Giorni della Merla: i giorni più freddi dell’anno e la tradizione culinaria marchigiana

 

A causa dei cambiamenti climatici e del riscaldamento globale, è improbabile che i giorni della Merla continuino ad essere i “più freddi dell’anno”. Le tradizioni, però, rimangono e ci piace immaginarli tali. Nel folklore italiano si identificano con gli ultimi tre giorni di Gennaio, ovvero il 29, il 30 e il 31: date associate sin da tempi remotissimi a leggende che vedono come protagonisti una merla, o dei merli, dal piumaggio immacolato e la collera del primo mese dell’anno. VALIUM ne ha parlato molte volte (potete rileggere qui  l’ultimo post), ma voglio ricordare la leggenda più celebre a grandi linee. Si narra che Gennaio si divertisse a far dispetti ad una merla dalle candide piume ogni volta che usciva dal suo nido. Non appena la merla metteva piede fuori casa, il perfido mese scatenava vento, piogge scroscianti e bufere di neve. Un giorno, allora, la merla ebbe un’idea: era la fine di Dicembre quando decise che avrebbe fatto provviste di cibo e non sarebbe uscita per tutto Gennaio. All’epoca, il primo mese dell’anno durava solo 28 giorni. Il 29, la merla emerse trionfante dal suo nido e lo canzonò perchè era riuscita a beffarlo; così Gennaio, furibondo, chiese in prestito tre giorni a Febbraio e le scagliò addosso terribili tempeste e tramontane. Dal 29 fino al 31 Gennaio, dunque, la merla fu costretta a ripararsi in un comignolo. Riuscì a scampare a quel periodo di burrasca, ma quando uscì dal suo rifugio le piume nivee che ostentava erano diventate nere di fuliggine, e così rimasero per sempre. Questa leggenda è nota un po’ in tutta Italia, tuttavia pare che le sue origini affondino nel Friuli, in Trentino e in zone come il cremonese, il folrivese, in Maremma e nel Cesenate. Alle tante usanze dei giorni della Merla, legate indissolubilmente alla cultura agreste, si aggiungono piatti tradizionali che variano da regione a regione.

 

 

Nelle Marche, dove vivo, si rimane fedeli a un proverbio che recita: “Se li gljorni de la merla voli passà, pane, pulenta, porcu e focu a volontà!” (se vuoi passare bene i giorni della Merla, pane, polenta, maiale e fuoco del camino a volontà). Ciò significa che la polenta predomina, accompagnata rigorosamente da fette di ciauscolo (un salame tipico della zona) e da un buon calice di Rosso Conero o Piceno. Il focolare, va da sè, è il must imprescindibile che dona calore e suggestività ai giorni più freddi dell’anno, e c’è proprio da sperare che lo siano: secondo il sapere popolare, infatti, dei giorni della Merla tiepidi e assolati preannunciano una Primavera che tarderà ad arrivare; se sono gelidi, al contrario, la Primavera sarà mite e rigogliosa.

 

L’agrifoglio: simbologia e miti di uno degli emblemi del Natale

 

In Inverno, le sue bacche rosse fuoco punteggiano il candore della neve. L’agrifoglio è inconfondibile. A Natale, fa bella mostra di sé in ricche ghirlande e scenografiche decorazioni ornamentali: non a caso, è uno dei più noti emblemi delle feste natalizie. Partiamo con una premessa. L’agrifoglio, innanzitutto, non ha niente a che vedere con il pungitopo; il primo, l’Ilex Aquifolium, è una pianta appartenente alla famiglia delle Aquifoliaceae, mentre il secondo, il Ruscus Aculeatus, proviene dalla famiglia delle Asparegaceae. Entrambi erano utilizzati per allontanare i topi dalle provviste alimentari, ma presentano notevoli differenze. L’agrifoglio, infatti, ha delle foglie pungenti, dalla forma seghettata e color verde scuro. A confonderlo con il pungitopo è stato il nome di pungitopo maggiore che gli è stato affibbiato. Le due piante, inoltre, in Inverno maturano le loro bacche e fanno immancabilmente parte delle decorazioni natalizie. Ma torniamo all’agrifoglio, e scopriamo perchè viene considerato un simbolo del Natale. Anticamente, con l’arrivo del Solstizio d’Inverno, l’Ilex Aquifolium aveva una funzione di buon auspicio. Maturando proprio in quel periodo, rientrava tra i preparati erboristici di cui gli agricoltori si avvalevano per combattere gli acciacchi stagionali: bastava lasciare a mollo le foglie nel vino novello e poi bere il portentoso infuso.

