Da “Doppio Sogno” a “Eyes Wide Shut”: un viaggio notturno e onirico tra Eros e Thanatos

In queste sere di coprifuoco sto riscoprendo film che avevo visto tempo fa e che, anche dopo anni, non smettono di affascinarmi. “Eyes wide shut” è uno di questi: l’ ultimo film girato da Stanley Kubrick – anticipato ieri da una citazione tratta da “Doppio sogno”, la novella di Arthur Schnitzler alla quale Kubrick si è ispirato per il suo adattamento – è a mio parere una vera e propria perla della cinematografia. Ho pensato di riportare qui di seguito, quindi, una breve recensione della pellicola che scrissi nel 2011.

Le sere splendenti di luminarie, i locali affollati, i colori delle luci intermittenti e i marciapiedi bagnati dalla pioggia: uno scenario natalizio che mi riporta, ogni anno, a una New York notturna la cui aria di festa non riesce a celare le sotterranee ambiguità, ma anche a una Vienna fin de siècle mirabilmente descritta nelle sue realtà enigmatiche. Sono i luoghi che Stanley Kubrick, e ancor prima Arthur Schnitzler, hanno immortalato tramite differenti forme artistiche, ma con un risultato sublime in entrambi i casi: non è un caso che “Doppio sogno” (1925), la suggestiva novella di Schnitzler, sia stata adattata da Kubrick con il titolo di “Eyes wide shut” (1999), dove viene magicamente tradotta per immagini in uno dei film che più amo. L’ antica Vienna diventa una New York odierna ricca di simbolismi e di insidie, almeno così come appaiono nella percezione di Bill (Tom Cruise), il medico newyorchese protagonista della pellicola. Quando Alice (Nicole Kidman), sua moglie, gli racconta di aver sognato di tradirlo con un giovane ufficiale, sprofonda in un baratro di incertezze. In quel momento crollano la rassicurante ritualità e la scontata quotidianità di un rapporto che, fino ad allora, scorreva placido lungo i binari dell’esistenza. Ma un sogno è poi solamente un sogno?

Alberi di Natale e luci natalizie si susseguono quasi in ogni scena del film. Oltre a possedere una valenza emblematica, caratterizzano potentemente la pellicola.

Comincia così il viaggio notturno di Bill in una New York pre-natalizia, un viaggio in cui Eros e Thanatos si intrecciano di continuo e la realtà si rivela completamente agli antipodi della sua apparenza. L’ universo della trasgressione lo pone di fronte all’ essenza sfaccettata delle cose e delle persone, come un perenne gioco di specchi che lo lascia sconvolto dopo ogni nuova, traumatica scoperta: la prostituta “gentile” dalla quale si congeda prima di consumare un rapporto risulterà positiva all’ Aids, la figlia adolescente del venditore di costumi in maschera, che fa infuriare il padre mentre flirta con due giapponesi di nascosto, è spinta a prostituirsi proprio da costui. L’ orgia segreta nella villa in cui Bill si è introdotto, dulcis in fundo, si conclude con la sua espulsione enfatizzata da minacce e con la morte di una splendida donna sacrificatasi per lui, in un macabro gioco a metà tra verità e messinscena. La stessa New York ritratta di notte, le cui luci natalizie (oltre che gli onnipresenti alberi di Natale) rimandano a connotazioni di tipo familiare, fiabesche e oniriche al tempo stesso, dischiude al protagonista le porte di un mondo che gli è estraneo, impenetrabile, oscuro e intriso di pericoli. Al suo ritorno a casa, Bill trova Alice in preda a un incubo. Seguendo una struttura narrativa circolare, il racconto di un sogno apre e conclude il viaggio del medico newyorchese. Sua moglie, piangendo, gli rivela che stava sognando di accoppiarsi con una moltitudine di sconosciuti…una situazione stranamente simile al rito orgiastico a cui ha assistito Bill. Ancora una volta, dimensione onirica e realtà si sovrappongono, confondendo il mondo razionale dell’io e quello imperscrutabile dell’ inconscio. La soluzione sembra univoca: riscoprire la sessualità all’ interno della vita coniugale, con i suoi rassicuranti riti. Ma basterà a tener lontani i fantasmi che i sogni hanno risvegliato?

