Nottate milanesi

 

” E poi è stato grazie a quei primi fumetti che sono arrivato a Milano, e ho cominciato a spassarmela. Lavoravo tanto, ma riuscivo anche a godermi le nottate milanesi, che erano intensissime. Soprattutto al Capolinea, storico jazz club sui Navigli. C’era una band fissa, con ospiti che si alternavano di volta in volta. Lì ho visto e sentito spesso Enzo Jannacci. Ed era bellissimo anche andare nel quartiere di Brera, quello degli artisti. E dei ribelli. A Brera ho conosciuto Andrea Valcarenghi di “Re Nudo”, un leader assoluto della controcultura. Di quelle notti ero uno spettatore. Bevevo con gli occhi e con le orecchie quello che vedevo, ed era tutto straordinario. E si beveva anche nel senso più comune, parecchio. Certe “mattine” cominciavano a mezzogiorno, con un gran mal di testa. I tipi che si incontravano, al Capolinea o nei locali di Brera, stavano cambiando il mondo. Ero affascinato da quegli ambienti milanesi, ma non stupito, perchè avevo già respirato quell’ aria nuova a Venezia, tra il ’67 e il ’68. Ma anche prima, per la verità: alla Biennale di Venezia del ’64, in cui avevano presentato la pop art americana. Mentre dall’ Inghilterra stavano cominciando ad arrivare le canzoni dei Beatles e Rolling Stones, in Italia si ascoltava anche De André. Per me, giovanissimo, era stato un cambiamento culturale, prima che politico. Un cambiamento partito dall’arte, dalla musica, dalla letteratura. “

 

Milo Manara, da “A figura intera”

 

 

 

 

 

L’ inconfondibile “French Touch” di Carla Bruni

 

Il suo nuovo album non uscirà che a Ottobre (precisamente il 6 e per l’ etichetta Verve Records/Barclay/Universal Music France), ma già ne assaporiamo il mood a piccole dosi: il “French touch” di Carla Bruni, d’altronde, è inconfondibile. E’ così che ha deciso di intitolare la sua quinta fatica discografica, una raccolta di hit anglofone prodotte dal mitico David Foster. Ultima anticipazione in ordine di tempo, “Miss You” dei Rolling Stones in un’ intensa Bruni‘s edition: la voce sussurrata, il ritmo cadenzato che alterna chitarre e percussioni danno vita a un mix talmente suggestivo che sembra fatto apposta per essere tradotto visivamente. Il risultato è un video che Jean-Baptiste Mondino dirige, con sublime maestria creativa, coniugando sequenze in un bianco e nero minimal ad un sapore vagamente esistenzialista.  A fare da protagonista Carla Bruni ed un suo “doppio”, il corpo inguainato in un bodysuit in total black, l’ allure di una Gréco contemporanea diluita in movenze ad alto tasso coreografico. Il volto velato che ricorda, per inciso, l’ artwork di copertina di un celebre album dei Rolling come “Goat’s Head Soup” .

 

Un fotogramma del video di “Miss You” by Jean-Baptiste Mondino

 

Le movenze della Bruni e del suo doppio si intrecciano in un pas de deux intrigante, di volta in volta flessuoso e evanescente, dando vita ad una “Miss You” raffinata e dai forti connotati iconici. Lo spirito “intimista” che pervade il brano è uno dei leitmotiv di “French Touch”: melodie sensuali ma ricche di calore, essenziali ma giocose, in bilico tra il romanticismo ed un sofisticato appeal. I brani a cui si ispirano sono frammenti di emozione rara, la soundtrack di un vissuto declinato in luoghi, in preziosi istanti o in specifiche persone. Carla Bruni non esita a definire ogni canzone un “coup de foudre” che scaturisce da un inarrestabile fluire evocativo. A rivelarlo è anche il sound “compatto” e potentemente armonioso del singolo-anteprima dell’ album, la cover di “Enjoy the silence”. La hit che i Depeche Mode sfornarono nel 1990 viene esaltata da una versione “nude” a base di chitarra, voce e piano e corredata da un video flou, sospeso, sottilmente onirico. Ricordi e sensazioni riaffiorano come da un cappello magico: forse è proprio questa, la più pura quintessenza del “French Touch” di Carlà.