 

 

All’agrifoglio, tuttavia, venivano attribuiti poteri magici anche in tempi più remoti: era il 100 a.C. quando Plinio Il Vecchio esortava i romani a coltivarlo nei pressi delle loro case, poichè le sue foglie spinose avrebbero creato una barriera contro la negatività e gli spiriti maligni. Gli antichi romani solevano adornarsi di agrifoglio durante i Saturnali, le feste in onore di Saturno (dio della semina e dell’agricoltura) che si tenevano ogni anno dal 17 al 23 Dicembre: i rametti di agrifoglio li avrebbero preservati dalla malasorte. Questa pianta, dunque, veniva considerata un amuleto che teneva a debita distanza i malefici. Sempre nell’antica Roma, per propiziare la fortuna, si usava regalare un rametto di agrifoglio alle coppie di giovani sposi. Per i Celti, la pianta dell’agrifoglio era addirittura sacra. Con il suo legno costruivano armi e scudi, in più la utilizzavano a mò di talismano durante i rituali. Il fatto che l’agrifoglio resistesse ai fulmini determinò la sua associazione con Thor e Taranis, divinità del tuono della mitologia norrena: non di rado, l’agrifoglio veniva usato come parafulmine nei paraggi delle abitazioni. I Druidi ritenevano che l’Ilex Aquifolium proteggesse dalle forze del male; in quanto pianta sacra, poi, era assolutamente proibito tagliare il suo tronco sebbene il divieto non riguardasse i rami. La funzione protettiva attribuita all’agrifoglio, senza dubbio, fu ispirata dalle foglie pungenti che la pianta usa a scopo difensivo.

 

 

La pianta sacra degli antichi Celti rientra anche tra i miti di Yule, il Solstizio d’Inverno: simboleggiando la metà più buia e gelida dell’anno si associava al Re Agrifoglio, raffigurato come un anziano perennemente sorridente dalla lunga barba bianca. Il Re Agrifoglio, a ogni Solstizio, lottava contro il Re Quercia, impersonificazione dei mesi in cui il Sole torna a splendere, e l’uno aveva la meglio sull’altro a fasi alterne. Il Solstizio d’Inverno sanciva il trionfo del Re Quercia sul Re Agrifoglio, favorendo il ritorno progressivo della luce; durante il Solstizio d’Estate, invece, era il Re Agrifoglio a vincere il combattimento: ciò determinava la graduale ricomparsa dell’oscurità e l’assopimento della natura. Le figure del Re Quercia e del Re Agrifoglio erano strettamente connesse, l’una non avrebbe mai potuto esistere senza l’altra. I due Re si fronteggiavano in un equilibrio perfetto, così come perfettamente armonico era il trionfo del primo sul secondo e viceversa. Con l’avvento del Cristianesimo, l’agrifoglio divenne il principale ornamento natalizio. Questa usanza prese piede in Irlanda; chiunque, persino i più poveri, avrebbe potuto procurarsi dei rametti di agrifoglio per decorare la propria casa. In quel periodo, per via delle foglie, la pianta cominciò a simbolizzare la corona di spine di Cristo, le bacche rosse vennero associate al suo sangue e i fiori bianchi alla purezza della Vergine Maria. All’ Ilex Aquifolium è legata una splendida leggenda che ha per protagonisti un orfanello e Gesù Bambino. L’orfanello, quando ebbe notizia della nascita di Gesù, corse a Betlemme per regalargli una corona di alloro. Ma poi, considerando il suo dono troppo modesto, esplose in un pianto irrefrenabile. Gesù Bambino, per consolarlo, tramutò quindi in bacche rosse le sue lacrime e la corona di alloro in una corona di agrifoglio, che sarebbe stata per lui di buon auspicio e lo avrebbe protetto dal male.