(Foto di copertina: il manifesto originale di “Eyes Wide Shut” della Warner Bros.)

“Dumbo” da oggi nelle sale: Tim Burton fa rivivere la fiaba dell’ elefantino volante Disney

 

Torna l’elefantino più amato del mondo: l’uscita nelle sale di “Dumbo”, remake del celebre classico Disney del 1941, è prevista proprio per oggi 28 Marzo. A farlo rivivere sul grande schermo sarà un regista d’eccezione, il visionario Tim Burton, che ha diretto una pellicola interamente in “live action” valorizzata da un cast di prima grandezza. Tra i protagonisti appaiono star del calibro di Colin Farrell, Danny De Vito, Eva Green, Michael Keaton, e possiamo esser certi che apporteranno un vortice di emozioni aggiuntive ad un film già di per sè commovente: chi non conosce la storia di Dumbo, l’ elefantino volante? Tim Burton la impregna di magia, raccontandola con il suo stile fiabesco e fortemente onirico. E’ così che ritroviamo personaggi come Holt Farrier (Colin Farrell), che dopo la guerra torna al suo ruolo di artista circense. Il direttore del circo di cui fa parte, Max Medici (Danny De Vito), lo incarica di accudire un baby elefante nato con una strana particolarità: ha delle orecchie smisurate. A causa di ciò, Dumbo (questo il nome del piccolo) viene continuamente schernito; almeno fino a quando Joe e Milly, i figli di Holt, scoprono che è in grado di volare grazie ad una piuma incantata. Da quel momento il circo, allora in crisi, vede risollevate le sue sorti. Il numero del volo di Dumbo riscuote un successo tale che lo scaltro imprenditore V.A.Vandevere (Michael Keaton) porta l’elefantino con sé a Dreamland, il parco di divertimenti che ha appena inaugurato, dove lo fa esibire insieme alla trapezista Colette Marchant (Eva Green). Ma non è tutto oro quel che luccica, e Holt ben presto scopre che il mondo scintillante di Dreamland nasconde un lato oscuro. Quando viene allontanata la mamma di Dumbo se ne ha un esempio eloquente: il cucciolo è devastato, le sue abilità sembrano svanire. Senza fare spoiler, posso solo dirvi che sopraggiungerà un lieto fine e che il nostro eroe ritroverà la felicità. Tim Burton tramuta il cartoon Disney in una fiaba perfettamente incastonata nella sua poetica, dove il valore della diversità viene affiancato a quelli della famiglia e dei sogni. Con le sue enormi orecchie, Dumbo rientra nella “gallery” dei freak che fanno da leitmotiv alla filmografia del regista, ma è in buona compagnia: quasi tutto lo staff di Max Medici, in fondo, dà vita a una sorta di Circo Barnum. Quel che conta sono complicità, la solidarietà,  il senso di “l’unione fa la forza” che si instaurano tra questi fenomeni, la capacità di saper essere famiglia. La purezza del sogno viene distrutta dal marciume che si cela dietro una facciata fuorviante, però alla fine trionferà e sancirà la vittoria dell’ amore autentico, incondizionato, che va al di là di ogni “mostruosità”: quell’ essere “diversi” che in realtà ci rende unici e speciali, come le immense orecchie che permettono a Dumbo di volare…Fisicamente, certo, ma soprattutto metaforicamente. Trasformando un presunto difetto nel suo punto di forza. Per ricreare la storia dell’ elefantino, Burton si avvale di un team sfavillante e premiatissimo che include, tra gli altri, lo scenografo Rick Heinrichs, il direttore della fotografia Ben Davis, lo sceneggiatore Ehren Kruger, la costumista Colleen Atwood, il make up artist Paul Gooch e l’ editor Chris Lebenzon (i terzultimi collaborarono con Burton anche in “Alice in Wonderland”). La produzione del film porta invece la firma di Katterli Frauenfelder, Ehren Kruger, Derek Frey e Justin Springer.