 

La copertina di “French Touch”

 

 

Photo Carla Bruni via Stijn Vogels (“Carla Bruni: Quelqu’un m’a dit”) on Flickr CC BY-NC-SA-2.0

Un ricordo di Anita Pallenberg

 

Modella, attrice, icona…Ma soprattutto musa. Dei Rolling Stones e di un’ epoca che ribalta in toto gli stereotipi del “femminile”. E’ così che Anita Pallenberg, scomparsa il 13 Giugno scorso, verrà sempre ricordata: It girl dei 60s, impone un ideale di bellezza che alla silhouette slanciata ed ai capelli color platino coniuga un fortissimo carisma. Pensare a lei solo in virtù dei love affair che intrecciò, prima con Brian Jones e poi con Keith Richards, non le rende giustizia. Il suo è un appeal magnetico, mixato a una personalità travolgente e ad uno spiccato senso di indipendenza. Nata nel 1942 a Roma da padre italiano e madre tedesca, molla gli studi a 16 anni e vola a New York dove frequenta la Factory di Andy Warhol e si unisce al Living Theatre. Tornata in Europa, debutta a Parigi come modella. La sua carriera la vede di nuovo in viaggio, in giro per il mondo sul set dei vari photoshoot. E’ proprio durante una delle sue trasferte che conosce Brian Jones: il colpo di fulmine tra Anita e il chitarrista dei Rolling Stones scocca a Monaco, nel backstage di un concerto della band, e da quel momento ha inizio una liason che durerà un biennio. Corre l’ anno 1965, la Swingin’ London esplode. Anita Pallenberg e Brian Jones sono una coppia speculare che detta stile: lo stesso caschetto biondo, le ruches da dandy, i cappelli a tesa larga e le scenografiche pellicce diventano i loro basic. Nonostante tutto, l’ intesa naufraga definitivamente durante un viaggio in Marocco ad alto tasso di litigi. E’ a questo punto che entra in scena Keith Richards; con lui Anita torna a Londra e inizia una convivenza che si snoda tra family life e eccessi, alternando alla nascita di tre figli – Marlon nel 1969, Dandelion Angela nel 1972 e Tara, morto appena 10 settimane dopo, nel 1976 – una quoditianità vissuta “on the wild side” in toto.

 

 

Anita, in quel periodo, consolida la sua funzione ispiratrice: è piena di interessi, brillante, parla fluentemente cinque lingue, affascina chiunque grazie al suo magnetismo potente. Negli anni di Biba e Mary Quant, la “musa dei Rolling” adotta un look iconico in cui trionfano boa di struzzo, suit damascati in lamè, jabots, caftani bohemien e gioielli di stampo etnico. La sua carriera di modella, intanto, lascia il posto ad un esordio come attrice che consacrerà con “Barbarella” (1967) la sua fama. Nel film di Vadim interpreta un’ avveniristica Regina Nera e affianca Jane Fonda in una delle più celebri – e bollenti – sci-fi comedy di sempre, dopodichè appare in pellicole come “Candy” (1968) di Christian Marquand, “Dillinger è morto” (1969) di Marco Ferreri, “Performance” (1970) di Cammell e Roeg, dove recita con Mick Jagger, e svariati documentari sui Rolling Stones (“Sympathy for the Devil” di Jean-Luc Godard (1968), solo per citarne uno). Al cinema vero e proprio torna nel 2007, quando appare in “Mister Lonely” di Harmony Korine e “Go Go Tales” di Abel Ferrara. Il Nuovo Millennio inizia per Anita con un bagaglio di vita e di ricordi davvero da leggenda. Nel 1980 la love story con Richards è terminata, ma “l’era dei Rolling” le ha lasciato in eredità una splendida amicizia: quella con Marianne Faithfull, storica ex di Mick Jagger, un legame mai venuto meno nel corso del tempo. Il suo ruolo di icona di stile rimane indiscusso, riannodando un fil rouge con la moda che la vede iscriversi al Central Saint Martins College di Londra, sfilare per noti designer e mettersi in gioco, a sua volta, come stilista. Adorata da celebs e top (come dimostra il feeling instaurato con Kate Moss), Anita Pallenberg è destinata a rimanere impressa nella memoria collettiva come un’ affascinante musa che accanto ai top names del rock ha immancabilmente brillato di una magica, inconfondibile luce propria. E se vi sembra poco…

