‘Guillermina’: un photofilm di Diego Diaz Marin

 

Una donna, Guillermina. Una storia reale intrecciata alle percezioni visionarie di una preudorealtà. Un thriller che si snoda attorno alla passione ed all’anima. Il personale “triduo pasquale” di una donna che ha ucciso, che tenta di morire e poi risorge con lo sfondo di una Andalusia sensuale e torrida, dai colori intensi, che alterna zone brulle a una vegetazione simil-tropicale. Un luogo in cui anche la morte, nei piccoli cimiteri bianchi e disseminati di fiori coloratissimi, nei crocifissi profusi e ostentati, accanto ai mazzi di gerani rossi che risaltano su un  turchese intenso,  si tramuta in un paradiso terreno di folkloristica suggestività.

Il fashion photographer Diego Diaz Marin ambienta il suo photofilm a Torre del Mar, sua città natale, della quale conserva perennemente impressi l’ incredibile luce e i vividi colori. Il titolo dello shooting, Guillermina, è un omaggio al nome di sua madre. Passionale, emotiva, vibrante, Guillermina – interpretata dalla modella Fabiola Gomez – è eccessiva e irruenta, si muove sospinta da un istinto di spettacolarità quasi teatrale: cerca la morte, ma alla fine troverà la vita. Una vita salvifica e rigenerante, una vera e propria risurrezione. Una fuga dal suo passato – e dalla “precedente” sè stessa – immersa nella luminosità a tinte forti della caliente Spagna del Sud.

 

“Ahi, quanto mi costa amarti come ti amo!” (Federico  Garcia Lorca, “E’ vero”)

 

 

La terra color cioccolato, il cielo di un azzurro che stordisce, un cadavere da celare nelle viscere più profonde della terra. La pala in mano, Guillermina scava instancabile affinchè il sottosuolo inghiottisca il suo delitto.

 

 

 

 

La fuga, per dimenticare: ma si può fuggire da sè stesse? La fuga e il crocifisso, invocare il perdono o crocifiggersi per il senso di colpa sono sensazioni, stati d’animo, impulsi che convivono in Guillermina in un turbine caotico e indisciplinato.

 

 

 

La pietas divina, il capo coperto come le anziane che da bambina vedeva assistere alla Messa, l’ abito nero…Il Cristo crocifisso che incarna una religiosità  viscerale, totalizzante, intrisa del concetto di espiazione. La religiosità che odora di incenso delle suggestive processioni del Sud, occhi femminili seminascosti dietro le grate delle finestre del patio mentre osservano la statua della Vergine che sfila seguita da uno sciame di donne nerovestite.

 

 

 

 

 

La disperazione, il pentimento, il tormento: il dolore di Guillermina esplode travolgente, teatrale, confondendo i suoi confini sinceri. E se il suicidio fosse la vera via di fuga? Si vede già morta: il suo cadavere accanto all’ acqua limpida e turchese di una piscina, in un sarcofago galleggiante su uno specchio d’acqua purificatrice. Gerani di un rosso vibrante di sensualità gettati sul corpo a ricordare che la passione è, al tempo stesso, vita e morte.

 

 

 

La morte: vagheggiata, apparente, simbolica. La morte che fa rinascere. Quella che negli sperduti cimiteri di campagna viene esorcizzata e confusa tra i fiori colorati che adornano tombe come  scolpite nel marzapane…Tracce di vita che annullano la perdita.

 

 

La morte e la risurrezione: una Pasqua metaforica e rigenerante, che dall’ annullamento esistenziale più profondo genera una nuova vita.  Guillermina risorge lasciandosi alle spalle il luogo della morte per eccellenza. In mano, stringe il mazzo di garofani rossi:

“Il mio cuore come una serpe si è spogliato della sua pelle, e la tengo fra le mie dita piene di ferite e di miele.”  (Federico Garcia Lorca, “Cuore nuovo”)

 

 

Diego Diaz Marin ‘racconta’ i foulard di Coralie Prévert

 

Ormai lanciatissimo, il giovane fashion photographer andaluso Diego Diaz Marin si prepara a calcare la Croisette in occasione del Festival Internazionale della Fotografia di Moda, che da dodici anni omaggia i grandi nomi esponendo al tempo stesso, in una grande mostra a cielo aperto, le opere di selezionati e promettenti maestri dello scatto Fashion. Nel frattempo, ispirandosi costantemente alla forma artistica del photofilm, Diaz Marin annovera nel suo CV un numero crescente di shooting dalle caratteristiche atmosfere e dai vividi colori divenuti ormai il suo trademark: la advertising campaign realizzata per il brand fiorentino di foulard Coralie Prévert ne è un esempio pregnante. Ritroviamo ancora una volta una protagonista femminile dalla personalità intrigante ma vagamente borderline, alla ricerca di un luogo e di situazioni che possano esprimere al meglio la sua essenza. Spesso si tratta di fughe, reali o immaginarie, che hanno inconsciamente un’unica direzione: quella del viaggio interiore. La protagonista dello shooting per Prévert non fa eccezione: cerca un rifugio e lo trova in un’ antica pensione, chiude fuori il mondo grazie ad un enorme cancello in ferro battuto e si introduce in un’ angusta stanza tinteggiata  di un azzurro intenso.

 

 

La donna entra, è sola. Varca la soglia quasi interamente ricoperta da un foulard, volto e testa compresi. Alla ricerca della propria identità, il suo volto scompare celato dalla stoffa leggera, dalle variopinte stampe. La donna si accascia a terra, si siede su un tappeto dove, in un’atmosfera un filo opprimente, dà inizio alle sue riflessioni.

 

 

Filtra la notte, dal cancello imponente. Dopo aver recuperato una vecchia sdraia anni ’70 a listelli in gomma, la donna gioca a coprirsi e scoprirsi con un grande foulard impalpabile nei toni del blu, del verde e dell’ arancio. I foulard sono la sua compagnia notturna: li giostra, li sperimenta su diverse parti del corpo, li utilizza per scoprire una sè stessa inedita, interpretando ruoli sempre diversi sullo sfondo di pareti  di un azzurro talmente intenso da tramutare l’ ambiente in una sorta di acquario.

 

 

 

 

“Una, nessuna, centomila”? I foulard rappresentano per lei una maschera e una nuova identità al tempo stesso, frantumandola in innumerevoli sfaccettature. Leggerissime o più setose, in fitti pattern geometrici o fantasie sofisticate,  le creazioni di Coralie Prévert sono una sorta di strumento, un viatico per intraprendere il proprio viaggio interiore.

 

 

 

 

E mentre la notte avanza cadenzata dalle sue impersonificazioni, giunge il finale: il sipario si chiude sulla donna completamente avvolta in un  foulard come fosse un bozzolo, novella crisalide. Pronta a librarsi, con ali di farfalla, verso una nuova vita. Non è forse un caso che lo scenario degli scatti di Diaz Marin abbia subito – nel frattempo – un improvviso mutamento cromatico: le mattonelle del pavimento, la sedia a sdraio ed il tappeto hanno abbandonato, come per incanto,  il color ruggine e il terracotta originario per tingersi di un vibrante rosa fucsia, più ‘femminile’ ed incisivo. L’ identità si ricompatta abbandonando ogni travestimento, tracciando linee di definizione palpitanti e intense. Come disse Antonio Machado: ” L’ essenza del Carnevale non risiede nel mettersi in maschera, bensì nel rimuovere il volto. E nessuno è così ben abbinato al proprio da non aspirare a mostrarne un altro, qualche volta. “