 

Immagine: Dumbo, Public Domain via Wikimedia Commons

 

 

Il close-up della settimana

 

 

“Se vai via senza un’ emozione non sto facendo il mio lavoro. Non voglio che la gente esca come se fosse stata al pranzo della domenica: voglio che ne esca divertita o disgustata. Basta che provi un’ emozione”, dice (riferendosi ai suoi fashion show) nel trailer del documentario che gli è stato dedicato. E di emozioni, Alexander McQueen ce ne ha regalate a miriadi: le sue creazioni non cesseranno mai di meravigliarci, di estasiarci, di lasciarci senza fiato. Non è un caso che Ian Bonhôte e Pete Ettedgui abbiano deciso di celebrarle in un docufilm incentrato sull’ universo di colui che, come recita il titolo, rimarrà un “genio della moda” indimenticato. In 111 minuti di pellicola, la carriera di McQueen viene ripercorsa dagli esordi in Savile Row fino alla sbalorditiva, avveneristica sfilata della collezione PE 2010 “Plato’s Atlantis” (incentrata sul ritorno a un mondo primigenio negli abissi), l’ ultima che creò prima di morire suicida a soli 40 anni: una fiaba non a lieto fine, la sua, ma senza dubbio indicativa dell’ ineffabile potenza dei sogni. Il sogno di Lee Alexander McQueen, figlio della working class londinese, era la moda. Lo portò avanti grazie a un talento e a una tenacia straordinari, noncurante degli scarsi mezzi che gli derivavano dalla sua condizione sociale, spronato da una madre che fu la sua più strenua sostenitrice. A 16 anni lavorava già presso i prestigiosi laboratori sartoriali della capitale inglese, a 20 entrò a far parte dello staff di Romeo Gigli a Milano, dove rimase un triennio prima di volare di nuovo a Londra per diplomarsi alla Central Saint Martins. Il resto è storia. La fondazione di Alexander McQueen, suo brand omonimo, nel 1992, la nomina alla direzione creativa di Givenchy nel 1996 e il conseguente trasferimento a Parigi, i riconoscimenti (fu decretato per ben quattro volte Designer inglese dell’ anno, incoronato Designer dell’ anno e ricevette l’ onorificenza di Commendatore dell’ Ordine dell’ Impero Britannico), il profondo rapporto di amicizia che allacciò con Isabella Blow…Corrosivo, dissacrante, iconoclasta, fu definito l'”hooligan della moda” per la carica rivoluzionaria che ha sempre contraddistinto la sua opera. Una definizione che non ne ha mai sminuito la valenza artistica: perchè, ancor prima che un designer, Alexander McQueen (che per imporsi fece a meno del primo nome Lee) è stato un Artista con la A maiuscola.

 

Un look tratto dalla collezione “Widows of Culloden”, AI 2006/2007

La moda era la sua ossessione, la sua espressione massima. In essa incanalava un’ immaginario ad ampio spettro che indagava i concetti di vita e morte passando per temi quali le suggestioni cinematografiche, il gotico vittoriano, il patriottismo scozzese, un romanticismo intriso di accenti orrorifici, l’ esotismo e il primitivismo tribale. A fare da leitmotiv, una ricerca creativa incessante ed una sartorialità che rielaborava sorprendentemente l’ autorevole tradizione di Savil Row: “Devi conoscere le regole per infrangerle” era il suo motto, che onorava sovvertendo di continuo i codici senza snaturarli della loro essenza. Per ispirarsi, si concentrava sull’ allestimento scenico di un défilé spaziando poi nell’ ideazione dei vari look: spettacolarità e arte si fondevano in un connubio sbalorditivo, esaltati da accessori dal sapore fetish e dai cappelli-capolavoro di Philip Treacy. Memorabili restano i suoi omaggi ad Edgar Allan Poe (“Supercalifragilistic”, AI 2002/2003), ad Alfred Hitchock (“The Man Who Knew Too Much”, AI 2005/2006), a Bosch ( “Angels & Demons”, AI 2010/2011), alla religione Yoruba (“Eshu”, AI 2000/2001). Genio, natura, oscurità e caducità dell’ esistenza sono elementi che, in McQueen, danno vita ad un amalgama vigoroso e “feroce”, selvaggio, senza filtri nè tantomeno ammiccamenti. Il documentario “Alexander McQueen – Il genio della moda“, uscito nelle sale il 10 Marzo, si avvale di un’incalzante alternanza di fotogrammi di archivio e delle testimonianze di coloro che hanno conosciuto il McQueen più intimo (amici, collaboratori, consanguinei) per tracciarne un ritratto potentemente autentico.  Il ritratto di un “bad boy” del quale un celebre scatto di Tim Walker – dove il designer viene immortalato mentre, con un’ espressione sfrontata, si appoggia al teschio che divenne l’ emblema della sua Maison – ci restituisce in modo mirabile la quintessenza: quella di un contemporaneo Amleto in perenne bilico tra l’ “essere” e il “non essere”. Con l’ irriverenza come valore aggiunto.

