davanti alla bufera.

 

 

All’argento vengono spesso accostate pietre come il quarzo, il cristallo austriaco, il larimar e la labradorite: secondo antiche leggende artiche, quest’ ultima deriverebbe dai fuochi dell’ aurora boreale cristallizzatisi nel ghiaccio. Il suo colore, una nuance di blu splendente, fa sì che venga definita un “frammento del cielo nordico di notte”. Il cristallo austriaco, invece, viene ribattezzato Aurora Borealis per i riflessi cangianti che ricordano le luci del suggestivo fenomeno ottico. Ma l’argento stesso rimanda al Grande Nord. E’ un colore lunare, associato alla luna, che si addice ai paesaggi innevati e alle interminabili notti dell’ Inverno scandinavo. Simbolicamente, rappresenta il viaggio che dall’ interiorità sfocia verso l’esterno; un punto di partenza necessario, perchè solo conoscendo molto bene noi stessi possiamo imparare a conoscere ciò che ci circonda. Nella stessa direzione vanno i gioielli ispirati all’ antica tradizione scandinava: amare quella terra straordinaria che è la Svezia significa conoscerne le radici, incantarsi ad ascoltare un canto millenario tramandato dal cielo eterno.

Il sito web di Jonna Jinton Swedenhttps://jonnajintonsweden.com/

Il canale You Tube di Jonna Jinton: https://www.youtube.com/c/jonnajinton

 

Wild – Orecchini

Wild – Anello

Wild – Collana

Bison – Collana

Ancient – Anello

Andromeda – Collana

Andromeda – Orecchini

Berg – Anello

Body, Mind, Soul – Orecchini

Fjall – Collana

Rimfrost – Anello

Aurora Borealis – Collana

Perfect Imperfect – Anello

Ice – Orecchini

Ice – Collana

Guardian – Anello

Origin – Bracciale

Eternity – Orecchini

Eternity – Braccialetto

Celestial – Anello

Way of the Heart – Collana

Fjall – Anello

Fjall – Collana

Rose Quartz – Collana

Destiny – Bracciale

Freyja – Bracciale

Freyja – Orecchini

New Path – Anello

 

 

L’arte come equivoco: conversazione con Carlo Cecchi

 

Incontro Carlo Cecchi a Fabriano, nella Sala Guelfo, lo spazio adibito alle mostre all’ interno del chiostro della Cattedrale di San Venanzio.  E’ qui che si è appena conclusa “Il passo del cielo”, un’ esposizione che concentra alcuni temi ricorrenti nell’opera dell’ artista jesino: nei 20 disegni realizzati a carboncino predominano un fiabesco bestiario, corpi celesti dispersi nell’ universo, scritte di matrice concettuale. Solo due colori: il bianco e il nero, alternati sullo sfondo giallognolo della carta da spolvero. A fare da leitmotiv è una visione del cosmo che il segno grafico di Cecchi rende fortemente onirica, evocativa. La sua surreale fauna fluttua in una galassia costellata di aloni neri, di volta in volta fitti o più radi. Le scritte sorprendono, confluiscono in uno spazio mentale dove si addensano gli interrogativi. “Questo lavoro”, scrive la storica d’arte Francesca Pietracci nel testo critico della mostra, “sembra condensare lo scibile umano, la sua evoluzione, la sua percezione, l’ incanto di una mano di talento guidata dagli occhi stupiti di un bambino. Quasi come di fronte ad un nuovo anno zero del cosmo…tutto rimane ancora da scoprire.” Le affascinanti suggestioni che questi motivi ispirano rappresentano solo uno degli spunti da cui è scaturita l’intervista che vi propongo oggi. L’ universo di Carlo Cecchi merita senz’ altro un approfondimento, e il Maestro risponde alle mie domande di buon grado: emozioni, frammenti di vita, memoria, paesaggi fisici e morali,  reminescenze di un’ umanità variopinta si fondono in un racconto dove tutto riconduce all’arte nella sua più profonda accezione.

Se dovessi presentarti ai lettori di VALIUM in poche righe, come esordiresti?