Photo:

“Anita Pallenberg” via Miriam-Assai on Flickr, CC BY-ND2.0

“ellemay67keithanitadetail” via lobstar28 on Flickr, CC-BY-NC-ND 2-0

 

Michael Putland, il fotografo delle leggende del Rock

Il libro-catalogo THE ROLLING STONES BY PUTLAND (ed. LullaBit)

 

Dalla A degli Abba alla Z di (Frank) Zappa: difficile individuare chi non sia stato immortalato da Michael Putland, in un ipotetico “alfabeto del Rock”. Classe 1947, inglese, Putland debutta come assistente fotografo quando è appena un teen. Apre il suo primo studio fotografico nel 1969, anno di transizione che vede sfumare gli Swingin’ Sixties nell’ era hippy e delle più graffianti Rock band. E’ allora che il link tra Michael Putland e la music scene si salda, indistruttibile, per tutti gli anni a venire. Il ruolo di fotografo ufficiale che ricopre per Disc & Music Echo, un magazine di musica britannico, è in questo senso fondamentale: proprio grazie alla rivista ha un primo approccio con Mick Jagger, che nel 1973 segue in tour inaugurando un pluriennale sodalizio con i Rolling Stones. Nel frattempo, prosegue indefessa la sua collaborazione con la stampa musicale e con major discografiche come CBS, Columbia Records, Warner, Polydor e EMI, per le quali ritrae le star di un’epoca straordinaria in quanto a innovazione e a fermento creativo. Nel 1977 si trasferisce a New York dove fonda Retna, agenzia fotografica rimasta attiva per quasi trent’anni. I soggetti principali del suo portfolio sono gli eroi della music scene: dagli Stones a Bowie passando per Prince, Eric Clapton, Tina Turner, Joni Mitchell e Marc Bolan – solo per citarne alcuni – Putland immortala personaggi annoverati nella music history per carisma e genialità. Ai suoi scatti vengono dedicate mostre, come l’ importante retrospettiva che la Getty Gallery di Londra ha organizzato per il suo 50mo di carriera o quelle, tutte italiane, con cui ONO Arte ha reso omaggio al suo archivio su David Bowie e sui Rolling Stones. Ed è proprio in occasione di It’s only rock’n roll (but I like it), la mostra che fino al 23 Luglio sarà visitabile nella galleria d’arte bolognese, che ho avuto il privilegio e l’ onore di scambiare quattro chiacchiere con Putland. Il libro-catalogo THE ROLLING STONES BY PUTLAND rappresenta una chicca aggiuntiva dell’ esposizione: edito da LullaBit, raccoglie oltre 200 scatti in cui il grande fotografo ha immortalato i Rolling on e off stage. Una splendida opportunità per approfondire l’ opera di Putland e per immergersi nel mood che animava (e che anima) una vera e propria leggenda del Rock.

Ha scattato la prima foto a soli 9 anni. Quale ‘molla’ ha innescato il colpo di fulmine con la fotografia?

Sì, è stato davvero un colpo di fulmine tra me e la fotografia. Ma la mia influenza principale è stato mio zio, che vedeva che questa passione stava nascendo in me e mi aiutò molto a coltivarla. Lui aveva un macchina fotografica tedesca, una Voigtländer 35 mm, e da lì partì tutto. Ho ancora una collezione di macchine fotografiche appartenute alla mia famiglia, quella di mia nonna ad esempio, con cui di fatto scattai la mia prima fotografia! Mia nonna, in seguito, mi regalò una delle prime macchine con rullino: una Kodak Crystal.