 

Un look tratto dalla collezione “Plato’s Atlantis”, PE 2010

 

 

 

 

“Burlesque Extravaganza”: l’opera prima di Grace Hall esce in DVD

 

Star del Burlesque, attrice, showgirl, conduttrice, e ora anche regista e produttrice: di Emma Nitti, alias Grace Hall, non si può certo dire che non sia uno spirito eclettico. Chi segue VALIUM la ricorderà nelle vesti di presentatrice del Summer Jamboree 2017, intervistata insieme ai colleghi (Eve La Plume e Jackson Sloan) che la affiancavano sul palco del Festival che Senigallia dedica alla Musica e alla Cultura anni ’40 e ’50 (leggi qui l’ intervista a Grace Hall e ai conduttori dell’ ultima edizione della kermesse).  Da allora, Grace non se ne è stata con le mani in mano. Proprio ieri, ad esempio, “Burlesque Extravaganza” – il documentario che ha diretto e prodotto  in coproduzione con la Zed Film – è uscito in home video con la 30 Holding ed è già acquistabile su Amazon.it: un bel traguardo per la vulcanica diva dell’ Art of Tease! Ed esplosiva è anche la pellicola in cui esplora il Burlesque nella sua dimensione più pura e autentica. “Burlesque Extravaganza” nasce “on the road”, è un diario di viaggio che Grace ha concepito durante una tournée tra Nord Europa, Stati Uniti e Canada catturando umori e suggestioni  di un mondo intriso di profondo fascino. Su tutto, spicca la magia: nel Burlesque la danza, il canto, l’ abilità, il circo si intrecciano al trasformismo e alla fantasia, coniugano talento e arte e trionfano grazie a un unico denominatore comune, la passione. Addentrarsi nel pianeta Burlesque è  aprire una magic box ricolma di lustrini, immergersi in atmosfere che scintillano di incanto.

 

La locandina del docufilm

 

Dietro ogni act si cela un febbrile fermento creativo. Spazia dalla ricerca di coreografie sempre nuove alla creazione del costume di scena, passando per l’ ideazione del make up e dell’ acconciatura. Grace racconta questi rituali attraverso le voci dei protagonisti, performer diversi per nazionalità ed etnia ma anche per tipologia fisica: perchè non dimentichiamo che il Burlesque ha anche svolto un ruolo decisivo nella lotta contro gli stereotipi di bellezza. Celebra il corpo in tutte le sue forme, taglie, dimensioni; non esiste un unico standard, qualunque donna può essere bella: l’ Arte del Tease e lì a ricordarglielo. E’ così che il film di Grace Hall, tra memoir di viaggio, interviste in backstage e rutilanti show, stimola una riflessione sulle virtù terapeutiche del Burlesque e lo elegge ad importante strumento nel percorso dell’ accettazione di sé.

 

 

Imparare a conoscere il proprio corpo, padroneggiarlo nel linguaggio gestuale è imparare ad amarsi, prendere coscienza del proprio potenziale, incentivare la fiducia in se stesse.  Coltivare l’ Arte del Tease significa riscoprire una seduttività fatta di grazia, giocosità e ironia: è diventare “soggetto” valorizzando una femminilità che si riappropria dei propri atout e prende linfa da una nuova consapevolezza. Con un pizzico di stravaganza – anzi, di “Burlesque Extravaganza” – che accentua ed esalta l’ irripetibile unicità individuale.

 

 

Grace dietro la cinepresa: Ciak, si gira!

 

Per saperne di più:

www.gracehall.it

www.zedfilm.it

www.iltempiodelburlesque.it

www.burlesquextravaganzathemovie.com

 

Photo courtesy of Emma Nitti

 

Glitter People

 

” Onore a chi è un po’ folle, a chi ama osare, a chi ama sognare.”