E’ sempre più difficile, credo, definirsi, perché questo è un mondo in cui tutti sembra che facciano e sappiano di tutto: sono tutti artisti, tutti allenatori di calcio, tutti d’avanguardia…Sono tutti molto belli, anche. Vanno tutti in palestra! Carlo Cecchi è un artista, un pittore soprattutto. Quando parlo di pittura parlo anche del disegno, che amo moltissimo. Forse amo più il disegno della pittura. Ma come diceva il mio amico Dino De Dominicis, “La pittura è la cosa più moderna che c’è proprio perché è la più antica.” Quindi sono un pittore, perché credo che il silenzio che contrassegna l’immagine fissa dia ai cosiddetti fruitori – un termine che mi fa pensare ai fruttivendoli, tra l’altro, per cui oserei dire “fruttitori” – possibilità il meno oggettivo possibili. Oggi si tende ad essere sempre più didascalici, addirittura a spiegare quello che si vede a occhio nudo. La pittura, e più che mai il disegno, invece, ha innanzitutto la possibilità di essere permeabile: attraverso il disegno si passa da un’altra parte, si va oltre. Non è mai descrittivo, perché in quel caso si rientrerebbe nell’ambito della didascalia, cioè dello spiegare. Più che “spiegare” mi ha sempre affascinato “piegare”. L’arte non va “spiegata”, va “piegata”. Come un fazzoletto…”Piegare” significa, in realtà, “nascondere”: la pittura deve nascondere, non evidenziare. La pittura è un luogo nascosto…non chiedermi di spiegare di più perché diventerei didascalico a mia volta. Durante una mia mostra scrissi una parola, “rivelazione”. La rivelazione, che per il vocabolario è uno “svelare”, a mio parere  è “velare ancora”: “ri-velare”, come “ri-vedere” cioè vedere due volte, significa moltiplicare i veli. Secondo la cultura araba, puoi vedere gli angeli solo se riesci a svelare 77 veli…Dunque a me piace molto rivelare, cioè nascondere.

 

“Il passo del cielo”, 2017

 

Quando e come è iniziata la tua liason con l’arte?

A scuola io sono sempre stato bocciato in disegno, forse perché non mi interessava. Che in realtà il disegno mi piacesse l’ho capito solo molto tempo dopo. Mia madre era una grandissima disegnatrice: quando io e i miei fratelli avevamo l’influenza, si metteva accanto al nostro letto e ci disegnava le storie degli inquilini del palazzo. C’era il bidello, c’era la nutrice…L’ infanzia l’ho vissuta in un quartiere nel cuore di Jesi, ero sempre in mezzo alla strada. La mia cultura si è forgiata tra gli artigiani, i negozianti, le prostitute…Ce n’erano ancora parecchie, in giro, nel dopoguerra. La sezione del Partito Comunista era attaccata alla chiesa, per cui eravamo trasversali: giocavamo a ping pong in parrocchia e dopo, magari, andavamo a vedere le partite a biliardo nella sezione. Indubbiamente, non mi sono mai interessato all’arte. Poi, dopo essere stato bocciato per tre anni di fila all’istituto tecnico industriale, ho seguito il consiglio di un mio amico batterista che mi ha suggerito di iscrivermi all’Istituto d’Arte di Ancona. Lì ho incontrato gente molto in gamba, in particolare due professori: il mio insegnante di Storia dell’Arte veniva da Roma ed era molto amico di Burri, di Guttuso, che andavano a trovarlo in albergo. Una volta me li ha anche presentati. E poi c’era il professore di Disegno dal Vero, che mi ha insegnato davvero tutto…Dopo il diploma mi sono iscritto all’ Accademia di Belle Arti, dove si faceva avanguardia. Erano gli anni dell’Arte Povera, dell’Arte Concettuale. Eravamo tutti un po’ concettuali…Alla fine dell’Accademia ho presentato la mia prima mostra a Bologna: concettuale, naturalmente. Sul muro, con una matita blu avevo tracciato una scritta che diceva “cielo mare cielo mare all’orizzonte”. Sempre a Bologna, ho gettato un drappo sul pavimento della Galleria e ho intitolato quella mostra “Raso al suolo”, con un significato doppio. Nel ’76, quando ancora non dipingeva nessuno, ho inaugurato la mia prima mostra di pittura. Ecco, ora vorrei raccontarti qualcosa di molto importante: vicino a Palazzo Ripanti, dove c’è il mio studio, quando ero ragazzino a Jesi c’era il cinema omonimo. I macchinisti tenevano la porta aperta, perché i proiettori dell’epoca riscaldavano moltissimo, e gettavano fuori i carboni che generavano l’arco voltaico. Io con questi carboni disegnavo sul pavè…Credo che l’amore per il disegno, in me, sia nato proprio allora. Tra mia madre e i carboni elettrici. Quello è stato un po’ il mio inizio.