Si dice che lei abbia fotografato tutte le rockstar al top dagli anni ’70 in poi. Ha mai coltivato velleità musicali?

In realtà mi sarebbe piaciuto ma non ero per nulla portato, nonostante mia nonna – quella della macchina fotografica – fosse una pianista abbastanza famosa ai suoi tempi.

Michael Putland

Tra gli innumerevoli artisti che ha immortalato spicca David Bowie. Che ricordo ha di lui e quali atout, a suo parere, lo hanno tramutato in un’icona?

La prima volta che vidi Ziggy pensai che fosse eccezionale e diverso. Tutto quel periodo era straordinario, e l’aspetto androgino di Bowie era qualcosa che non si era mai visto. Credo che quello che lo abbia davvero reso un’icona – a parte la sua musica incredibile, perché non scordiamoci che la musica era incredibile – sia stata la sua capacità di reinventarsi costantemente. Anche il suo ultimo lavoro prima di morire, Lazarus, è stato davvero un capolavoro di citazioni e innovazioni al tempo stesso.

Il bianco e nero è un leit-motiv di tutta la sua opera. Perché?

Ovviamente sono cresciuto con il bianco e nero, e anche quando le pellicole a colori divennero disponibili, nessuno se le poteva davvero permettere – e a pensarci bene non ho mai conosciuto nessuno che ai tempi le usasse! Il mio occhio è abituato a leggere il mondo a due colori, anche quando scatto ora.

┬®Michael Putland, Mick & Keith live, Wembley 1973

La sua collaborazione con i Rolling Stones ha avuto inizio nei primissimi anni ’70. Che tipo di feeling si è instaurato tra lei e la band?

Quello che posso dire è che ci trattavamo con estremo rispetto reciproco e fiducia, ognuno del lavoro dell’altro. Il nostro rapporto era più che altro professionale, fatto di gesti e pose più che di parole, soprattutto in confronto al rapporto che avevo con altri artisti. E forse questa è sempre stata una delle cose che ho amato di più.

Nei suoi scatti, la quintessenza degli Stones si esprime al meglio nella dimensione del tour. Come se lo spiega?

Uno dei talenti che ho in assoluto come fotografo, se posso dirlo, è quello di stabilire un rapporto con il soggetto che ritraggo. La band si sentiva a proprio agio  con me e quindi ero in grado di cogliere la loro vera essenza – non un’immagine posata – che sul palco, ovviamente, era all’ennesima potenza. Oggi quando scatto in digitale ho ancora questa capacità, infatti edito pochissimo le mie foto. In realtà, se devo essere onesto, preferisco fotografare chiunque non sul palco: le restrizioni e le difficoltà tecniche sono folli. Ma con gli Stones era una simbiosi di musica e performance che sapeva trascinarti via. Per quello, essere con loro on stage era incredibile.

Bowie, 1976. The Thin White Duke

Esistono foto, tra quelle in mostra, che associa a ricordi o ad aneddoti particolari?

Senza ombra di dubbio la foto che scattai a Bob Marley, Peter Tosh e Mick Jagger al Palladium Theatre di New York. Il contrasto tra il viso di Mick esausto dalla performance sul palco è così bianco e quello di Peter Tosh così sorridente e scuro, al contempo: mi  hanno regalato uno dei miei scatti di maggior successo.

Il libro fotografico ROLLING STONES by PUTLAND è presentato in una doppia copertina raffigurante Mick Jagger e Keith Richards. Chi dei due subisce maggiormente il fascino dell’obiettivo?

Mick è sicuramente più naturale davanti all’obiettivo, ma al tempo stesso se Keith sorridesse e fosse a suo agio non sarebbe più lui. In realtà in questi ultimi anni è sempre più sorridente, lui stesso non si riconosce più – dice. In fondo, è un nonno anche lui!

