Amanda Toy: tattoo da fiaba e un nuovo e-shop

 

Bambole dagli occhioni languidi, matrioske, unicorni, arcobaleni fatati e dettagli che strizzano l’ occhio ad un’ epoca a cavallo tra la Belle Epoque e i Ruggenti Anni ’20: tutto questo – e molto altro ancora – fa parte dell’ inconfondibile iconografia di Amanda Toy, tatuatrice cult del panorama italiano ed internazionale. Il suo cognome d’arte, “toy”, evoca un immaginario in cui il fiabesco si intreccia al ludico traducendosi in un tripudio di forme naif e tinte pop in modalità sfumata. Iconico e al tempo stesso unico, lo stile di Amanda risalta per forza espressiva: il suo universo creativo riflette nelle immagini, accompagnate a volte da brevi claim, una magica valenza concettuale. Non è un caso che i bijoux e la tela siano gli ulteriori supporti delle sue creazioni, celebrate come veri e propri fetiches. Oggi, Amanda Toy festeggia i primi 20 anni di carriera ed ha in serbo una sorpresa che farà la gioia degli aficionados del suo studio di Milano e di tutti i suoi fan: un e-shop in cui sarà possibile acquistare prodotti che riproducono le oniriche effigi dei suoi tattoo. L’ ho incontrata per saperne di più.

 

Per quando è previsto il lancio del tuo e-shop esclusivo?

Per il 22 novembre.

Attualmente, nel tuo sito web è già possibile acquistare bijoux e stampe ispirate ai tuoi tattoo. Quando e come hai deciso di ampliare il tuo “raggio d’azione”?

Oltre al lancio dell’e-shop è in previsione un nuovo sito Internet ad esso collegato. Ho deciso di ampliare il raggio d’azione circa 12 anni fa, in quanto ho sempre cercato di essere il più trasversale possibile e quindi di collegare i tatuaggi delle mie bamboline ad un filo conduttore non solo concettuale ma anche reale, che le potesse far viaggiare non solo sulla pelle ma anche su altri supporti. Per questo inizialmente ho deciso di creare una collezione di bijoux proseguendo con borse, maglie ed altre cose.

Amanda Toy

 

Come hai iniziato, come tatuatrice?

Ho iniziato nel 1996: eh sì, sono vent’anni … Quello dei tatuaggi era un mondo magico e molto di nicchia ed è stato amore a prima vista, qualcosa che potesse permettere alla mia energia di incanalarsi in una direzione che per me aveva un senso.

L’uso del colore sfumato in un arcobaleno di gradazioni è uno dei tuoi punti di forza. Come nasce questa tecnica?

Lo amo, mi viene spontaneo. Questa tecnica nasce con la consapevolezza di riuscire a mixare i colori tra di loro con sofficità. E quando dico “tecnica” intendo la conoscenza dello strumento, cioè la macchinetta per fare i tatuaggi, con tutti i suoi annessi e connessi.

Da dove trai ispirazione?

Semplicemente da me stessa e ovviamente da tutto ciò che mi circonda e mi contagia in senso positivo: immagini, ma soprattutto emozioni. Si può davvero dire che traggo ispirazione dalle mie emozioni.

Se dovessi definire il tuo stile con un aggettivo, quale sceglieresti?

Un aggettivo solo?…E’ un po’ difficile, perché io stessa non sono mai una cosa sola quindi neanche un solo aggettivo penso che definirebbe il mio stile. Se vuoi che te lo descriva con una parola direi stile TOY, cioè me stessa…Se invece mi dai la possibilità di definirlo con più aggettivi, sarebbero sicuramente “immaginativo”, “surreale”, “onirico”, “infantile”, “simbolico”, “giocoso”, “concettuale”.

Quali sono i tatuaggi più richiesti?

Lavoro molto con i racconti e le storie delle persone, a cui chiedo di definirmi che tipo di tatuaggio vogliono dal punto di vista degli aggettivi e delle loro emozioni in maniera che io possa trasferirli su pelle. Ovviamente un soggetto ricorrente è la donna, le mie bambole con occhi grandi. Il messaggio, molto spesso, è nei dettagli.

La tua è una carriera internazionale: che ci racconti al riguardo?

Ho una lista d’attesa molto lunga qua a Milano. Cerco di viaggiare il più spesso possibile, ma non sempre riesco a viaggiare come vorrei in quanto sono molto presente nel mio studio milanese. Ho in previsione, comunque, viaggi in Giappone e in America.

Esiste un tuo cliente tipo?

Il mio cliente tipo rientra in una vasta lista di persone che si tatua da me da moltissimi anni, e devo dirti che il 50% dei miei clienti sono tutti clienti che ho tatuato più volte. Da me si sono fatti braccia intere o comunque molti tatuaggi, e di questo ne sono molto felice. Il mio cliente tipo è colui che conoscendomi e fidandosi mi lascia ampio spazio di azione. Tatuo più ragazze per scelta, in quanto i miei tatuaggi spesso hanno colori molto femminili. Ma quando iniziai, nel ’96, tatuavo più maschi: anche i tatuaggi con tanto nero e molto potenti fanno parte di me.

