Schield Jewels: a tu per tu con Roberto Ferlito

In questi giorni la stampa internazionale, sempre molto attenta ai look di Letizia Ortiz,  è rimasta letteralmente conquistata dagli orecchini che la Regina di Spagna ha sfoggiato durante la cerimonia di premiazione della Fondacion Consejo Espana-India: un grappolo di fiori smaltati di bianco e cosparsi di Swarovski che pende dal lobo sfiorando delicatamente il collo. Gli orecchini in questione sono firmati Schield, un brand che i lettori di VALIUM conoscono ormai bene. Direttore creativo del marchio fondato a Firenze nel 2012 è Roberto Ferlito, classe 1981, nato in Sicilia ma fiorentino d’adozione. Dopo il diploma al liceo artistico, Roberto prosegue gli studi a Milano prima di stabilirsi definitivamente nel capoluogo toscano,  dove esordisce come designer di accessori per brand del calibro di Vivienne Westwood e Roberto Cavalli. E’ durante il periodo trascorso alla corte del “Re dell’ Animalier” che ha il suo primo approccio con il gioiello: un coup de foudre sfociato, in breve tempo, nella creazione di una griffe che ingloba la luxury jewellery in un vero e proprio progetto con focus sul design, sulla fotografia e sul lifestyle. L’ incontro e il connubio con il fotografo Diego Diaz Marin sono stati, in questo senso, fondamentali. Insieme, Ferlito e Diaz Marin hanno dotato l’ universo Schield di un’ identità inconfondibile e dal forte impatto visivo: il design avantgarde di Roberto mixa originalità e inventiva con piglio graffiante, a tratti ironico, declinando il proprio estro visionario in creazioni ad alto tasso di savoir faire artigianale. La destinataria è una donna audace, priva di censure, eccentrica e sofisticata al tempo stesso: una donna che le advertising campaign di Diego Diaz Marin per Schield “raccontano” in immagini d’effetto.

Il successo riscosso da questo brand già divenuto iconico era inevitabile, rafforzato dal visual magazine Doubleview che ne diffonde il progetto a livello internazionale.  La nomina tra i finalisti della categoria “Accessori e Gioielli” di Who’s Next, l’ iniziativa di fashion scouting  lanciata da Altaroma e Vogue Italia, ha rappresentato un ulteriore, prestigioso step nella carriera di Roberto Ferlito: l’ ho incontrato per approfondire con lui l’ appassionante avventura di Schield.

Come nasce il tuo percorso di designer di gioielli?

Mi avvicino al mondo del gioiello quasi per caso, quando cominciai a lavorare per Roberto Cavalli 14 anni fa. Da lì una grande sorpresa mi porta ad appassionarmi fino a creare Schield.

A Firenze vivi, ma hai anche fissato il tuo headquarter. Quali sono i pro e i contro dell’ aver privilegiato una location che, pur prestigiosa,  si distanzia dal circuito delle capitali internazionali della moda?

Firenze è da sempre una città che mi ha dato molto, sia nel personale che nel lavoro. La distanza non mi spaventa anche perché è in un punto strategico, che ti permette di arrivare un po’ dappertutto. Il mio studio, creato insieme a Diego, è un luogo dover poter seguire serenamente i nostri progetti e il fatto di essere un po’ distanti dalle capitali della moda ci permette di creare senza nessun tipo di influenze.

Schield è un progetto che incorpora un mix esplosivo di estro e trasgressione. Quali input ha apportato, in questo senso, il tuo connubio creativo con Diego Diaz Marin?

Quando ho conosciuto Diego è scattata, da subito, una sintonia creativa molto simile che ci ha permesso di tracciare senza alcun dubbio la nostra strada creativa. In poco tempo ha permesso sia a Schield, che a Diego come fotografo, un forte impatto nel mondo della moda, dell’arte e delle celebrities.

Quanto è importante l’ aspetto visuale, oggi, al fine di veicolare l’ identità e il mood di un prodotto?

Soprattutto per Schield è importante perché con i nostri scatti, oltre a mostrare i gioielli siamo riusciti a creare un mondo che ha dato una personalità al brand.