 

 

Foto via Pixabay e Unsplash

 

Il noce di Benevento: l’albero delle streghe tra leggenda, realtà e superstizione

 

Attorno al noce, l’albero che i Romani consacrarono a Giove (il nome botanico della pianta, Juglans regia, deriva da “Jovis glans”, in latino “la ghianda di Giove”), sono sorte innumerevoli leggende. Cominciamo col dire che, anticamente, alle noci si attribuivano delle portentose virtù curative: venivano considerate afrodisiache per la loro somiglianza con le gonadi dell’uomo, e benefiche per le emicranie in quanto la parte interna del frutto ricorda la forma di un cervello. L’albero della noce, tuttavia, nel corso dei secoli non si guadagnò lo stesso tipo di reputazione. Le sue radici contengono juglandina, una sostanza potentemente tossica che provoca il deperimento di tutte le specie vegetali sorte nelle vicinanze: ecco perchè il noce è una pianta così solitaria, raramente immersa nel fitto verde. Il Juglans regia, inoltre, veniva definito “maledetto” poichè con il suo legno era stata costruita la croce su cui venne crocifisso Gesù Cristo. La nomea negativa del noce era alla base di molte credenze, in particolare nell’ ambito della cultura agreste. Si pensava che addormentarsi sotto un noce avrebbe portato a soffrire delle forti emicranie, o che se le radici del noce si fossero sviluppate sotto una stalla avrebbero fatto soccombere il bestiame. Ma questa reputazione “maledetta” deriva soprattutto dal noce di Benevento e dalla sua associazione con le streghe, dal momento che si diceva che proprio ai piedi di quell’albero celebrassero il loro sabba.

 

Illustrazione tratta da “Istoria della città di Benevento dalla sua origine fino al 1894” di Enrico Isernia, Benevento, Stabilimento Tipografico A. D’Alessandro e Figlio, 1895.

Le leggende riguardo al noce di Benevento presero vita in epoche remotissime, ma si consolidarono nel 1200. Prima di recarsi al sabba, le streghe si sfregavano il petto con un unguento e pronunciavano una formula magica; dopodichè, si libravano in volo a cavallo di una scopa. Grazie all’ unguento diventavano invisibili, puro spirito che fluttuava nel vento, tant’è che adoravano volare nella tempesta. L’ appuntamento era fissato per tutte sotto il noce di Benevento, dove si riuniva una moltitudine di streghe provenienti dalle località più disparate. Lì, durante il sabba, praticavano riti magici e blasfemi, danzavano, si lanciavano in orge sfrenate con i demoni e gli spiriti infernali…il tutto alla presenza del Demonio che sfoggiava le sembianze di un caprone. A Benevento le streghe venivano chiamate “janare”: prima della Seconda Guerra Mondiale, quando fu bombardato, esisteva un ponte dal quale si diceva che spiccassero il volo.

 

“Il grande caprone”, Francisco Goya (1795)

Una volta terminato il sabba, le streghe si dedicavano ai malefici e ad azioni terribili nei confronti degli abitanti del luogo. Si introducevano nelle case attraverso la fessura del portone, il che non era difficile data la loro consistenza incorporea, e infastidivano le famiglie addormentate: le sferzavano con una raffica di vento, oppure le opprimevano provocando un senso di soffocamento scaturito da una forte pressione sul petto. Ma non si limitavano certo a questo: le streghe erano in grado di far abortire le partorienti con un semplice incantesimo, storpiavano i neonati infliggendo loro un insopportabile dolore e a volte li rapivano per lanciarseli l’un l’altra sopra le fiamme del fuoco. Si diceva anche che, quando si intrufolavano nelle stalle, riempivano di trecce la criniera dei cavalli e che li riconsegnassero provatissimi dopo averli cavalcati per l’intera notte. Secondo antiche superstizioni, per tenere le streghe a distanza bisognava mettere una scopa e una ciotola di sale dietro la porta principale della propria casa: la strega non sarebbe potuta entrare senza aver contato, prima, tutte le setole della scopa e tutti i granelli di sale, ma a quel punto la luce del giorno l’avrebbe obbligata a fuggire.

