Mari e oceani: 7 input per contribuire al loro benessere

 

Dire “mare” e dire “vacanze”, spesso è un tutt’uno: le sconfinate distese acquatiche fanno da sfondo alla maggior parte delle nostre estati. Il mare ci rilassa, ci permette di praticare numerosi sport e di effettuare lunghe traversate in barca. Lo amiamo perchè incarna l’idea stessa di “infinito”. Ma il mare è lì anche quando l’estate finisce, quando non lo vediamo, e una volta esaurita l’euforia vacanziera si fa pressante riflettere sul suo stato di salute. Plastica, rifiuti, inquinamento, perdita della biodiversità e una pesca selvaggia sono i mali principali che lo affliggono, per non parlare dei cambiamenti climatici. Eppure, il mare è sempre stato un alleato dell’ uomo. Tramite la pesca gli ha assicurato il sostentamento e grazie all’aria prodotta dalle piante acquatiche (circa il 70% di quella che respiriamo quotidianamente) ha contribuito alla sua sopravvivenza. Gli oceani, composti dal 97% di tutta l’acqua del globo, assorbono una grande quantità di anidride carbonica: non a caso, vengono considerati i “polmoni” della Terra. Ma visto il modo in cui sono ricambiati, evidentemente per molti è un dettaglio trascurabile. Immondizia – soprattutto in plastica come bottiglie, tappi, sacchetti, oggetti usa e getta – e mozziconi di sigaretta iniziano a proliferare sulle spiagge per poi propagarsi nel mare. L’ emergenza è concreta: l’ argomento è stato affrontato anche in occasione della Giornata Mondiale degli Oceani, l’8 Giugno scorso, che aveva come tema “Oceano: vita e sostentamento”. Sono molte le Organizzazioni Non Governative che si occupano del benessere dei mari, affiancate da associazioni costituitesi con il medesimo scopo. Il movimento globale 30×30, ad esempio, è composto da scienziati e ambientalisti internazionali che lottano per una causa comune: dichiarare “area protetta” il 30% delle acque e delle superfici terrestri. L’ obiettivo dovrebbe essere portato a termine entro il 2030, e ci auguriamo decisamente che vada a buon fine. Un altro problema rilevante è quello delle cosiddette reti fantasma. Depositate nelle profondità dei mari, reti da pesca abilmente occultate e gabbie adibite alla cattura di pesci e di  crostacei provocano la morte di innumerevoli creature acquatiche oltre a danneggiare la barriera corallina.

 

 

Cosa possiamo fare, in prima persona, per impedire che il mare e gli oceani si “ammalino” definitivamente? Innanzitutto, comportarci in modo responsabile. Bastano pochi gesti quotidiani e una reale presa di coscienza: il pianeta blu si può salvare, se ci impegnamo tutti insieme. Qui di seguito, ecco alcuni input.

  • Riciclare consapevolmente le bottiglie di plastica o evitarle in toto, preferendo materiali come il vetro e la carta. Non utilizzare oggetti in plastica, soprattutto quelli monouso: posate, piatti, sacchetti (l’ Italia li ha sostituiti, fortunatamente, con quelli biodegradabili), le già menzionate bottiglie, bicchieri e così via. Oltre ad inquinare le acque, vengono ingeriti dai pesci con conseguenze fatali. Si calcola che più della metà delle tartarughe marine mondiali, purtroppo, sia deceduta a causa dell’ ingestione di plastica.
  • Evitare di gettare i mozziconi di sigaretta non importa dove. Quando finiscono nel mare, il loro filtro può risultare letale se viene a contatto con la fauna ittica.
  • Non accumulare una quantità indiscriminata di rifiuti: moltissimi prodotti vengono eliminati attraverso le acque reflue. Un esempio? Le microplastiche, i pesticidi, i componenti chimici…I pesci e i molluschi che li ingeriscono, se non soccombono, sono vittime di forti intossicazioni che pregiudicano anche noi quando li mangiamo.
  • A proposito di consumo di pesce, è molto importante informarsi se quello che acquistiamo o ci accingiamo a degustare sia stato allevato in modo ecosostenibile. In tal senso, possono essere di aiuto app apposite che ci guidano in una scelta ocean-friendly del pesce che mangiamo.