Photo courtesy ONO Arte

“It’s only Rock’n Roll (but I like it)”: a Bologna una mostra dedicata ai Rolling Stones

©Iconic Images/Terry O’Neill

 

It’s only Rock’n Roll (but I like it): la celeberrima hit-manifesto dei Rolling Stones da oggi è anche il titolo di una mostra fotografica con cui, dal 16 giugno, ONO Arte Contemporanea omaggerà la leggendaria band. In esposizione, gli scatti di due prestigiosi fotografi della music scene come Terry O’ Neill e Michael Putland, che immortalano una carriera consolidata in piena Swingin’ London ed esplosa definitivamente nel decennio dei Settanta. E’ trascorso mezzo secolo da quando il TIME coniò l’ aggettivo che descriveva una Londra “dondolante”, frizzante, capitale assoluta dello “youthquake” citato da Diana Vreeland, quella stessa Swingin’ London che vede Terry O’ Neill muovere i primi passi come fotografo: nato nell’ East End, O’ Neill è un batterista jazz che sogna di volare negli USA e di unirsi alle più famose band. Per mantenersi scatta per la British Airways e diventa un fotoreporter, ma la sua passione per la musica non tarda a emergere ed è il primo a immortalare i Beatles nello studio di Abbey Road. Ben presto, però, la sua attenzione viene catturata da una band che in quegli anni inizia a spopolare, i Rolling Stones: il look del gruppo non è poi così diverso da quello dei Fab Four, ma musicalmente risalta un elemento “graffiante” e intriso di rimandi al rhythm and blues che li contraddistinguerà a titolo perenne. Le prime foto di O’Neill ritraggono la formazione di esordio della band – Mick Jagger, Keith Richards, Charlie Watts, Bill Wyman e l’ indimenticato Brian Jones – per le strade di Londra, ancora alla ricerca di uno stile estetico identificativo, anticipando l’ evoluzione che li tramuterà in trasgressive rockstar anche nel modo di mostrarsi al pubblico.

 

 

©Iconic Images/Terry O’Neill

 

Il nuovo status coincide con una mutazione nel look che Michael Putland immortala egregiamente, congelando su pellicola una vera e propria svolta storica del gruppo.

 

 

©Michael Putland

 

Putland, fotografo ufficiale della band dai primi anni Settanta, è presente sul set del video di It’s only Rock ‘n Roll (but I like it) e documenta costantemente le performance live degli Stones. Ed è proprio nella dimensione del tour che si alimenta e si consacra il loro mito, rendendoli a tutt’ oggi esplosive leggende del rock: il ruolo privilegiato di Michel Putland fa sì che ci fornisca un dettagliato resoconto fotografico che, oltre alle esibizioni sul palco, include i backstage, gli studio recordings e i party che hanno descritto a tutto tondo un’ era. Queste immagini – unitamente a quelle in mostra – appaiono nel libro che ONO Arte cura per LullaBit, ROLLING STONES by PUTLAND. Il volume sarà nelle librerie a Settembre, ma verrà presentato in anteprima in galleria: i fan dei Rolling e di Michael Putland, infatti, il 18 Giugno (dalle ore 16) potranno farsi autografare copie del libro dal grande fotografo in persona. Un save the date decisamente da non perdere. Perchè sarà anche “only Rock’n Roll”…But We like it!

©Michael Putland

La mostra (16 Giugno – 23 Luglio), allestita a Bologna presso ONO Arte Contemporanea in via S. Margherita 10, è patrocinata dal Comune di Bologna ed è composta da circa 50 immagini in diversi formati.

Il catalogo ROLLING STONES by PUTLAND, edito da LullaBit, è il secondo titolo della collana realizzata in collaborazione con ONO Arte.