Nei tuoi jewels risaltano il design innovativo, scintillanti Swarovski e colori vibranti che si sposano con l’ artigianalità più minuziosa. A quali spunti attinge la tua ispirazione?

E’ tutto casuale, qualunque cosa guardo può diventare un gioiello Schield.

Se dovessi tracciare un ritratto della “donna Schield”, come la descriveresti?

Decisa!

Esistono creazioni a cui sei particolarmente legato o contraddistinte da una speciale traiettoria creativa?

Uno dei pezzi che preferisco è la Fluide Necklace, un choker che viene realizzato come se il metallo stesse per sciogliersi.

Doubleview è il magazine che “racconta” il progetto Schield nella sua interezza. Posso chiederti qualche anticipazione sul prossimo numero della rivista?  

Doubleview è un progetto a sé, anche se viene realizzato nel nostro studio. Ha una propria personalità. L’ unica anticipazione che posso darti è che il prossimo numero uscirà a fine settembre e sarà un numero provocatorio molto più vicino all’ arte visiva che alla moda.

Cos’ ha rappresentato, per te, il traguardo di Who’s Next?

Una grande soddisfazione, sono contento di aver fatto parte di questo progetto!

 

 

Photo courtesy of Schield

Michael Putland, il fotografo delle leggende del Rock

Il libro-catalogo THE ROLLING STONES BY PUTLAND (ed. LullaBit)

 

Dalla A degli Abba alla Z di (Frank) Zappa: difficile individuare chi non sia stato immortalato da Michael Putland, in un ipotetico “alfabeto del Rock”. Classe 1947, inglese, Putland debutta come assistente fotografo quando è appena un teen. Apre il suo primo studio fotografico nel 1969, anno di transizione che vede sfumare gli Swingin’ Sixties nell’ era hippy e delle più graffianti Rock band. E’ allora che il link tra Michael Putland e la music scene si salda, indistruttibile, per tutti gli anni a venire. Il ruolo di fotografo ufficiale che ricopre per Disc & Music Echo, un magazine di musica britannico, è in questo senso fondamentale: proprio grazie alla rivista ha un primo approccio con Mick Jagger, che nel 1973 segue in tour inaugurando un pluriennale sodalizio con i Rolling Stones. Nel frattempo, prosegue indefessa la sua collaborazione con la stampa musicale e con major discografiche come CBS, Columbia Records, Warner, Polydor e EMI, per le quali ritrae le star di un’epoca straordinaria in quanto a innovazione e a fermento creativo. Nel 1977 si trasferisce a New York dove fonda Retna, agenzia fotografica rimasta attiva per quasi trent’anni. I soggetti principali del suo portfolio sono gli eroi della music scene: dagli Stones a Bowie passando per Prince, Eric Clapton, Tina Turner, Joni Mitchell e Marc Bolan – solo per citarne alcuni – Putland immortala personaggi annoverati nella music history per carisma e genialità. Ai suoi scatti vengono dedicate mostre, come l’ importante retrospettiva che la Getty Gallery di Londra ha organizzato per il suo 50mo di carriera o quelle, tutte italiane, con cui ONO Arte ha reso omaggio al suo archivio su David Bowie e sui Rolling Stones. Ed è proprio in occasione di It’s only rock’n roll (but I like it), la mostra che fino al 23 Luglio sarà visitabile nella galleria d’arte bolognese, che ho avuto il privilegio e l’ onore di scambiare quattro chiacchiere con Putland. Il libro-catalogo THE ROLLING STONES BY PUTLAND rappresenta una chicca aggiuntiva dell’ esposizione: edito da LullaBit, raccoglie oltre 200 scatti in cui il grande fotografo ha immortalato i Rolling on e off stage. Una splendida opportunità per approfondire l’ opera di Putland e per immergersi nel mood che animava (e che anima) una vera e propria leggenda del Rock.

Ha scattato la prima foto a soli 9 anni. Quale ‘molla’ ha innescato il colpo di fulmine con la fotografia?