 

“Senza Titolo”, 2013. Tempera su carta

 

Cosa rappresenta l’arte, per te?

Una bella domanda! Cos’è l’arte? Per me intanto è una possibilità esistenziale, mi ha aiutato e mi sta aiutando molto. E’ un anticorpo. E’ un modo per sporcarmi le mani e anche la mente. Argan ha detto forse la cosa più sensata che abbia mai sentito, per definire l’arte: l’arte è un fenomeno che diventa immagine. Poi, però, l’immagine diventa fenomeno a sua volta. Trovo abbastanza centrata la sua definizione. Su un piano personale, al contrario di quanto si pensi, credo che l’arte sia un linguaggio totalmente inespressivo. L’arte non ha il compito di comunicare, l’arte non comunica. L’arte sente, è una specie di alito…Come dicevo prima, l’arte non è didascalica. Non è mai stata didascalica, nemmeno in passato: c’è sempre qualcos’altro. Per citare non ricordo più chi, mi piace dire che “tutto avviene per altri motivi”. Quindi, l’arte avviene per altri motivi. Se io sono un pittore iconografico e dipingo un tavolino, come disse anche Magritte a suo tempo, “questo non è un tavolino”. L’arte è “un’altra cosa”…

 

“Il silenzio dei sassi”, 2012. Olio e tempera su legno

 

Molti critici hanno inserito le tue opere in un filone di stampo concettuale. Questa definizione ti trova concorde?

Una matrice concettuale c’è sicuramente: tra gli anni ‘60 e gli anni ‘70 eravamo tutti un po’ concettuali. I nostri amori erano Kossuth, Pistoletto, l’Arte Povera…I punti di riferimento della nostra generazione. Direi che oggi, nel mio lavoro, quella matrice è molto lontana. Mi piace dire che la mia non è un’arte concettuale, ma ingloba un segno concettuale al suo interno. A differenza dei concettuali, però, che erano tutti così “pulitini”, a me piace sporcarmi. L’arte è sporcarsi. Quindi, l’arte concettuale nel mio lavoro è presente nella misura in cui ha coinciso con la mia origine. Mi diverte raccontarti di “raso al suolo”, che era un gioco di parole. Mi piace la pittura, ma anche sconfessare l’idea che esprimo: se disegno un cavalluccio marino, ci scrivo accanto qualcosa che lo sconfessa. Oppure, lo affianco ad un’immagine che ha lo stesso scopo.

Ne “Il passo del cielo”, la mostra che hai appena presentato a Fabriano, prevale un bestiario tratteggiato con carboncino su carta da spolvero. Perché la scelta di questa visionaria fauna, e come nascono le scritte che la affiancano?

Questa fauna viene fuori da certi sogni (che non sono i sogni che faccio di notte) e da certi desideri. Il primo animale di cui mi sono occupato è stato il pinguino, perché rappresenta un po’ quello che ho appena detto. E’ elegante, sembra che porti il frac, però in realtà è goffo: basta guardare come cammina. E’ un uccello? E’ un pesce? Vive in acqua? E’ ambiguo. E siccome l’arte è ambiguità…Non è una dichiarazione di intenti, l’arte è proprio ambiguità, un errore. Una parte di queste opere l’ho presentata alla Biblioteca Angelica di Roma l’anno scorso. In quell’ occasione presentai un grande disegno, di cinque metri per due, associato ad altri, più piccoli, che raffiguravano animali. La mostra era intitolata “Cosmo-Caos-Dissonanze”,  con me c’erano anche un musicista e un attore che recitava Galileo. Le mie sono immagini di animali circondati dalle stelle, quindi c’è una sorta di rimando astrologico. Ma l’astrologia non mi interessa per niente. Quelle stelle hanno un alone nero intorno, evidenziano un’idea un po’ curiosa dell’universo. Io non sono avulso dalla realtà, parlo del mio essere nel mondo. Per cui, quando penso al cielo, penso a tutto quello che può essere legato al cielo dal punto di vista critico, come l’inquinamento. Inoltre “cielo” significa etimologicamente antro, caverna, e dichiarandomi un artista tribale io utilizzo il disegno…Il disegno è tribale.