 

 

  • Sapevate che le crocchette per cani e gatti vengono preparate utilizzando milioni di tonnellate di pesce di piccola taglia? Esattamente lo stesso che costituisce il pasto principale di pesci spada, merluzzi e tonni (per fare solo un esempio). Non è un caso che, di recente, si sia verificato un calo del 90% nel numero di queste specie ittiche.
  • Dal momento che gli oceani assorbono all’ incirca il 30% dell’ anidride carbonica terrestre, una delle conseguenze è una forte acidificazione delle acque. Il connubio con i danni provocati dal cambiamento climatico origina un mix devastante: le temperature degli oceani, aumentando di anno in anno, causano fenomeni come lo scioglimento dei ghiacciai; ma anche la perdita della biodiversità, dovuta a mari sempre più caldi e più acidi. Ciò mette a rischio la barriera corallina e la sopravvivenza  di molte specie. Ridurre l’ emissione di anidride carbonica è tassativo, se vogliamo salvaguardare il pianeta blu: evitiamo di utilizzare la macchina per i tragitti più brevi, preferendo (pandemia di Covid permettendo) i mezzi pubblici o, meglio ancora, una bella pedalata in bici.
  • Impegnarsi con un’ organizzazione per la tutela dei mari può essere uno spunto ulteriore per contribuire al loro benessere. Greenpeace, Sea Sheperd o il WWF sono le più note; potete cercare ulteriori nominativi in rete, informandovi sempre sulla concretezza e l’efficacia degli obiettivi che si prefiggono.

 

 

Foto: Francesco Ungaro via Unsplash

 

 

Giulia Pivetta: la moda tra fenomenologia e cultura giovanile

 

La osservi, e pensi che Giulia Pivetta sia una perfetta incarnazione del tipo di donna che più spesso descrive: l’ età è indefinibile, l’ aspetto a metà tra la donna adulta e un’ adolescente in via di sboccio, il look vagamente rétro. In realtà Giulia ha 33 anni, cinque libri e numerosi articoli già all’ attivo ed è impegnata su più fronti, ad esempio come docente alla Domus Academy di Milano. Ma quel che salta all’ attenzione è la sua ricerca, da sempre incentrata sulla moda come fenomeno sociale e sulle culture giovanili. La moda che Giulia racconta si interseca con la “strada”, con il fermento adolescenziale, con le evoluzioni del costume, e viaggia di pari passo con il mutare delle epoche e dei loro iter di stile.  Il suo studio approfondisce il punto d’ incontro tra estetica e cultura: Lolita, il dandy, il “Pink Feminism” delle Millennials sono solo alcuni dei temi inerenti al suo universo. Su tutti, risalta un’ indagine a 360° – o sarebbe meglio dire “una passione smisurata” – che ruota attorno agli anni ’60. E’ Giulia stessa a spiegarci da dove nasce, e molto altro ancora.

Cosa mi racconti di te e del tuo percorso?