 Mia Dolan (Emma Stone) in ‘La La Land’

Photo via Flickr by BagoGames, La La Land Review/TiFF 2016 – CC BY 2.0

 

“Miss Peregrine – La casa per ragazzi speciali” di Tim Burton, film must see del Natale

” Oggi chi ha una particolarità tende ad essere considerato negativamente, mentre in realtà è ciò che ci rende unici.”, ha detto a Rolling Stone Tim Burton, parlando del suo nuovo film. Girato tra la Florida, il Belgio e il Regno Unito, Miss Peregrine – La casa dei ragazzi speciali è appena uscito nelle sale e si accinge a diventare uno dei must see della programmazione natalizia: non mancano gli accenti fantasy, abbonda la visionarietà e il tipico tocco dark di Burton (anche se lui confuterebbe il termine) è immancabile in questa pellicola che vede protagonisti Eva Green e dei teen dai poteri eccezionali. Ispirandosi al bestseller La casa per bambini speciali di Miss Peregrine (2011) di Ransom Riggs, il regista imbastisce una trama intrisa di magia. Tutto ha inizio quando Jake, colpito dai racconti del nonno su una casa abitata da giovanissimi dotati di abilità particolari, si imbatte in alcune foto che li immortalano. Alla morte del nonno decide di raggiungerli e approda nel Galles, dove li rintraccia in un’ isoletta sperduta. Insieme ai ragazzi, nella grande villa in cui vivono al riparo dal mondo, c’è una governante che gareggia con loro in quanto a eccentricità: è Miss Peregrine, donna affascinante e misteriosa. Suo compito è proteggere le “diversità” da una realtà che non le comprenderebbe, ma anche tener lontani i mostri che braccano il gruppo (e che forse, metaforicamente parlando, con quella realtà sono un tutt’uno). Jake si trova, dunque, improvvisamente immerso in un luogo onirico, circondato da bambini che eccellono per singolarità individuali: una di loro ha la bocca sulla nuca, un altro crea vortici con un soffio, un altro ancora ha la facoltà di animare gli oggetti. “Giacchè le nostre abilità non si adeguano al mondo esterno, viviamo in luoghi come questo. Dove nessuno può trovarci”, dice Miss Peregrine a Jake, a cui da quel momento spetta il ruolo di salvagualdare i teen dai pericoli e dalle minacce. Per lui sarà un’ esperienza incredibile,  che muterà tutte le sue coordinate interiori. Nel film, oltre ad Eva Green – al suo bis con Tim Burton – spiccano star della recitazione made in Britain come Judi Dench, Terence Stamp e Rupert Everett, l’ indimenticato dandy di tanti celebri film. Ma è la Green il corrispettivo al femminile di quanto ha rappresentato, per Burton, Johnny Depp: la sintonia instaurata con Dark Shadows è tutt’altro che svanita, e il “visionario” del cinema si è dichiarato entusiasta della sua aria da diva d’antan. Una allure che senza dubbio accentua l’ enigmaticità di Miss Peregrine, magnetica e – a sua volta – non priva di superpoteri. L’ incarnazione di una consapevolezza acquisita che veglia su quel mix di adolescenziale bisogno di accettazione e affermazione della propria diversità che pervade tutto il film.

“Franca: chaos and creation”: a Venezia il docufilm che racconta il direttore di Vogue Italia

