“To my Valentine”, il rito più romantico di San Valentino

 

La parata di vintage card che VALIUM ha pubblicato a Natale (clicca qui per rivederla), merita un sequel in occasione di San Valentino. Eh già: la tradizione tutta anglosassone delle “Valentine” annovera card magnifiche, davvero troppo belle per essere trascurate. Inviarne una all’ amato (o all’ amata) rappresenta tuttora un must del San Valentino negli USA e nel Regno Unito. Ma com’è nata questa usanza? Pare che abbia origini antichissime, addirittura risalenti alla Guerra dei Cent’Anni. Si dice che nel 1415, dopo la battaglia di Azincourt, Charles d’Orléans inviò un romanticissimo biglietto alla consorte mentre era prigioniero nella Torre di Londra. Oggi, quella cartolina viene considerata il prototipo delle Valentine ed è stata addirittura esposta al British Museum. Il duca d’ Orléans introdusse inconsapevolmente un rito che ha attraversato i secoli con il suo alone di profonda poesia. Le cartoline di San Valentino, nel 1500, erano ormai una tradizione consolidata, ma fu durante l’ epoca vittoriana che conobbero un vero e proprio boom.

 

 

In quel periodo in Inghilterra fu introdotto il Penny Post, una spedizione al costo di un Penny per l’ invio della corrispondenza. La nuova tariffa, decisamente economica, incrementò l’ usanza degli Auguri del 14 Febbraio in modo esponenziale. La grafica delle cartoline divenne sempre più ricca: carta intagliata a effetto pizzo, fotografie ritoccate, rebus e acrostici proliferavano, alternando la tenerezza agli enigmi incentrati sul nome della persona amata. Ad essere raffigurati erano soprattutto Cupido e dolci angioletti affiancati da fiori, cuori, colombe, ghirlande floreali….tutti rispondenti a un simbolismo ben preciso. Gli angeli fungono da trait d’union con il divino, mentre il linguaggio dei fiori lancia messaggi inequivocabili. La colomba è un emblema di amore puro, impersonato anche dai bambini frequentemente riprodotti sulle card. E se la rosa rossa  rappresenta la passione, è tutto fuorchè carnale il sentimento che celebrano le cartoline. La ricorrenza di San Valentino viene associata all’ amore autentico, eterno: la freccia di Cupido punta dritta al cuore e lo fa suo per sempre.

 

 

Negli Stati Uniti le Valentine si diffusero intorno al 1800, e con l’artista Esther Howland raggiunsero l’apice dell’ estro illustrativo: le card che creava erano adornate di nastri, di merletti, non di rado anche di foglie e petali. Alla raffinatezza delle sue opere si contrapponevano elaborati esemplari che spaziavano tra il pop up e il 3D. Nei primi anni del ‘900, la Norcross si impose come azienda leader nella produzione di Valentine, un dato indicativo ai fini di rilevare quanto fosse radicata questa tradizione. Attualmente, come ben sappiamo, gli auguri di San Valentino vengono inviati soprattutto via smartphone, con le app di messaggistica. Il che mi ispira una considerazione: dovremmo ripristinare il rito delle Valentine. E’ di gran lunga più poetico, ma non solo. Oltre che le coppie, di questo “ritorno al cartaceo” potranno beneficiare i single. Che cosa c’è di più romantico, infatti, che rivelare i nostri sentimenti per iscritto – e tramite un gesto vagamente d’antan – a chi vorremmo come partner? Se siamo sulla stessa lunghezza d’onda, il prossimo San Valentino lo passeremo in coppia. Garantito!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Una Valentine di Esther Howland

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Foto, dal basso verso l’alto.

N. 2 via Joe Haupt from Flickr, CC BY 2.0

N. 18 via Joe Haupt from Flickr, CC BY-SA 2.0

N.5  via Dave from Flickr, CC BY-ND 2.0

N. 17  via Peter -J – Pann from Flickr, CC BY 2.0

N. 11 via National Library of Norway [No restrictions]

N. 13 via Dave from Flickr, CC BY-ND 2.0

N. 12 via Peter-J-Pann from Flickr, CC BY 2.0

 

 

“Judy”, lo struggente biopic su Judy Garland

 

” Somewhere over the rainbow
Bluebirds fly
And the dreams that you dream of
Dreams really do come true “

(Da “Over the Rainbow”, che Judy Garland canta ne “Il Mago di Oz”)

 