Sì, è stato davvero un colpo di fulmine tra me e la fotografia. Ma la mia influenza principale è stato mio zio, che vedeva che questa passione stava nascendo in me e mi aiutò molto a coltivarla. Lui aveva un macchina fotografica tedesca, una Voigtländer 35 mm, e da lì partì tutto. Ho ancora una collezione di macchine fotografiche appartenute alla mia famiglia, quella di mia nonna ad esempio, con cui di fatto scattai la mia prima fotografia! Mia nonna, in seguito, mi regalò una delle prime macchine con rullino: una Kodak Crystal.

Si dice che lei abbia fotografato tutte le rockstar al top dagli anni ’70 in poi. Ha mai coltivato velleità musicali?

In realtà mi sarebbe piaciuto ma non ero per nulla portato, nonostante mia nonna – quella della macchina fotografica – fosse una pianista abbastanza famosa ai suoi tempi.

Michael Putland

Tra gli innumerevoli artisti che ha immortalato spicca David Bowie. Che ricordo ha di lui e quali atout, a suo parere, lo hanno tramutato in un’icona?

La prima volta che vidi Ziggy pensai che fosse eccezionale e diverso. Tutto quel periodo era straordinario, e l’aspetto androgino di Bowie era qualcosa che non si era mai visto. Credo che quello che lo abbia davvero reso un’icona – a parte la sua musica incredibile, perché non scordiamoci che la musica era incredibile – sia stata la sua capacità di reinventarsi costantemente. Anche il suo ultimo lavoro prima di morire, Lazarus, è stato davvero un capolavoro di citazioni e innovazioni al tempo stesso.

Il bianco e nero è un leit-motiv di tutta la sua opera. Perché?

Ovviamente sono cresciuto con il bianco e nero, e anche quando le pellicole a colori divennero disponibili, nessuno se le poteva davvero permettere – e a pensarci bene non ho mai conosciuto nessuno che ai tempi le usasse! Il mio occhio è abituato a leggere il mondo a due colori, anche quando scatto ora.

┬®Michael Putland, Mick & Keith live, Wembley 1973

La sua collaborazione con i Rolling Stones ha avuto inizio nei primissimi anni ’70. Che tipo di feeling si è instaurato tra lei e la band?

Quello che posso dire è che ci trattavamo con estremo rispetto reciproco e fiducia, ognuno del lavoro dell’altro. Il nostro rapporto era più che altro professionale, fatto di gesti e pose più che di parole, soprattutto in confronto al rapporto che avevo con altri artisti. E forse questa è sempre stata una delle cose che ho amato di più.

Nei suoi scatti, la quintessenza degli Stones si esprime al meglio nella dimensione del tour. Come se lo spiega?

Uno dei talenti che ho in assoluto come fotografo, se posso dirlo, è quello di stabilire un rapporto con il soggetto che ritraggo. La band si sentiva a proprio agio  con me e quindi ero in grado di cogliere la loro vera essenza – non un’immagine posata – che sul palco, ovviamente, era all’ennesima potenza. Oggi quando scatto in digitale ho ancora questa capacità, infatti edito pochissimo le mie foto. In realtà, se devo essere onesto, preferisco fotografare chiunque non sul palco: le restrizioni e le difficoltà tecniche sono folli. Ma con gli Stones era una simbiosi di musica e performance che sapeva trascinarti via. Per quello, essere con loro on stage era incredibile.

Bowie, 1976. The Thin White Duke

Esistono foto, tra quelle in mostra, che associa a ricordi o ad aneddoti particolari?

Senza ombra di dubbio la foto che scattai a Bob Marley, Peter Tosh e Mick Jagger al Palladium Theatre di New York. Il contrasto tra il viso di Mick esausto dalla performance sul palco è così bianco e quello di Peter Tosh così sorridente e scuro, al contempo: mi  hanno regalato uno dei miei scatti di maggior successo.

Il libro fotografico ROLLING STONES by PUTLAND è presentato in una doppia copertina raffigurante Mick Jagger e Keith Richards. Chi dei due subisce maggiormente il fascino dell’obiettivo?

Mick è sicuramente più naturale davanti all’obiettivo, ma al tempo stesso se Keith sorridesse e fosse a suo agio non sarebbe più lui. In realtà in questi ultimi anni è sempre più sorridente, lui stesso non si riconosce più – dice. In fondo, è un nonno anche lui!

Photo courtesy ONO Arte