Photo courtesy of Amanda Toy

La notte, l’arte, la “contaminazione”: incontro con il Principe Maurice

All’ anagrafe il suo nome completo è Maurizio Agosti Montenaro Durazzo, ma è unanimemente conosciuto come Principe Maurice. E un principe, Maurizio Agosti, lo è davvero: discende da una casata d’ illustre lignaggio che affonda le origini nel Veneto della Serenissima, e da vent’anni a questa parte ha scelto proprio Venezia come sua dimora.  Eclettico, visionario, eccentrico, nel suo CV alterna studi di Marketing Bancario al Conservatorio ma in lui, a prevalere, è stata decisamente la vena artistica. Dire “Principe Maurice” equivale ad evocare un’ incontrastata icona dei cultori della nightlife: colui che, con magnetismo straordinario, ha movimentato le notti della Piramide del Cocoricò di Riccione durante la “favolosa” decade dei ’90, ma non solo. Star del cosiddetto teatro notturno, il Principe Maurice si muove tra Djset e performance, esibizioni musicali e prove di canto, ballo e recitazione, party esclusivi e spettacolari eventi di cui è regista e autore. La città della laguna lo vede protagonista indiscusso: Direttore Artistico dell’ Associazione Internazionale del Carnevale di Venezia, è Gran Cerimoniere oltre che figura ormai emblematica della kermesse. Oggi, la sua carriera sfaccettata ed esplosiva viene celebrata in un docufilm, Principe Maurice #Tribute, diretto da Daniele Sartori. E’ un’ alternanza di interviste e footage a raccontare questo sommo artista “della notte” in tutto il suo carisma: con il Principe Maurice ho parlato dell’ omaggio che Sartori gli ha dedicato e di molto altro ancora.

 

Icona della nightlife, performer, artista a 360°: quale definizione ti calza più a pennello?

Penso che “performer” sia la più adeguata poiché mi consente di non definirmi esattamente. Icona lo sono diventato grazie ai miei tanti estimatori e penso anche per l’originalità del mio personaggio. Artista a 360° mi piace vista la mia passione ed applicazione in varie discipline… insomma, di tutto un po’.

Come nasce il Principe Maurice?

Il Principe Maurice è nato dall’esigenza di sovrapporre alla mia vita reale una dimensione surreale ma sempre personale. E’ stata la naturale evoluzione di una personalità composita e curiosa. Il mondo della notte è stato mio complice con le sue atmosfere rarefatte e a volte morbose.

Il Principe Maurice nei panni di Giacomo Casanova – Foto di Marco Bertin

Discendi da un’antica famiglia dell’ aristocrazia veneto-napoletana. Qual è il tratto più nobile presente in te?

La mia famiglia mi ha trasmesso valori fondamentali quali la libertà, la dignità e l’amore. Non ho avuto un’educazione “borghese” legata al patrimonio e all’ostentazione. Credo che il tratto più riconoscibile sia una naturale eleganza del gesto e del linguaggio e la grande sensibilità verso la Bellezza.

Da bancario a star del “Night Theater Show”. Perché hai scelto la notte e cosa rappresenta, la notte, per te?

Fin da bambino la notte per me significava magia. Non ho mai avuto paura del buio e in vacanza mi si lasciava sveglio a fantasticare. Leggere e suonare di notte ha un altro sapore. Quando crei atmosfere oniriche hai bisogno dell’oscurità. Con le luci di scena hai uno strumento in più per suggestionare e caratterizzare ciò che fai. La notte è complice, è libera e libertina, è una sfida tra eros e thanatos che mi ha sempre intrigato. Infine, è la mia dimensione ideale.

Il Principe Maurice (in total look Issey Miyake e gorgera Swarovski Jorge Santos) e Daniel Didonè immortalati da Daniele Cipriani

Un diploma al Conservatorio con il massimo dei voti, studi di canto, danza e recitazione, mentori prestigiosi come Lindsay Kemp: come si inserisce questo background nel tuo ruolo di anfitrione delle più note discoteche italiane ed internazionali?

La mia preparazione e continua ricerca mi consentono di esprimermi in maniera intensa ed emozionale in un contesto piuttosto tecnologico e impersonale. E’ questa la differenza tra “animazione” e “teatro notturno”. Il mio modo di intervenire è fortemente contaminante e solo con strumenti artisticamente e tecnicamente affinati è possibile elaborare linguaggi che pur molto alternativi e sperimentali riescono a toccare le corde sensibili di un pubblico non abituato a queste atmosfere. La possibilità di avere Maestri straordinari è stata una grande fortuna.

Hai dichiarato di essere stato fortemente ispirato da Klaus Nomi. Che tipo di influenza ha esercitato sulla tua traiettoria artistica?