E’ la “Signora della Moda” per eccellenza: Franca Sozzani, dal 1988 al timone di VOGUE Italia,  ricopre anche i prestigiosi incarichi di direttore di L’ Uomo Vogue e direttore editoriale della Casa Editrice Condé Nast. Ma al di là delle vette professionali raggiunte (che la vedono, inoltre, alla guida di tutte le testate italiane “griffate” VOGUE), il suo ruolo di influencer si è affermato grazie ad un intuito sopraffino, al coinvolgimento in importanti topic sociali, ad una straordinaria  visionarietà. La rimessa in discussione dei canoni di bellezza, la lotta contro i disturbi alimentari, i celeberrimi Plastic Surgery e Black Issue hanno rivelato le doti pioneristiche ed il talento sovversivo di colei che ha saputo imporsi, a titolo definitivo, come la figura più iconica ed autorevole del fashion system. A “raccontarla”, oggi, è un docufilm d’eccezione: diretto dal figlio Francesco Carrozzini, in 78 minuti delinea un ritratto di Franca Sozzani accurato e disinvolto al tempo stesso. Frammenti di girato, superotto che immortalano squarci della sua infanzia e adolescenza, il tributo delle celebrities intervistate – tra cui appaiono Karl Lagerfeld, Baz Luhrmann, Naomi Campbell, Courtney Love e Bruce Weber solo per citarne alcune – compongono i tasselli di un puzzle che descrive a tutto tondo il direttore di VOGUE Italia. Nella pellicola, che sarà presentata in anteprima stasera, alla Mostra del Cinema di Venezia,  il fotografo e regista Francesco Carrozzini traccia un excursus che, oltre a rivelare Franca Sozzani come business woman e donna,  si addentra nella relazione madre-figlio evidenziandone la quintessenza. Il “Sozzani-pensiero” appare in tutto il suo fulgore: volitiva e votata al controllo, ma non per questo priva di una leggerezza che sdrammatizza la vita con rinfrescante ironia, Franca crede fermamente nella potenza dei sogni e attende un Principe Azzurro non ancora pervenuto. Anche se – con ogni probabilità – al suo arrivo sarà già proiettata verso nuove idee e nuovi lidi, incontro a quel futuro che persegue costantemente, capace di stravolgere, con la sua ingegnosità creativa, persino il fluir del tempo. Sempre intenta a creare, a scoprire, a lanciare, in perenne movimento: se come diceva Nietzsche “Bisogna avere un caos dentro di sè, per generare una stella danzante”, non poteva esistere titolo migliore (Franca. Chaos and creation) per descriverla in un docufilm che rappresenta, simultaneamente, un omaggio e un lascito. La dichiarazione d’amore da parte di un figlio che ha voluto regalare a sua madre il dono più bello: una testimonianza che celebra l’ audacia, l’ estro, la marcia in più di una “Signora della Moda” davvero speciale.

Photo by Studio NYC (Opera propria) [CC BY-SA 4.0 (http://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)], attraverso Wikimedia Commons

Un ricordo di Virna Lisi

 