Ho sempre avuto una grandissima propensione verso tutto ciò che è visivo, che riguarda l’immagine. Non so se è una questione generazionale o più personale, del modo in cui cresci…Però sono sempre stata molto attaccata alle immagini, soprattutto alle immagini degli abiti: quello che gli abiti rappresentavano per me nella mia vita, nella mia infanzia, anche in modo inconscio. Da lì mi è venuto il desiderio di fare la stilista. Questo è stato il mio primo input, per cui i miei studi dopo le superiori sono stati orientati al Fashion and Textile Design. Mi sono diplomata al NABA, ma non ho concretizzato il mio sogno perché, in quel momento, non sentivo l’ambiente canonico della moda particolarmente adatto a me. Avevo un’idea molto romantica, molto “rétro” se vuoi, della figura dello stilista, che non combaciava con la realtà dei fatti. Nel contempo mi sono avvicinata ai temi delle avanguardie storiche, delle culture, dello stile, tutto quello che lontano dalle passerelle accadeva e che alle passerelle, poi, in realtà parlava. Per cui mi sono specializzata in modo molto naturale in quello che ora è il mio mestiere: raccontare immagini e abiti che per me hanno rappresentato la felicità per tanti anni e anche tuttora. Ho iniziato a raccontare non tanto la situazione delle passerelle, ma come gli abiti e la moda fanno parte della vita quotidiana della gente, come dalle passerelle si vada a parlare di persone vere. Della moda, cioè, intesa come qualcuno che crea ma anche come qualcosa che ha a che fare con la vita delle persone. Le subculture e le avanguardie sono state un po’ un pretesto, perché non ti parlano di fashion design ma ti parlano di ragazzi. La cultura giovanile, l’adolescenza con la sua ribellione sono gli elementi fondamentali della mia ricerca.  ll mio è un cercare di raccontare con parole facili, ma non superficiali, che cos’ è la moda reale. E poi ci sono queste benedette immagini a guidarmi, questi vestiti che sono essenzialmente immagini. La scrittura per me è un veicolo, uno strumento, non il fine principale: non voglio fare la scrittrice.

 

Il titolo e il logo della copertina di “Ladies Haircult” (2016, ed. 24 Ore Cultura)

Docente, autrice, fine conoscitrice dei fenomeni di moda e di costume. Come ti sintetizzeresti in una definizione?

A volte vivo molto male, altre molto bene il fatto di non sentirmi racchiusa in una definizione. Per sintetizzare potrei dire che sono un’autrice giornalista, poi però bisognerebbe specificare “di moda e di costume”…Non amo le definizioni strette perché secondo me semplificano, e le semplificazioni banalizzano.

 

La copertina di “Dreamers & Dissenters” (2012, ed. Vololibero)

Nei tuoi libri volgi spesso lo sguardo allo stile e alla cultura pop anni ’60: cosa ti affascina di più, di quel periodo?

Sono stati un po’ il motivo scatenante che mi ha fatto aprire il vaso di Pandora: quando li ho scoperti, mi si è aperto davanti tutto un mondo. E’ facile capire cosa affascina degli anni ’60. Negli anni ‘60 c’è stata la sintesi e allo stesso tempo l’esplosione di un’estetica, di tante estetiche…Ho scritto un libro che è, appunto, una lode spassionata a questo decennio. Si intitola “Dreamers and dissenters” ed è illustrato da Matteo Guarnaccia. Nel libro prendo in analisi un’ epoca che definisco “di dissenzienti e sognatori” e racconto tutti gli stili nati allora. Ne abbiamo inseriti forse una trentina, ma ci siamo dovuti limitare! In soli dieci anni è nata una serie di input, al di là delle passerelle, su cui ci sarebbe stato da scrivere tanto altro ancora. E’ stato un decennio davvero ipercarico, con un’energia che si è concentrata come poche volte è capitato nella storia. Un fermento che ha coinvolto le gerarchie sociali, le estetiche, l’arte, la musica…

 

 

Le copertine di “Ladies’haircult” (2016) e “Barber Couture” (2014), ed. 24 Ore Cultura

La moda è, da sempre, legata a doppio filo all’ evoluzione del costume. Qual è il rapporto che le unisce e quale delle due influenza l’ altra per prima?

