Verso Santiago

 

“Il giorno passa, musei, strade, negozi, giornali, cala una sera con la luna e nubi veloci, non sai chi è il fuggiasco e chi l’inseguitore. E di nuovo suonano le campane, prima tre brevi rintocchi, metallo contro metallo, rumore secco, senza melodia, poi dodici rintocchi sonori che scagliano le ore sulla strada e spezzano la notte a metà: l’ora dei fantasmi. La piazza è avvolta alternatamente di luce e di oscurità, tanto che sembra anch’essa in movimento, diventa un mare e la chiesa è un rimorchiatore diretto a Occidente, un’imbarcazione che si trascina dietro un paese, un paese come una nave che è grande come un paese. Una volta Antonio Machado chiese al Duero (il poeta chiede al fiume): la Castiglia non corre sempre verso il mare, proprio come lo stesso Duero, e cioè verso la morte e quello che viene dopo? Se è vero, è a quest’ora che lo si può vedere: a Puigcerdà, a Somport, a Irùn non soltanto la Castiglia, ma tutta la Spagna si stacca ancora una volta dall’ Europa, Santiago è il capitano sul rimorchiatore, la forma nera della cattedrale traina la nave di Aragona e di Castiglia e di tutte le regioni della Spagna fino all’oceano, e, appoggiato al parapetto, tra preghiere, brindisi e gran segni di commiato, il Grande Teatro della Spagna, Alfonso il Saggio e Filippo II, Teresa di Avila e san Giovanni della Croce, El Cid e Sancho Panza, Averroè e Seneca, l’Hadjib di Còrdoba e Abraham Benveniste, Gàrgoris e Habidis, Calderòn de la Barca, gli ebrei e i mori scacciati, i roghi dell’ Inquisizione e le suore esumate della guerra civile, Velàsquez e il duca di Alba, Francisco de Zurbaràn, Pizarro e Jovellanos, Gaudì e Baroja, i poeti del ’27, le marionette di Valle-Inclàn e il cagnolino di Goya, anarchici e vescovi mitrati, il piccolo dittatore e la regina ninfomane, il castello di Peñafiel sulla sua collina color zolfo, l’Alhambra rosata e la Valle dei Morti, amici e nemici, vivi e morti. La zona in cui un tempo si estendeva la meseta ora è un mare in tempesta, il frastuono è assordante, e poi, d’un tratto, come se il tempo stesso si fermasse, tutto è finito, il viaggiatore sente i propri passi sulle grandi lastre di pietra, vede il chiaro di luna sulle torri e sui palazzi severi e sa che dietro quelle fortificazioni del passato dev’esserci un’altra Spagna che forse non vuole più conoscere la sua, oppure non sa riconoscerla. Le sue deviazioni, le sue disgressioni sono giunte al termine. Il suo viaggio in Spagna è finito.”

Cees Nooteboom, da “Verso Santiago. Disgressioni sulle strade di Spagna”

 

 

Quando intervistai Milo De Angelis

(Foto di Viviana Nicodemo)

 

Ieri pomeriggio, al Museo della Carta e della Filigrana di Fabriano, si è tenuto un incontro con il poeta milanese Milo De Angelis. L’evento faceva parte del ricco programma di “La punta della Lingua”, il festival internazionale della poesia totale giunto alla sua 18ma edizione. Avendo avuto la splendida opportunità di intervistare De Angelis nel 2015 per il settimanale fabrianese L’Azione, ho deciso di rivivere le emozioni che a suo tempo mi regalò quella conversazione: il post di oggi la riporta pari pari. Il tema approfondito nell’ intervista è l’attività di insegnante che il grande poeta ha svolto per anni all’ interno della Casa di Reclusione di Milano-Opera.