“E’ un po’ come se fossi nata con la macchina da presa addosso. Più me l’ accostano alla faccia, più me la mettono vicina, più io mi sento protetta, sicura, fiduciosa, fin dal giorno del debutto, quando avevo solo quattordici anni e mezzo. E ancora oggi so che la macchina da presa mi ama, e dunque mi protegge. ” Quando lessi queste sue parole, pronunciate durante un’ intervista, mi colpirono molto: Virna Lisi, al secolo Pieralisi, sembrava nata per il cinema. Osservandone i lineamenti perfetti, uniti a una potente fotogenia e a un’ espressività innata, pensavi che il destino di attrice fosse impresso nel suo DNA, una predisposizione genetica. Biondissima, occhi incredibilmente azzurri, a quanti la etichettavano come “algida” replicava con un temperamento che non ha mai perso la verve ironica, pur mantenendo intatta l’ allure sofisticata che sempre la contraddistinse: un misto di buon gusto e di riservatezza. Marchigiana, Virna era nata 78 anni fa ad Ancona e aveva vissuto a lungo a Jesi prima che suo padre – un commerciante di piastrelle – si trasferisse a Roma. E’ nella capitale che prese il via la sua sfolgorante carriera: scoperta da Giacomo Rondinella, era a malapena una teen quando il produttore Antonio Ferrigno la mise sotto contratto. Il resto è noto, e come una favola contemporanea si snoda tra il cinema strappalacrime in cui esordì ai primi film d’autore, passando per lo slogan tormentone “Con quella bocca può dire ciò che vuole” dello spot Chlorodent che le regalò una popolarità immensa. Poi il matrimonio con l’architetto romano Franco Pesci, la voglia di una stabilità borghese interrotta dal richiamo inarrestabile dell’ Arte, la parentesi hollywoodiana e la gloria internazionale accanto a star del calibro di Jack Lemmon, Frank Sinatra e Tony Curtis, il suo “no” a Barbarella (“non avevo voglia di mettermi le ali d’argento, la tutina e la parrucca”) e il ritorno in Italia. Mai un capriccio Virna, mai sopra le righe, mai un pizzico di alterigia da star ormai arrivata: “‘Diva’ è “una parola che solo a sentirla mi dà l’allergia”, disse. “Spenti i riflettori, finito il mio lavoro, io sono sempre ritornata alla mia vita normale, alla mia famiglia” aggiunse, rivelando di detestare la mondanità, il presenzialismo, le feste. Eppure, di glamour e di una bellezza straordinariamente luminosa non era certo priva. Così come non le sono mai mancate quell’ eccezionale forza interiore, quella saggezza, quella spiccata personalità che esternò in svariati episodi della sua carriera, non esitando ad “imbruttirsi” o ad apparire invecchiata in film come Al di là del bene e del male (1977) della Cavani, La cicala (1980) di Lattuada e La regina Margot (1994) di Patrice Chéreau, che le valsero prestigiosi premi. E se a partire dagli anni ’80 dirottò la maggior parte delle sue apparizioni in TV dividendosi tra miniserie, telefilm e sceneggiati, nel decennio successivo – intervallando cinema e piccolo schermo – si dedicò al genere della fiction senza snobismi: “La fiction non è di serie B rispetto al cinema, è sbagliato pensarlo. Anzi, c’è molto cinema brutto che è assai peggio delle fiction televisive.”, dichiarò. Talentuosa, versatile, la voglia continua di mettersi in gioco, l’ immenso amore per il cinema e al tempo stesso per la famiglia e per suo marito Franco (mancato un anno fa), i piedi ben piantati a terra piuttosto che sul piedistallo che il suo status di grande attrice internazionale le offriva, Virna Lisi brillava di una luce propria del tutto particolare e intensa. Sei Nastri d’Argento, due David di Donatello, un Prix d’ Intérpretation Féminine e due premi alla Carriera non hanno affievolito la sua reticenza nel lasciarsi intrappolare dagli ingranaggi dello star system. La classe discreta, la formidabile capacità interpretativa, un understatement fatto di elegante semplicità hanno rappresentato le coordinate del suo fascino iconico. Virna voglio ricordarla cosi, certa che rimarrà indelebilmente impressa nell’ immaginario collettivo grazie alla sua unicità. E attendo di ammirarla ancora, nel 2015, in Latin Lover di Cristina Comencini: la sua ultima prova per il grande schermo.

Saint Laurent, un couturier da Oscar

 

Saint Laurent, il film di Bertrand Bonello che ha portato sul grande schermo la vita del leggendario couturier, rappresenterà la Francia nella corsa all’ Oscar per il Miglior Film Straniero. Il biopic, un lungometraggio di 150 minuti, ricostruisce attraverso continui flashback e molteplici piani temporali il periodo più prolifico e febbrilmente creativo della vita del designer, quel decennio compreso tra il 1967 e il 1976 che coincide con svolte epocali di portata decisiva per il mondo della moda. A interpretare Yves Saint Laurent l’ attore francese Gaspard Ulliel, che si alternerà ad un sempre affascinante Helmut Berger nei panni del couturier in età matura. Già candidato alla Palma d’Oro di Cannes, il film si avvale di un cast di prestigio che annovera nomi del calibro di Léa Seydoux, Louis Garrel, Valeria Bruni Tedeschi e Jasmine Trinca, ed è già in distribuzione nelle sale francesi. Definito “patinato”, “estetizzante” ma non agiografico, Saint Laurent esce a breve distanza da un recente biopic dedicato allo stilista, Yves Saint Laurent di Jalil Lespert. E se quest’ ultimo ha ricevuto l’ approvazione ufficiale di Pierre Bergé, il film di Bonello conta su un ritmo serrato dal gusto pop intramezzato da improvvise suggestioni oniriche, simil-psichedeliche, che riflettono la fervida personalità dello stilista accompagnandosi ad una colonna sonora perfettamente adeguata.  Ora non rimane che attendere il 15 gennaio, data in cui verranno annunciati i cinque film candidati all’ Oscar; dal canto suo, dopo la vittoria ottenuta nel 2014 con La grande bellezza, l’ Italia rincorre l’ ambita statuetta  candidando Il capitale umano di Paolo Virzì. Sarà bis? Non si può che concludere con un “Chi vivrà, vedrà”.