 

“Il passo del cielo”, 2017 (particolare)

 

Questa mostra ha un gran senso tribale, mi rappresenta. Per quanto riguarda la mia relazione con gli animali, diciamo che non mi affascinano moltissimo. Mi piace la loro forma, ma difficilmente li ritraggo dal vero: i miei disegni passano sempre attraverso un filtro che potrebbe essere una fotografia, gli animaletti che trovi nei negozi per bambini…Amo il gatto, i felini. Mi piace il gatto perché è silenzioso, ha una sua autonomia, questa cifra quasi di assenza…E poi c’è l’ippopotamo. La prima volta che l’ho ritratto è stato quando, a Jesi, mi hanno chiesto di creare una scultura per una rotatoria. L’ ho inserito immaginando che in quella zona li, che è una zona industriale, ci fosse il mare. C’è stato un periodo in cui ho dipinto molti coniglietti, perché mia nonna me li portava a vedere dai suoi amici agricoltori. Mi diceva che hanno paura dell’acqua, quindi a Milano, negli anni ’80, feci una mostra dove c’erano dei coniglietti minacciati da grosse gocce d’ acqua. Nelle mie opere non c’è mai il presente, c’è o il desiderio del futuro o la memoria. Parlando di animali, ti cito la giraffa…Nel mio progetto per una scultura davanti all’ interporto, c’è questa giraffa avvolta negli scatoloni. L’ interporto è collegato ai “colli”: mi piaceva l’idea del “collo” e il gioco di parole “collo-colli”, un lungo collo di giraffa che svetta da una montagna di scatoloni di acciaio. La giraffa guarda lontano, è come un faro, vede tutto. Ma i miei animali non sono simboli, semmai segni. Preferisco l’aspetto semantico a quello simbolico. Le scritte? Sono dissociative, confondono, tendono a scombinare. Amo l’idea della scomparsa. In fondo è come dichiarare una cosa e smentirla subito dopo o in quel preciso istante. Se usi una scritta che non accompagna, bensì contraddice, crei una situazione in cui, in un attimo, dichiari e smentisci. L’arte è anche equivoco, soprattutto equivoco: è molto più interessante l’equivoco dell’oggettività. E’ un po’ come le bugie che raccontavano quando, da piccolo, mi appoggiavo sulla sponda del biliardo e guardavo i grandi giocare a boccette. In quei momenti inventavano delle storie esagerate, incredibili, prodezze sessuali mai avvenute…La menzogna è più interessante della realtà. La bellezza è questa, l’arte è questa.

 

“Lucia”, 2013. Olio e tempera su carta

 

Quali sono i leitmotiv del tuo immaginario ispirativo?               

Il mio leitmotiv ispirativo è la vita, la vita di tutti i giorni dove si mescolano la cosiddetta cultura alta con la cultura popolare, alla quale sono ancora molto legato. Bisogna vivere in mezzo alla gente, finchè avrà qualcosa da raccontare. Giorni fa ho presentato la mostra di un mio amico alla Biblioteca Angelica e mi è tornato in mente un episodio: mentre eravamo a cena insieme, lo scorso Agosto, è scoppiato un forte temporale e in quell’ istante è affiorato il progetto della mostra. Ecco, l’avversità: anche questo è un momento fondante del mio lavoro. L’arte è avversità. Perché avversità significa discontinuità: tutte le avanguardie hanno lavorato sul tema dell’avversità, cioè la discontinuità rispetto a quel che c’era prima. La natura è tutta fatta di avversità. Se entri in un bosco, ad esempio, la tensione che provi è la stessa che ti dovrebbe dare l’arte.