Rolling Stones cover

Photo courtesy of ONO Arte

Lo sfizio

 

Bianco: in questi giorni di inizio 2015, il colore ideale per mettersi nei panni di una più che mai affascinante Regina delle Nevi. In realtà, al momento di ideare questa splendida e soffice mantella dai toni boho, Anna Molinari si è ispirata a ben altro: viaggiando a ritroso nel tempo, ha colto stili e umori dell’ indimenticabile Swinging London proiettandone il mood nell’ intera collezione Blugirl per l’ Autunno/Inverno. I riferimenti a due massime icone dell’ epoca, Anita Pallenberg e Marianne Faithfull, sono stati fondamentali. “Mi sono ispirata alle ragazze che seguivano i Rolling Stones – ha spiegato – erano donne che indossavano abiti meravigliosi e hanno creato una vera e propria moda. Io, ovviamente, le ho riportate ai tempi moderni e contemporanei e un po’ bohemienne. ” E’  così che al miniabito in stile Biba, ai pantaloni bootcut e ai capispalla dal twist rock si affiancano le pelicce di richiamo optical, i cappotti di alpaca e le camicie see-through, in un tripudio di colori pastello e di paillettes. La mantella è un capo a sè stante che si inserisce nei trend dell’ epoca come in quelli attuali: il suo è un ritorno massiccio e definitivo, declinato in molteplici versioni. Questa, di Blugirl, mirabilmente armonizzata in un look total white, ha gli orli sottolineati da piccoli pon pon e rifiniti da frange, citando uno stile e dei dettagli ornamentali squisitamente d’antan.  Risulta sfiziosa poichè rimanda ad un periodo di grande fermento rivoluzionario e creativo, anni in cui l’ espressione della propria unicità si contrapponeva alla crescente omologazione e l’ originalità nel vestire risultava una condicio sine qua non per definire lo status di qualsiasi It girl. Deliziosa nel suo gusto boho, questa mantella rientra nel filone womenswear che vedeva protagonisti boa di struzzo, elaborati caftani, abiti in stile gipsy accanto ai primi hot pants,  parte del guardaroba tipico sfoggiato dalle icone ispiratrici di Anna Molinari: per tutte le patite del magico Swinging mood, un irrinunciabile must have.

Ricordando L’ Wren Scott

 

