La violetta, un preludio di Primavera

 

E’ il fiore di Febbraio per eccellenza: la violetta, o viola mammola, o mammola semplicemente, appartiene alla famiglia delle Violaceae e il suo nome botanico è Viola Odorata. Fiorisce quando l’Inverno è prossimo alla fine, annunciando i primi indizi di Primavera nei prati, lungo i fiumi e nelle radure dei boschi. Essendo una viola selvatica, predilige le zone ombreggiate e umide poichè resiste al freddo intenso. Ciò non toglie che ami anche il sole, i cui raggi rendono ancora più vivida la sua tonalità di viola. Ha un profumo inconfondibile, la corolla composta da cinque petali: due puntano verso il cielo, i rimanenti tre verso terra. Le foglie, a forma di cuore, sono di un verde luminoso. La viola selvatica, inoltre, ha una marcia in più rispetto a molti altri fiori: è edibile e vanta proprietà curative. Ricche di vitamina A e C, le sue foglie favoriscono l’eliminazione delle tossine e vengono utilizzate come verdure o insieme alle insalate e alle minestre. Con i suoi fiori, invece, si preparano dolcissimi sciroppi aromatizzanti e coloranti alimentari. Le virtù antinfiammatorie rendono l’infuso di Viola Odorata perfetto per i malanni da raffreddamento. Non dimentichiamo, poi, che l’inebriante profumo della violetta è contenuto in una delle più celebri fragranze italiane: tutto ebbe inizio quando Maria Luigia D’Asburgo, seconda moglie di Napoleone, divenne Duchessa di Parma, Piacenza e Guastalla nel 1816. A Parma, il profumo delle mammole affascinò la Duchessa al punto tale da spingerla a chiedere ai frati del Convento della Santissima Annunziata di prepararle un’essenza che lo contenesse. I frati furono ben lieti di esaudire il desiderio di Maria Luigia, e realizzarono un profumo, la “Violetta di Parma”, ad esclusivo uso della Duchessa. La formula della fragranza, custodita gelosamente dai frati, rimase segreta fino al 1870, quando venne comunicata a Luigi Borsari dai religiosi stessi. L’imprenditore, allora, pensò di commercializzare la “Violetta di Parma” destinandola al grande pubblico: la racchiuse in flaconi raffinatissimi, preziosamente decorati, che tuttora la rendono uno dei profumi più richiesti e iconici del Made in Italy.

 

 

Per omaggiare la viola selvatica, un preludio del risveglio della natura, voglio concludere questo post con una nota poesia di Ada Negri (1870-1945): “Le violette”, questo il suo titolo, è inclusa nella raccolta “Vespertina” pubblicata nel 1936.

Le violette

Anche quest’ anno andrai per violette
lungo le prode, nel febbraio acerbo.
Quelle pallide, sai: che han tanto freddo,
ma spuntano lo stesso, appena sciolte
l’ultime nevi; e fra uno scroscio e un raggio
ti dicono: «Domani è primavera.»
Ogni anno ti confidi al tuo tremante
cuore: «È finita», e pensi: «Non andrò
per violette – ché passò il mio tempo –
lungo le prode, nel febbraio acerbo.»
Invece (e donde ignori, e da qual bocca)
una voce ti chiama alla campagna:
e vai; e i piedi ti diventan ali,
sì alta è la promessa ch’è nell’aria.
E per amor dell’esili corolle
quasi senza fragranza, ma beate
d’esser le prime, avidamente schiacci
con gli steli la zolla entro le dita.
O sempre nuova, o non guarita mai
dell’inquieto mal di giovinezza,
a chi dunque darai le tue viole?
A nessuno: a te stessa: o, forse, ad una
fanciulla che ti passi, agile, accanto,
e ti domandi dove tu l’hai colte:
sola n’è degna, ella che fresca ride
come il febbraio; e non si sa qual sia
più felice, se ella, o primavera.

 

Foto: AnRo0002, CC0, da Wikimedia Commons

 

Il cancello del tempo

 