Diciamo che la moda non è fatta altro che di persone che guardano quello che succede, che sentono quello che sta per succedere e lo trasferiscono negli abiti. Per cui, c’è un po’ questo: la moda ruba dalla strada, dalle subculture ma anche dalle persone, prende ispirazione da quelle che sono espressioni autentiche di stile, poi le rilegge e le fa diventare una cosa poetica anche quando non c’è poesia. Ma questo è solo un aspetto. Dall’ altro lato è anche vero che lo stilista fa un lavoro di sintesi, di input, crea qualcosa di nuovo che diventa qualcos’altro e addosso alla gente diventa un’altra cosa ancora. Quindi, secondo me, è un continuo dare e ricevere tra una parte e l’altra. Anche perché il punto di contatto è rappresentato dagli stilisti, che sono uomini nel mondo…E oltretutto, sempre di più. Oggi il fashion designer lavora con un team di persone, è come se nel suo studio avesse una microcollettività, gli input vanno e vengono. E’ una cosa normalissima, un motivo di grande orgoglio per i designer di tutti i marchi più famosi: avere un team con cui lavorare attraverso uno scambio continuo.

 

La copertina di “Lolita. Icona di stile” (2016, ed. 24 Ore Cultura)

Nel 2016 hai analizzato in un libro il fenomeno di Lolita e delle “ninfette”, su Marie Claire è uscito un tuo articolo sul “Pink Feminism” delle Millennials. Come è cambiata l’affermazione del femminile, da Lolita in poi?

Sono due argomenti molto connessi, e non solo per via del rosa! L’ affermazione del femminile con Lolita si veste di un linguaggio, diciamo, “antico”, nel senso che è qualcosa che c’era già: Lolita incarna una tipologia di femminilità ancestrale, che però tramite lei inizia a parlare un linguaggio pop. Se vuoi anche grazie al film, perché nel momento in cui qualcosa di scritto prende una forma estetica e si fa immagine, diventa veicolabile a tutti. Questo è stato il grande apporto di Lolita. E poi, il nome: un nome che fosse attuale, moderno, e lo è tuttora. Un nome che fosse unico, perfetto per il momento in cui è uscito, per la persona che stava a rappresentarlo e per il tipo di femminilità che rappresentava. Da allora è cambiato il fatto che l’infanzia, o anche il lato bambino, giocoso, è diventata un valore, qualcosa da difendere e che non va buttata via insieme al primo paio di scarpe col tacco e al primo filo di rossetto. Ed è un valore che va preservato, mentre prima si lasciava alle spalle nel momento in cui si entrava nell’ età adulta.  “Pink Feminism” perché il rosa è il colore della donna, ma è anche un colore che rimanda molto all’ infanzia, quindi ha una doppia valenza. Poi ovviamente viene chiamato così anche per via del “Millennial Pink” e del successo pazzesco che ha avuto questo colore. Ma è un tipo di messaggio, quello che passano le femministe di oggi, che – e si vede anche nelle foto dell’articolo – non fa finta di essere qualcos’altro. Si rifà all’ infanzia, a uno spirito ancora molto presente in tutte le ragazze che hanno 18, 16 anni: non è che da un momento all’ altro ti dimentichi delle penne colorate che fino a due settimane prima avevi usato per scrivere nel tuo diario.

Nell’ articolo sottolinei che il “sistema lo combatti meglio se ne fai parte integrante”. Non pensi che, essendo l’arte una delle più alte forme di espressione umana, le artiste che citi operino da un punto di vista privilegiato?

Oggi tutto è molto più connesso, non esiste un milieu intellettuale che vive lontano dalle dinamiche del mondo e che quindi può permettersi certe cose perché tanto, poi, alla fine rimane immune da tutto. C’è sempre una ricerca personale, secondo me. Un percorso di indagine condotta anche sulla base della sensibilità individuale. Il sistema lo combatti meglio dal di dentro, se sei parte di esso: queste ragazze sono delle artiste, ma al tempo stesso lavorano come fotografe, registe…Fanno tante cose. Certo, si tratta   sempre di lavori che hanno una componente creativa molto alta. Ma è una scelta personale il fatto di fare un lavoro artistico a mille livelli, dove c’è una tua espressione propria o meno. E vale anche per tutte coloro che producono lavori che possono far parte del commercio, del sistema. Non noto divisioni così nette.