 

“Départ pour le Sabbat”, cartolina di Albert Joseph Pénot (1910)

Ma dove si trovava, esattamente, il noce di Benevento? A dire di alcuni, nei paraggi del fiume Sabato (Sabatus in latino), da lì l’associazione con il sabba. Questa ubicazione fu detta Ripa delle Janare, però esistono molte altre ipotesi sulla collocazione dell’albero. Considero più importante sapere da dove ha preso vita la leggenda del noce delle streghe: nel VII secolo, Benevento era la città principale di un ducato longobardo, e il popolo germanico usava praticare dei raccapriccianti rituali pagani. All’epoca, sotto la reggenza del duca Romualdo I, i longobardi erano soliti onorare Odino con un rito piuttosto inquietante: il luogo in cui si svolgeva, guarda caso, si trovava proprio accanto al fiume Sabato. Dopo aver appeso la pelle di un caprone al ramo di un noce, i longobardi galoppavano sfrenatamente intorno all’albero tentando di strappare lembi della pelle con le loro lance. Poi, si cibavano dei brandelli come prevedeva il rituale. I cristiani di Benevento, sconvolti da quella pratica ai loro occhi barbara, cominciarono ad accostarla al sabba. Le urla dei guerrieri, la pelle di caprone, il trambusto provocato dal rito vennero associati, dai beneventani, a una riunione orgiastica organizzata dal Demonio e dalle streghe.

 

“Il noce di Benevento”, Giuseppe Pietro Bagetti (1816)

Barbato, un sacerdote di Benevento, espresse più volte la sua avversione per quella pratica pagana. Così, quando nel 663 la città fu assediata dai Bizantini, promise al duca Romualdo che gli invasori sarebbero arretrati grazie all’ intervento divino ma ad una condizione: il suo popolo avrebbe dovuto abbandonare il Paganesimo. Il duca acconsentì e, miracolosamente, i Bizantini batterono in ritirata. Secondo la leggenda, il duca Romualdo nominò Barbato vescovo di Benevento e quest’ ultimo corse subito a sradicare il famigerato noce. Nella località in cui sorgeva l’albero fece poi costruire una chiesa che chiamò Santa Maria in Voto. Nel Medioevo, tuttavia, a Benevento si ricominciò a parlare dei convegni delle janare. Due secoli dopo, queste voci vennero avvalorate da una donna accusata di stregoneria: secondo la sua testimonianza, le streghe erano solite riunirsi attorno a un noce. Lo scalpore suscitato dalla notizia fu immenso. Il Demonio aveva fatto sicuramente ricrescere l’albero che Barbato aveva abbattuto! Nel 1500, il ritrovamento di un mucchio di ossa sotto un noce riaccese i riflettori sulla vicenda. Tra le ipotesi sull’ origine della leggenda del noce di Benevento, quella relativa a Barbato (poi diventato Santo e Santo Patrono di Benevento) e ai riti dei Longobardi rimane, senza dubbio, la più accreditata. A tutt’oggi il mito del noce di Benevento continua ad affascinare, e le adunanze delle streghe hanno contribuito a creare un’aura magica su tutta la città campana e i suoi dintorni.

 

“El Alquelarre”, Leonardo Alenza y Nieto (1830-1845)

“La sorcière allant au Sabbat”, Luis Ricardo Falero (1880)

“Il Sabbath delle streghe”, Francisco Goya (1819-1823)

“La leçon avant le sabbat”, Louis-Maurice Boutet de Monvel (1880)

“Le Sabbat des sorcières”, Hans Baldung Grien (1508-1510)

 

Immagini

Foto di copertina di Моходу Хеу, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, da Wikimedia Commons

Dipinti, cartoline e incisioni Public Domain via Wikimedia Commons