“Fino allora egli era avanzato per la spensierata età della prima giovinezza, una strada che da bambini sembra infinita, dove gli anni scorrono lenti e con passo lieve, così che nessuno nota la loro partenza. Si cammina placidamente, guardandosi con curiosità attorno, non c’è proprio bisogno di affrettarsi, nessuno preme di dietro e nessuno ci aspetta, anche i compagni procedono senza pensieri, fermandosi spesso a scherzare. Dalle case, sulle porte, la gente grande saluta benigna, e fa cenno indicando l’orizzonte con sorrisi di intesa; così il cuore comincia a battere per eroici e teneri desideri, si assapora la vigilia delle cose meravigliose che si attendono più avanti; ancora non si vedono, no, ma è certo, assolutamente certo che un giorno ci arriveremo.  Ancora molto? No, basta attraversare quel fiume laggiù in fondo, oltrepassare quelle verdi colline. O non si è per caso già arrivati? Non sono forse questi alberi, questi prati, questa bianca casa quello che cercavamo? Per qualche istante si ha l’impressione di sì e ci si vorrebbe fermare. Poi si sente dire che il meglio è più avanti e si riprende senza affanno la strada. Così si continua il cammino in una attesa fiduciosa e le giornate sono lunghe e tranquille, il sole risplende alto nel cielo e sembra non abbia mai voglia di calare al tramonto. Ma a un certo punto, quasi istintivamente, ci si volta indietro e si vede che un cancello è stato sprangato alle spalle nostre, chiudendo la via del ritorno. Allora si sente che qualche cosa è cambiato, il sole non sembra più immobile ma si sposta rapidamente, ahimè, non si fa tempo a fissarlo che già precipita verso il confine dell’ orizzonte, ci si accorge che le nubi non ristagnano più nei golfi azzurri del cielo ma fuggono accavallandosi l’una sull’altra, tanto è il loro affanno; si capisce che il tempo passa e che la strada un giorno dovrà pur finire. Chiudono a un certo punto alle nostre spalle un pesante cancello, lo rinserrano con velocità fulminea e non si fa tempo a tornare. Ma Giovanni Drogo in quel momento dormiva ignaro e sorrideva nel sonno come fanno i bambini. “

Dino Buzzati, da “Il deserto dei Tartari” (Rizzoli)

 

 

(Foto: Dmitriy Zub via Pexels)

 

Bournville e il cioccolato nell’ aria

 

” L’aria non profumava di cioccolato, ma il cioccolato era nell’aria. Nessuno sentiva il bisogno di dare un nome alla fabbrica che sorgeva nel cuore del villaggio. Tutti la chiamavano semplicemente lo “Stabilimento”. E dentro quella fabbrica si produceva il cioccolato. Lo si produceva da più di sessant’anni. Da quando John Cadbury aveva aperto il suo primo negozio nel centro di Birmingham,nel 1824, vendendo semi di cacao macinati per la cioccolata calda. Quacchero devoto, come i suoi fratelli, considerava la bevanda non solo come una componente nutrizionale della prima colazione, ma anche come un sostituto sano dell’alcol nelle ore più tarde della giornata. L’attività era cresciuta costantemente, la forza lavoro si era ampliata, erano stati acquistati locali più grandi finchè, nel 1879, i figli avevano deciso di spostare la produzione fuori Birmingham. All’epoca l’area prescelta consisteva essenzialmente di grandi prati digradanti. La loro idea era quella di una coesistenza armonica tra industria e natura, legate da un rapporto quasi simbiotico di reciproca dipendenza. (…) Al centro erano situati i giardini pubblici e vicino c’era la scuola media con la torre dell’orologio che ospitava il famoso carillon. Attorno alla scuola c’erano Woodbrooke Road, Thorn Road e Linden Road, strade che anche in seguito, nonostante il traffico, mantennero sempre un senso di calma, un ricordo pastorale di ombra e di fronde, incorporato nei loro stessi nomi. Come chiamare questo luogo speciale? (…) Il piccolo corso d’acqua che serpeggiava fin nel suo centro si chiamava Bourn e molti si aspettavano che Bournbrook sarebbe stato il nome prescelto. Ma il villaggio era fondato su un’impresa, e l’impresa era quella di vendere cioccolato, e persino nel cuore dei Cadbury, pionieri della produzione britannica di questo alimento, si annidava ancora la sensazione che il loro prodotto fosse inferiore ai suoi rivali continentali. Perché, inutile negarlo, il miglior cioccolato aveva in sé qualcosa di intrinsecamente europeo. I chicchi erano sempre arrivati dagli angoli più remoti dell’Impero – non c’era nulla di non britannico in questo – , ma i procedimenti per trasformarli in cioccolato commestibile erano stati inventati da un olandese ed era una verità universalmente riconosciuta, anche se non sempre apertamente dichiarata, che erano stati i francesi, i belgi e gli svizzeri a portare la produzione del cioccolato a un livello vicino alla perfezione. Se il cioccolato Cadbury avesse mai dovuto competere con loro, avrebbe dovuto essere etichettato in modo da incarnare almeno una una sfumatura di raffinatezza europea, di sofisticazione continentale. Decisero quindi che Bournbrook non avrebbe funzionato e, come variante, scelsero Bournville. Il nome di un villaggio non solo fondato sul cioccolato e a esso dedicato, ma l’espressione di un sogno che il cioccolato aveva reso possibile. “

Jonathan Coe, da “Bournville”

 

 

La stagione più triste dell’anno

 