 

Milo De Angelis presentato dal poeta, scrittore e critico letterario Alessandro Moscè al Museo della Carta di Fabriano

 

Milo De Angelis, milanese, classe 1951, poeta tra i più autorevoli e rappresentativi della scena italiana contemporanea, ha all’attivo – dopo l’esordio con “Somiglianze” (1976) – una produzione di liriche assai apprezzata, intervallata da incursioni nella saggistica e nella narrativa. All’ attività di direttore della rivista “Niebo” (di poesia e letteratura) ha alternato le traduzioni dal francese e dal greco dei più prestigiosi autori alle partecipazioni, in qualità di giurato, a svariati Premi Letterari. Ma da quasi vent’anni, il vincitore dei premi Viareggio e Stephen Dedalus (rispettivamente nel 2005, con “Tema dell’ addio”, e nel 2011, con “Quell’ andarsene nel buio dei cortili”) si dedica parallelamente all’ insegnamento in una Casa di Reclusione. Lo abbiamo incontrato per saperne di più.

 In quale carcere svolge la sua attività di insegnante?

Dal 1996 insegno Lettere nel carcere di Opera, alla periferia sud di Milano (Istituto Tecnico Commerciale) e in questo carcere continuerò a insegnare fino a quando mi sarà consentito. Dopo tanti anni di vita penitenziaria, penso che sia la mia vocazione e il mio destino.

Come è maturata, in lei, l’idea di intraprendere questo percorso professionale?

Il mondo del carcere mi è sempre stato vicino. Dapprima l’ho “sentito” in modo romantico come memoria del sottosuolo, dei demoni, degli offesi, dei maledetti. Poi l’ho conosciuto di persona nelle sue dinamiche storiche ed esistenziali. E ho deciso di restare.

Che tipo di rapporto si è instaurato con i suoi allievi?

Fin dal primo giorno sono entrato in classe convinto di un compito essenziale, quello di insegnare l’amore per la poesia, per la disciplina della poesia. Spero di essere riuscito, nel corso degli anni,  a trasmettere questa convinzione e a mostrare come l’esperienza poetica sia qualcosa che scende a picco nel cuore dell’uomo e s’inabissa nella sua necessità profonda e nella sua quotidiana salvezza.

Ha dichiarato che la poesia “vive del tragico, mai del chiaroscuro.” Esiste una poesia intrinseca, recondita, nella sofferenza del recluso?

Esiste la sofferenza del recluso, certamente. Ma in lui esistono anche la curiosità, l’entusiasmo, il desiderio di sapere e il richiamo dell’ignoto, come in qualunque altro alunno. Inoltre, nei più sensibili, c’è una nostalgia legata all’esilio: il ricordo di profumi e colori perduti, un corpo o un sentiero amato, un’infanzia remota che gli anni imprigionati hanno reso ancora più leggendaria. Tutto questo fa del carcere un luogo propizio all’ascolto della parola poetica, che spesso è parola della memoria, tempo perduto e ritrovato.

Le sue liriche evocano i paesaggi delle grandi periferie urbane: le lamiere abbandonate e gli agglomerati industriali, l’ asfalto rovente delle tangenziali. Quali tragicità comuni è possibile rinvenire tra questi spazi immensi e quelli angusti, circoscritti, delle celle e dei cortili carcerari?

Non esiste, in poesia, una questione spaziale. Gli spazi infiniti si restringono nella punta di una matita e invece gli spazi più angusti si aprono in uno squarcio siderale: è il famoso filo d’erba del Pascoli, dove ruotano i pianeti! Così anche il campetto di calcio di Opera ogni domenica diventa l’intero universo: sinfonia di affetti e di esultanze, cilindro magico da cui ogni giocatore estrae le creature più sorprendenti e meravigliose.

Cosa pensa dei problemi attualmente associati al mondo della reclusione?

I problemi associati al mondo della reclusione sono innumerevoli, ma   in questi anni mi sto occupando soprattutto della detenzione “ostativa”, che è frequente nel carcere di Opera e costituisce un importante nodo etico e giuridico. L’ ergastolo ostativo ha carattere di perpetuità inderogabile e nega che il detenuto possa accedere a pene alternative, “osta” a ogni possibile beneficio di legge. Si tratta di una questione controversa – che personalmente seguo da vicino a livello di convegni e comitati – poiché tale forma di ergastolo contrasta con l’articolo 27 della Costituzione sulle finalità rieducative della pena. Inoltre, cancellando ogni speranza di ritorno alla cittadinanza, sancisce di fatto la morte del detenuto tra le mura carcerarie.