Dalla celebre t-shirt che recitava “We all should be feminists” ideata da M.Grazia Chiuri a molti altri esempi attuali, anche il mondo della moda è stato contagiato dalla vena femminista: tendenza o potente elemento amplificatore?

Dipende da quale espressione della moda si tratta. Parlando ad esempio di Dior, Maria Grazia Chiuri è una donna e quindi ha molto senso che voglia far arrivare a tutte, anche a livello di mainstream, quella frase.  Io non trovo che se il femminismo passa a più livelli, attraverso cioè un capo di abbigliamento, attraverso la moda, sia negativo. Gli abiti veicolano sempre dei messaggi, e piuttosto che un messaggio di distruzione preferisco che portino un messaggio di coscienza e di autocoscienza. Penso che è nella natura della moda trasmettere messaggi. Poi, che la gente sia conscia o meno del messaggio che sta portando addosso, è un altro discorso.

 

Luca Rubinacci. Foto © Mattia Balsamini tratta dal libro “Dandy. Lo stile italiano” (2017, ed. 24 Ore Cultura)

In “Dandy. Lo stile italiano”, il tuo ultimo libro, ti occupi di questa storica figura maschile e del suo universo. Qual è l’identikit di un dandy italiano del nuovo millennio?

Nel libro esistono dei caratteri che accomunano tutti, poi ovviamente ognuno li declina a proprio modo e si vede. Ognuno ha la sua identità. A livello stilistico è il fatto di conoscere quello che si indossa, cioè sapere che alla base di un abito o alla base dell’abbigliamento c’è la cultura, e soprattutto arrivare all’ abbigliamento attraverso la cultura. Che non vuol dire una mera ricerca estetica dal punto di vista delle forme, ma è tutto quel compete la cultura tessile, la cultura della manifattura, la cultura dell’artigianalità, la storia…Questo, a mio avviso, è il leitmotiv presente nell’ identikit di un dandy italiano. Poi è ovvio che se mi chiedi dei dettagli estetici tipo “ha la pochette” piuttosto che “le scarpe verdi”, fatico a dirlo. I protagonisti del mio libro sono molto diversi tra loro ed una cosa che, a mio parere, li accomuna, è quella di riuscire a amalgamare molti mondi, di non rimanere ancorati alla sartoria artigianale. Mescolare un abito fatto a mano con qualcosa, magari, di origine militare o che arriva dagli anni ’60. Secondo me è fondamentale.

 

Luigi Presicce nella copertina di “Dandy. Lo stile italiano”. Foto © Jacopo Menzani e Tommaso Majonchi.

Chi rappresenta maggiormente, oggi, la quintessenza del dandy del Bel Paese?

In realtà lo fanno tutti. Io i “miei dandy” li ho scelti proprio perché per me tutti rappresentano – per un motivo o per l’altro – quella figura, per cui non ho preferenze. Potrebbe essere Alessio Berto come Gerardo Cavaliere, i fratelli Guardì…Oppure Luigi Presicce, l’artista in copertina. Dandy lo sono un po’ tutti, li ho selezionati con cura! Ognuno di loro è esemplificativo di un carattere ben preciso.

 

Rodolfo Valentino. Foto © Ullstein Bild / Alinari

Hai qualche progetto in serbo di cui mi vorresti parlare?

Assolutamente sì: è un progetto che si sta chiudendo in questi giorni, ma fino a un nuovo ordine non posso pronunciarmi. Ti aggiornerò appena posso!

 

Sergio. Foto © Giulia Gasparini

Barnaba Fornasetti. Foto © Mattia Balsamini

Tavolo del Maestro Liverano. Foto courtesy Liverano & Liverano