“È certo la primavera la stagione più triste dell’anno. Ondeggia, incespicante e trasognata tra la bianca severità dell’inverno e la focosa maestà dell’estate, come una «donzelletta» acerba che non è più vera bambina e non è ancora donna fatta. È ridotta, perciò, alle malfide risorse del doppio gioco. In certi giorni un baccanale di sole indora e accende tutte le cime e tutte le superfici, e un’improvvisa afosità simula ipocritamente la gialla offensiva del giugno. Ma poi, il giorno dopo, sipari di nuvolone seppiacee si calano sugli orizzonti come gramaglie, il vento settentrionale uggiola e morde, i piovaschi impazziscono in furori diluviali, i fiumi aprono brecce nelle ripe, sui monti si ammonta un’altra volta la neve, tardiva ed intempestiva, e le prime erbe dei prati, stupite e strapazzate, vorrebbero rientrare sotto la terra. Passata la furia boreale, tornano le giornate grigie e accidiose, con qualche golfo di azzurro che subito si richiude, le strade fradice e sudice, i muri bollati di gore umide, i fossi colmi d’acqua lotosa. Eppoi, in pochi meriggi, tutto s’asciuga, tutto s’infiamma, tutto arde, tutto si riscalda e ci s’accorge, con mortificante sorpresa, che la primavera è finita, senza aver potuto godere, meno che pochi istanti, le sue incantate e decantate meraviglie.”

Giovanni Papini, da “La spia del mondo”

 

 

L’aquilone

 

L’azzurro di certe giornate in cui il cielo ti fa venire voglia di diventare un aquilone.
(Ferzan Ozpetek)

Due sorelle (gemelle) immerse nella natura del grande Nord. Capelli biondo cenere, abiti bianchi per riflettere la luminosità del sole estivo, il verde rigoglioso tutto intorno. La voglia di giocare con la loro specularità fisica, di sperimentare sensazioni quasi mistiche nella quiete del bosco. E poi, all’ improvviso, un guizzo di giocosità: un aquilone azzurro come il cielo che le spinge a correre nei prati, a calpestare l’ erba a piedi nudi, per farlo librare in volo e vederlo danzare con il vento…supremo emblema di libertà senza limiti nè confini.

Vi auguro buon weekend con la nuova photostory di VALIUM.

 

Foto di Cottonbro via Pexels

Momenti di Maggio

 

” Come non posso vedere un torrente limpido, senza bagnarvi perlomeno i piedi, così non posso pensare davanti a un prato a maggio senza fermarmi. Non c’è niente che attiri di più di questa terra profumata, su cui le fioriture del cerfoglio ondeggiano come una lieve spuma, mentre gli alberi da frutto tendono i loro rami coperti di fiori come se volessero emergere da questo mare di beatitudine. E io, io devo per forza lasciare la strada e addentrarmi in questa pienezza multiforme di vita. “

(Sophie Scholl)

Due amiche nella campagna assolata di Maggio. Borse e cappelli di paglia per esaltare un mood rustico, abiti bianchi per riflettere la luce. Momenti di gioia e di assoluto relax vissuti in mezzo alla natura, a piedi nudi, tra candidi fiori di campo e prati verdeggianti. Finchè un sentiero che scende verso il mare svela un nuovo panorama: orizzonti sconfinati e una spiaggia deserta da godersi in un tripudio di inebrianti emozioni. (Foto di Nataliya Vaitkevich via Pexels)

 

La bella estate

 

” A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e traversare la strada, per diventare come matte, e tutto era cosí bello, specialmente di notte, che tornando stanche morte speravamo ancora che qualcosa succedesse, che scoppiasse un incendio, che in casa nascesse un bambino, e magari venisse giorno all’improvviso e tutta la gente uscisse in strada e si potesse continuare a camminare fino ai prati e fin dietro le colline. – Siete sane, siete giovani, – dicevano, – siete ragazze, non avete pensieri, si capisce –. Eppure una di loro, quella Tina che era uscita zoppa dall’ospedale e in casa non aveva da mangiare, anche lei rideva per niente, e una sera, trottando dietro gli altri, si era fermata e si era messa a piangere perché dormire era una stupidaggine e rubava tempo all’allegria. “

 

Cesare Pavese, da “La bella estate”

 

 

 

 

 

L’incantesimo di San Giovanni

 

Eteree creature volteggiano sui prati come fate, grandi ali impalpabili e piedi che affondano nell’ erba alta. Tutto intorno, i fiori di iperico si moltiplicano in una sconfinata distesa gialla. E’ il giorno di San Giovanni, un magico preludio d’ estate. Il sole, già alto, con i suoi raggi ha spazzato via le ultime tracce di una notte stregata. Ma l’incantesimo persiste: l’aria è calda, avvolgente, impalpabile come un tulle tinto di tenui colori candy….e la mattina è iniziata con il delizioso tocco dei petali e della rugiada sulla pelle. L’ acqua di San Giovanni rimane la tradizione più amata di questa ricorrenza, l’ incontro tra il cocente sole estivo e la portentosa guazza lunare. Si dice che propizi la fortuna, calamiti l’amore e preservi la salute, poichè le gocce che di notte si posano sui fiori li caricano di un potere immenso. Non stupisce affatto che, ormai da secoli, la festa di San Giovanni esordisca con un rito purificatore dall’ incanto irresistibile e sempiterno.