Cosa lo ha colpito maggiormente del carcere, durante la sua lunga attività didattica?

Forse ciò che più mi ha colpito in questi anni è il funzionamento del “ricordo”, parola che già nella sua etimologia indica il cuore. Il carcere è naturalmente un luogo di scavo interiore e di memoria. Ma si tratta di una memoria spezzata in due parti. Da un lato gli anni trascorsi tra le sbarre tendono a impastarsi in un’unica e monotona entità, sempre eguale a se stessa, una litania di colloqui, controlli, ore d’aria. Dall’altro invece ciò che è avvenuto prima dell’arresto assume i contorni favolosi della giovinezza:  tempo interamente perduto e dunque eterno. Nasce così, nei detenuti più poetici, una memoria prodigiosa, capace di fermarsi su un giorno lontano e di abitarlo, una memoria che si fa moviola, ingrandisce i dettagli e rallenta l’azione, opera un fermo-immagine, impone allo sguardo quella scena e non consente di uscire dalla visione. L’esilio insomma, insieme alle offese del trauma, può offrire la rara e preziosa bellezza di un  ricordo ineccepibile.

E’ mai stato ispirato dalla realtà carceraria nella composizione dei suoi versi?

Proseguo la risposta precedente. E aggiungo che F. (alunno a me particolarmente caro) è stato anche un formidabile specialista della memoria, un vero e proprio maestro del ricordo. E questo alunno è diventato – con il suo straziato racconto di amore e di sangue – il protagonista dell’ultima sezione del mio libro appena uscito, Incontri e agguati, dove per la prima volta il carcere entra direttamente in ciò che scrivo e lo nutre con la sua voce ferita e trepidante.

(Courtesy of L’Azione Fabriano)

 

Neve

 

” Subito dopo la partenza del pullman, mentre il passeggero seduto accanto al finestrino, pensando di poter vedere qualche cosa di nuovo, guardava con occhi attenti i quartieri della periferia di Erzurum, le minuscole e misere drogherie, i panifici e i caffè fatiscenti, aveva ripreso a nevicare. Adesso era più forte: i fiocchi erano più grandi di quelli del tragitto da Instanbul a Erzurum. Se il passeggero non fosse stato stanco per il viaggio e avesse prestato un po’ più di attenzione ai grandi fiocchi di neve che scendevano dal cielo come piume di uccelli, avrebbe potuto percepire che si stava avvicinando una violenta tormenta di neve e, forse, avrebbe potuto capire immediatamente di aver intrapreso un viaggio destinato a cambiare tutta la sua vita, e sarebbe potuto tornare indietro. Ma di tornare indietro adesso non gli passava proprio per la testa. Mentre la sera scendeva, guardava fisso il cielo che sembrava più luminoso della terra: contemplava i fiocchi di neve che man mano si facevano più grandi e si disperdevano nel vento, non come presagi di una prossima sventura ma, finalmente, come indizi del ritorno della felicità e dell’ innocenza della sua infanzia. (…) Sentiva che quella neve di una bellezza sovrannaturale lo rendeva persino più felice della Instanbul che aveva potuto rivedere dopo tanti anni. Era un poeta, e in una sua poesia di qualche anno prima, una poesia poco nota ai lettori turchi, aveva scritto che anche nei nostri sogni nevica, ma una sola volta nella vita. Mentre la neve scendeva fitta e silenziosa come nei sogni, il passeggero provò quella sensazione di innocenza e ingenuità che cercava appassionatamente da anni e, in un impeto di ottimismo, pensò di potersi sentire a proprio agio in questo mondo. Dopo un po’ fece una cosa che non faceva da tanto tempo: si addormentò nel suo sedile. “

Orhan Pamuk, da “Neve”