 

“La testa francese”, 2009. Olio su tela

 

In un’ epoca in cui predominano i crossover artistici, c’è ancora spazio per la pittura tout court?

Certo, assolutamente, c’è un grande spazio. Io sono molto attratto da tutto quello che è lontano dai miei linguaggi. Tuttavia, trovo che la maggior parte di queste operazioni abbiano carattere commerciale, siano perlopiù marketing. Amo la sobrietà, credo nella sobrietà. Il disegno, sei ci pensi, è l’arte più elementare però ha più forza di tutte. Ti dà la temperatura dell’artista: quando disegni è come quando fai l’elettrocardiogramma…

Vivi tra Jesi e Roma. A livello di suggestioni, trovi più stimolante la provincia o la metropoli?

Roma è Roma, è sempre bella. Ma può essere addirittura meno stimolante della provincia. Perché in provincia ci sono ancora delle situazioni, delle storie vere. E’ tutto piuttosto concentrato e anche l’assenza di suggestioni, comunque, può essere uno stimolo. Roma è affascinante quando la vivi con distrazione, non da turista. Bellezza a parte mi colpisce per l’umanità delle persone, un’umanità che in provincia trovo sempre meno. Nella Roma dei quartieri, come a Prati o al Rione Monti, invece c’è ancora. Oggi il modello è Milano, ma il modello di Milano è Londra, è New York, e con l’Italia non c’entra nulla. Se tu vai a Roma, in via del Governo Vecchio, accanto alla boutique di lusso trovi l’officina della moto Guzzi.  E questa commistione, secondo me, è indice di grande cultura.

 

Roma, via di Panico

 

Anche nelle nostre città di provincia, un tempo, trovavi di tutto e tutto affiancato, ma è un aspetto ormai completamente inesistente. Jesi, ad esempio, a mio parere non ha più una sua identità specifica. Dagli anni ’80 si sono ispirati un po’ tutti a Milano…Ma Milano devi viverla, non puoi “replicarla” in provincia. Le radici sono importantissime. Diciamo che i luoghi più ricchi di umanità sono quelli in cui l’arcaico si mescola al contemporaneo: è qualcosa che mi affascina profondamente. Anni fa, in provincia, era molto forte il rapporto tra città e natura, tra un sapere cittadino e un sapere del bosco. Oggi non abbiamo più un rapporto col paesaggio, ma con la memoria del paesaggio. Il paesaggio lo vediamo al cinema, in TV. Andiamo nel bosco, ma non abbiamo l’idea del bosco. “Bosco” significa anche fantasmi, gnomi, tutto il retaggio di una certa mitologia nordica. Il bosco era un posto dove si celavano grandi pericoli e grandi gioie, ai miei tempi ci si andava a fare l’amore.

 

Jesi, Palazzo Ripanti

 

Per Carlo Cecchi, in che direzione sta andando l’arte e la sua arte in particolare?

La mia, non lo so. In che direzione va l’arte? Posso dirti che nell’arte attualmente predominano due binari, ma non so dove portano: da una parte c’è la cosiddetta arte sociale, focalizzata in maniera molto didascalica su ciò che accade. Per esempio, sul tema dei migranti. Altre operazioni hanno un carattere estetico tout court; in questo mondo, d’altronde, tutto diventa estetico. In TV, anche il delitto più efferato viene seguito in un nanosecondo dalla partita di calcio, e molto spesso la gente si emoziona di più per la partita di calcio. Il gioco vale più della tragedia. Da un lato, quindi, c’è l’arte sociale, dall’ altra la decorazione. Molti giovani artisti fanno decorazione: cose che piacciono, che devono piacere, accattivanti. L’arte, però, secondo me non deve “piacere”, bensì “dispiacere”. Che non significa addolorarti, ma creare dis-piacere. Qualcosa di diverso, cioè, dal piacere.

 

“A tre quarti di latte”, 2015. Olio su tela

 

 

Foto di Palazzo Ripanti by Parsifall [CC BY-SA 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)], from Wikimedia Commons