Era la figlia adottiva di una coppia di Mormoni L’ Wren Scott, al secolo Laura “Luann” Bambrough. Cresciuta a Roy, nello Utah, a dodici anni aveva già raggiunto la ragguardevole altezza di  1,83 e ben presto ebbe l’idea di disegnare, e realizzare, da sola i propri abiti. Qualche anno dopo, il suo 1,91 m svettava maestoso su tutte le sue coetanee, rendendola talmente speciale che non esitò solo un istante, dopo il  diploma alla Roy High School, a fiondarsi sul primo volo per Parigi con il sogno di diventare modella. C’era stato un precedente, certo: le montagne dello Utah erano state il casuale scenario di un incontro con Bruce Weber che, notandola sciare, aveva già captato in lei quella bellezza flessuosa, un’ innata eleganza che non sarebbero certo passate inosservate sulle passerelle o sulle copertine dei più patinati fashion magazine. Con Laura, Weber realizzò uno shooting per Calvin Klein: la sua strada era ormai decisa. A Parigi la sua gavetta durò poco: accantonato il nome di battesimo,  optò per il nome d’arte di L’ Wren Scott e prestissimo, nomi altisonanti come Thierry Mugler, Chanel, e la crème dei fotografi di moda – Guy Bourdin, David Bailey e Jean-Paul Goude – se la contendevano a suon di franchi. Poi, nei primi anni ’90, L’ Wren decise di diversificare il suo talento sperimentandosi in nuovi ruoli: volò in California dove si affermò come stylist, collaborando con fashion photographers d’ eccezione quali Herb Ritts, Helmut Newton, Mario Sorrenti e, in seguito, con Karl Lagerfeld. I suoi clienti avevano il nome di Elizabeth Taylor, Madonna, Julia Roberts: diventare costumista per il cinema fu, per L’ Wren, una conseguenza naturale. Anche perchè, nel frattempo – esattamente nel 2006 – la statuaria modella dello Utah aveva già incanalato passione e competenze in un’ ulteriore direzione: lanciandosi, cioè, come fashion designer. La LS Fashion Ltd fu fondata nei dintorni di New York e la sua prima collezione, Little Black Dress, presentò una selezione di glamourous black dress firmati L’Wren Scott.Il consolidamento del suo brand attrasse una schiera di prestigiose fan:  celebs del calibro di Sarah Jessica Parker, Madonna, Penelope Cruz, Angelina Jolie ed Amy Adams hanno sovente sfoggiato le creazioni dell’ ex supermodel, prevalentemente sul red carpet degli Academy Awards.La nuova carriera iniziò sotto i migliori auspici e si avvalse di collaborazioni con il cinema e con altri brand: sono di L’Wren Scott i costumi di film del calibro del remake di Diabolique (1996), Eyes Wide Shut e Ocean’s Thirteen, ma anche quelli di Shine a light, il documentario rock che Martin Scorsese girò nel 2008 sui Rolling Stones. Tra le collaborazioni con marchi famosi, quella tra Scott e Lancome diede vita ad una capsule collection di grande successo, contraddistinta da un lipstick nell’ iconico burgundy che la designer era solita sfoggiare. Il 2011 segnò il suo debutto nel campo degli accessori: una linea di handbag fu lanciata da Barneys a New York. In connubio con Banana Republic,L’Wren creò invece una holiday collection. Nel febbraio 2014, tuttavia, la sua partecipazione alla London Fashion Week fu sfortunatamente cancellata: cominciarono a correre voci su una serie di presunti debiti e difficoltà finanziarie che gettarono ombre sulla vicenda e sui suoi sviluppi. Più serena, e decisamente sotto l’ influsso di una buona stella, stava invece procedendo la vita sentimentale di L’Wren: sposata per quattro anni con l’ imprenditore Anthony Blake Brand, dal quale divorziò nel 1996,  si era unita a Mick Jagger nel 2001. Una relazione durata fino a quel fatidico 17 marzo scorso. Fino a quel nefasto mattino in cui, intorno alle 10,30, L’Wren è stata trovata impiccata nel suo appartamento di Manhattan. L’ ipotesi di un suicidio, la più probabile, è tuttora in corso di accertamenti: nessun biglietto e nessun segno di colluttazione sono stati rinvenuti nell’ elegante dimora della designer, che si divideva tra New York e Londra per azzerare i chilometri che la separavano dal suo compagno.  Un tragico episodio che cala un silenzio agghiaggiante, denso di addolorato stupore, su una vita che potrebbe essere una delle più perfette incarnazioni dell’ American Dream: bellezza, talento, successo, popolarità, creatività, un amore famoso. Era una donna e una professionista molto amata L’Wren Scott, tra le sue fan e clienti più assidue figurano anche Michelle Obama e Carla Bruni Sarkozy. Gli ingredienti per una personale “ricerca della felicità” – come sancita dalla Costituzione Americana – erano al completo: poi, a poco più di un mese dal suo cinquantesimo compleanno, qualcosa ha incrinato quello che sembrava un meccanismo straordinariamente ingranato, una vita pienamente realizzata. Oggi, allo sgomento e all’ incredulità per la sua morte improvvisa,  si succedono la consapevolezza e la certezza che tutto il bagaglio interiore che L’Wren Scott ha portato con sè in vita è destinato a rimanere immortale: come l’arte, come il talento, come la genialità creativa.  Un patrimonio prezioso condensato, da sempre, nel suo sorriso e in una versatilità  entusiasta, cangiante come un caleidoscopio. Perchè, nonostante vestisse spesso di nero, sembrava di intuire nella sua personalità  tutte le variopinte sfumature dei colori dell’ iride: “She is (was) like a rainbow” ( parafrasando una nota canzone dei Rolling Stones). E non la dimenticheremo.