Forse, Judy Garland non aveva mai covato il sogno di diventare un’attrice. Per lei, figlia di due performer del vaudeville, debuttare sul palco di un teatro era stato naturale, quasi ovvio. Ce lo conferma Oriana Fallaci nel libro “I sette peccati di Hollywood” (1958), dove la Garland così si esprime durante un’ intervista: ” Non avevo mai chiesto di diventare una attrice. Non sono mai stata bella, non sono mai stata una Duse e tutto quello che so fare è cantare. Ma decisero di farmi diventare un’attrice da quando avevo dieci anni e cantavo con papà e le sorelle in teatro. Mi vide un tale della MGM e poi mi fece un provino e io divenni proprietà della MGM. ” Così ebbe inizio la carriera di una delle più leggendarie icone della storia del cinema. Nel 1939, quando uscì “Il Mago di Oz” di Victor Fleming, Judy aveva già preso parte a tre film e la sua fama si era diffusa in tutti gli Stati Uniti, ma fu il ruolo di Dorothy a consacrarla giovane stella del panorama hollywoodiano. La Garland aveva appena 17 anni, e un anno dopo il film di Fleming le valse un Oscar Giovanile. Pare, però, che proprio durante la lavorazione de “Il Mago di Oz”, per mantenersi in forma e sostenere i ritmi pressanti del set, venne spronata ad assumere quegli psicofarmaci che si tramutarono in una costante della sua vita. Una costante nefasta, naturalmente, che 30 anni dopo contribuì a determinare il suo declino. E’ a questo periodo che fa riferimento “Judy”, il biopic di Rupert Goold appena uscito nelle sale. Una straordinaria Renée Zellweger veste i panni della Garland nel suo ultimo anno di vita, il 1969: a quell’ epoca, l’ ex “enfant prodige” annoverava nel curriculum quasi 40 pellicole, due nomination degli Academy Awards e un Golden Globe, ma l’esistenza che conduceva era tutto fuorchè dorata.

 

Un ritratto fotografico di Judy Garland

Quattro divorzi sommati ad anni di eccessi, abuso di farmaci e depressione l’ avevano segnata fisicamente e psicologicamente, con gravi ripercussioni sulle sue condizioni economiche. La nomea di “inaffidabile” la rincorreva e diradava i contratti cinematografici, le banche si rifiutavano di erogarle prestiti. Sola e con i figli Joey e Lorna a carico (era in lotta per la custodia con l’ex marito Sidney Luft), licenziata dalla Metro-Goldwyn-Mayer dopo il flop del film “L’allegra fattoria” (1950), nel 1969 Judy Garland decise di volare a Londra per una serie di concerti destinati a rilanciare la sua carriera. Seppure a malincuore, si separò dai figli e da Mickey Deans, un uomo d’affari che divenne il suo quinto marito. Nella capitale inglese, accudita dall’ onnipresente assistente Rosalyn, l’ attrice firmò un contratto di cinque settimane per esibirsi nel nightclub “The Talk of the Town”: furono serate in cui eccezionali performance e crolli emozionali si alternarono a ritmo continuo. In parallelo con questa caotica fase esistenziale, il film mostra la Judy “del successo”, l’ adolescente che nel 1939 conquistò il pubblico dopo il lancio in grande stile che organizzò per lei la Metro-Goldwyn-Mayer. Ma dietro al glamour hollywoodiano, al di là della parvenza della perfezione, non era esattamente oro tutto quel che luccicava. Per “creare” i loro divi, le major ne pianificavano la vita a trecentossessanta gradi. Raggiungere la fama era un obiettivo perseguito attraverso vere e proprie macchine da guerra, che non di rado stritolavano le star in erba: costretta a una dieta perenne, calata in una quotidianità in cui le torte di compleanno erano fake per ostentare sfarzo, Judy Garland scoprì ben presto l’altro volto del successo.

 

Da “Il Mago di Oz” di VictorFleming (1939)

Snodandosi sui due piani temporali del 1939 e del 1969, che continuamente alterna, il film mette  a raffronto la Judy degli esordi con quella del crepuscolo, intrappolata nella sua spirale autodistruttiva. All’eccesso di controllo a cui venne sottoposta durante l’ adolescenza si contrappone il subbuglio emotivo degli “anta”: come filo conduttore, un talento che si accompagna a una sensibilità finissima, a un costante bisogno di amore.  Delle doti che se da un lato “nutrono” l’artista, dall’ altro finiscono per scontrarsi con il mondo sfavillante, certo, ma spesso anche spietato dello show business.

 

Dal film “Nuvole Passeggere” (1946), registi vari

Adattato dalla pièce teatrale “End of the Rainbow” di Peter Quilter, “Judy” (guarda qui il trailer) ha già fatto l’ en plein di premi in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Una menzione speciale va a Renée Zellweger, che si è calata perfettamente nel ruolo della protagonista: un’ interpretazione, la sua, talmente fedele di Judy Garland da rievocarne persino la gestualità e il modo di parlare. Nei paesi anglosassoni, dove il film è già uscito da mesi (a Settembre negli USA, a Ottobre nel Regno Unito), i riconoscimenti di cui la Zellweger è stata insignita sono innumerevoli. Per citane solo alcuni, la candidatura al Premio Oscar 2020 come migliore attrice, il Golden Globe e il Premio BAFTA 2020. Senza tralasciare, inoltre, la standing ovation interminabile che le è stata tributata al Toronto International Film Festival: il meritato elogio alla verve drammatica di un’attrice che, nel 2001, il mondo aveva imparato a conoscere nelle vesti della buffa e pasticciona Bridget Jones.

 

Al Greek Theater di Los Angeles nel 1957

Con John Hodiak nel film “The Harvey Girls” (1946)

 

 

Ritratto a colori di Judy Garland via Kate Gabrielle from Flickr, CC BY 2.0