“Otto e mezzo”, “Il Gattopardo” e la completezza del mondo

 

“Vivere la vita come un blocco unico e coerente, vivere la vita come esplosa in tanti frammenti. E’ la storia della volpe e del riccio di un frammento di Archiloco, e su cui Isaiah Berlin ha costruito un saggio. “La volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande”. Berlin ne fa uno spartiacque degli scrittori, dei pensatori, e dell’ umanità in generale. Gli esseri umani si dividono in volpi e ricci. Ricci sono quelli che si rifanno a un unico principio ispiratore, sulla base di una visione morale del mondo. Volpi sono quelli che si appassionano a modelli diversi e contraddittori, senza un faro etico. Per esempio, ricci secondo Berlin sono Platone, Lucrezio, Pascal, Hegel, Dostoevskij e Proust. E volpi: Erodoto, Aristotele, Montaigne, Erasmo, Molière, Goethe, Puskin, Balzac e Joyce. Otto e mezzo racconta che Guido è volpe. Il Gattopardo racconta che don Fabrizio è riccio. Tutti e due concludono il film accettando la propria essenza. E forse, Fellini, Mastroianni sono volpi; Visconti, Lancaster sono ricci. Non so, potrebbe essere così. Ma di sicuro, questi due film contemporanei rappresentano i due aspetti dell’ umanità, secondo questo principio. Insieme, riempiono tutti i tasselli possibili. Guido chiede a Claudia se potrebbe essere fedele a una sola cosa. Proprio alla Cardinale, che ha già tradito questa fedeltà andando da un set all’ altro, facendo avanti e indietro dalla volpe al riccio. Mettendo insieme i due film, confrontandoli, marcando le tante differenze e qualche somiglianza, si ha il bianco e nero e il colore, la sceneggiatura originale e non originale, il finto e il vero, il chiasso e il silenzio, l’ improvvisazione e la precisione; si tengono insieme il riccio e la volpe, e quindi si copre l’ intero scibile creativo e intellettuale. E si mettono insieme l’accettazione della vita e l’accettazione della morte. Così Otto e mezzo e Il Gattopardo, insieme, restituiscono la completezza del mondo. “

Francesco Piccolo, da “La bella confusione” (Giulio Einaudi Editore)

 

(Nella foto: Claudia Cardinale in “Otto e mezzo”, Public Domain via Wikimedia Commons)

 

Nel bosco

 

“Sono allarmato quando capita che ho camminato un paio di chilometri nei boschi solo con il corpo, senza arrivarci anche con lo spirito.”
(Henry David Thoreau)

 

Inoltrarsi in un bosco in Autunno: un’ esperienza bellissima, magica, quasi mistica. Le fronde degli alberi sfoggiano colori come l’oro, il rosso, l’arancio, il porpora, le foglie morte scricchiolano sotto i nostri piedi. I raggi del sole filtrano a malapena nel fitto degli arbusti, dove la nebbia di frequente si insinua. Non è difficile fare incontri a sorpresa: uno scoiattolo, un cervo, una volpe…si apre una radura e appare uno stagno, una piccola cascata gorgoglia senza sosta, casette di legno ci si parano davanti, inaspettate, immergendoci in un’atmosfera di fiaba. Ma adesso andiamo, è il momento di iniziare il cammino.

 

 

 

 

Una passeggiata d’inverno

 

” Eppure, mentre la terra giù in basso sonnecchiava, da tutte le regioni dell’aria superna si riversava vivace un polverio di fiocchi piumosi, come se una nordica Cerere dominasse il cielo facendo piovere su ogni campo la sua argentea semenza. Dormiamo. E finalmente ci ridestiamo alla tacita realtà di una mattina d’inverno. La neve ricopre ogni cosa, calda come cotone, o frana giù dal davanzale. Fioca, dall’ ampia impannata, dalle lastre di vetro rabescate dal gelo trapela una luce arcana, in grado di esaltare l’accogliente tepore della nostra stanza. Profondo è il silenzio del mattino. Il piancito scricchiola sotto i nostri piedi mentre ci accostiamo alla finestra per guardare all’ esterno, volgendo per un lungo tratto fosforescente gli occhi sulla campagna. Vediamo i tetti ristare intirrizziti sotto il loro fardello di neve. Stalattiti di ghiaccio frangiano gronde e staccionate, mentre nel cortile irte stalagmiti rivestono qualche oggetto sepolto. Alberi e arbusti levano da ogni parte candide braccia al cielo; e dov’erano muri e recinti, vediamo fantastiche forme spiccare in archi bizzarri sullo sfondo di quel panorama cupo, quasi che nella notte la natura avesse sparso per i campi alla rinfusa i suoi freschi abbozzi per farli servire da modelli all’ arte dei mortali. Silenziosamente, mettiamo mano al chiavistello e apriamo la porta, lasciando che si richiuda alle nostre spalle facendo ricadere il paletto, e allunghiamo un passo all’ esterno affrontando l’aria tagliente. Le stelle hanno già perduto un po’ del loro scintillio; l’orizzonte è cinto da un orlo di bruma opaco, plumbeo. A oriente, uno sfrontato bagliore vivida proclama il prossimo avvento del giorno, mentre lo scenario a occidente ci appare ancora indistinto e spettrale, e come velato da una fosca luminescenza tartarea, che lo fa assomigliare al regno delle ombre. (…) Nel cortile, le orme fresche della volpe o della lontra ci fanno rammentare che ogni ora della notte è gremita di eventi, e la natura primitiva continua a operare e a lasciare tracce sulla neve. (…) In lontananza, frattanto, oltre i cumuli bianchi e attraverso le finestre impolverate di neve, scorgiamo il lume precoce del contadino emettere, pari a una smorta stellina, un brillio smarrito, come se proprio allora si stessero salutando laggiù i primi albori di qualche austera virtù. E, ad uno ad uno, ecco che tra alberi e nevi da ogni comignolo comincia a levarsi un fil di fumo. “

 

Henry David Thoreau, da “Una passeggiata d’inverno” (ed. Lindau, 2019. Primo racconto del libro omonimo)