Klaus Nomi, con la sua voce incredibile e la sua presenza scenica drammatica e grottesca al tempo stesso, è per me un punto di riferimento proprio per quella sua unicità nel proporre, in particolare, la musica barocca in modo nuovo e godibile anche dal mondo “pop”. E’ esattamente quello che cerco di fare io nell’ambiente “techno”. Non l’ho mai incontrato personalmente ma quando l’ho scoperto è diventato il mio modello assoluto. L’altro mio grande mentore è stato Lindsay Kemp, con lui ho studiato e praticato la magica arte della pantomima moderna.

Il Principe Maurice con Grace Jones al Gran Ballo della Cavalchina del Teatro La Fenice (Carnevale di Venezia 2009)

Il Carnevale di Venezia ti ha visto, per anni, nei panni di un Giacomo Casanova poi proclamato maschera ufficiale della kermesse. Cosa ti affascina, del grande seduttore veneziano?

Giacomo Casanova è il testimone più autentico del modus vivendi del suo secolo, il mio preferito, il ‘700. Ha creato il mito di se stesso con la sua esistenza fatta di avventure di ogni genere e di grande curiosità intellettuale. In lui riconosco i miei tre valori fondamentali: la libertà, la dignità e l’amore. Non è tanto il celeberrimo libertino che mi intriga quanto il temerario, iperbolico, adorabile cialtrone ma anche autentico e libero “illuminato” che vive in maniera così intensa e libera una vita esaltante e tribolata a cavallo di cambiamenti radicali che lo vedono rifugiarsi nelle sue memorie per non soccombere. Ho perorato personalmente la sua “elezione” a nuova Maschera (“Il Casanova”) della Commedia dell’Arte codificando il personaggio e dandogli un cliché di immagine con il noto costumista Stefano Nicolao. Un modo per renderlo immortale attraverso il Teatro.

A Grace Jones ti lega una collaborazione di lunga data. Com’è scattata l’ alchimia tra di voi?

Conosco Grace da 35 anni. Ero ragazzino la prima volta che l’ho incontrata a Milano in una festa per la Settimana della Moda. E’ stato un colpo di fulmine e in lei ho subito intuito la personalità straordinaria oltre a subirne il fascino totale. Anche lei si è sentita immediatamente in sintonia con me intuendo qualità che nemmeno io conoscevo e che ho scoperto e migliorato proprio grazie alla nostra frequentazione. Per un periodo siamo stati anche “fidanzati”, ma sapevamo bene che l’Amicizia ha più durata e quindi il nostro rapporto si è tarato in quel senso. Godere della sua fiducia al punto da invitarmi sul palco della Royal Albert Hall in concerto all’improvviso per ballare “Libertango” chiamandomi dal pubblico dà il senso della confidenza e della complicità che nel tempo si è creata tra di noi. La considero come una componente della mia famiglia e la cosa è ricambiata. Basti pensare che quando si è esibita al Giubileo di Diamante della Regina Elisabetta II d’Inghilterra, avendo a disposizione pochi e preziosi inviti ufficiali e personali, mi ha fatto recapitare da Buckingham Palace il mio facendomi un regalo indimenticabile. Abbiamo troppo poco spazio qui per poter spiegare cosa significa per me questo rapporto così speciale e completo.

La locandina di “Principe Maurice #Tribute” di Daniele Sartori

“Principe Maurice #Tribute” è il titolo del docufilm che ti ha dedicato il regista Daniele Sartori: ce ne vuoi parlare?

Daniele Sartori, amico veneziano che ho conosciuto quando da ragazzo frequentava il Cocoricò ed era già mio fan, è un regista di grande talento che ha ricevuto riconoscimenti internazionali per i suoi corti rivolti in particolare alla cultura Queer. Mi chiese tempo fa di fare un cameo in un suo lavoro importante e ne scoprii l’originalità e bravura. Quando mi ha proposto di seguirmi per un certo periodo in modo da realizzare un docufilm su di me ne sono rimasto colpito e ho risposto subito si. In lui riconosco la capacità di esprimersi con diverse tecniche mantenendo il filo del racconto, un po’ come Kubrick, quindi il più adatto a rappresentare le mie tante personalità. Così è stato: Principe Maurice # Tribute è un insieme di corti, tre di video arte e altri di reportage, molto diversi tra loro e  legati da un’intervista in cui spiego il mio percorso artistico ed esistenziale entrando anche nell’intimo… c’è un omaggio a Klaus Nomi ed uno a Lindsay Kemp. Il mediometraggio che dura circa 50 minuti ed ha una colonna sonora originale elaborata da me con i mitici Datura, ha già fatto il giro di Festival di Cinema quali Firenze, Torino, Milano, Venezia e l’ultima proiezione prima della distribuzione è al Cinepalace di Riccione, dove tutto è nato, ad inaugurare una rassegna di Cinema d’Essai (3 ottobre) voluta dal patron Massimiliano Gometti in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura.

Le lenti bianche e la Piramide del Cocoricò sono gli emblemi a cui la mia generazione associa, da sempre, il Principe Maurice. Se ne dovessi indicare un terzo ai “posteri”, quale sarebbe?

La “contaminazione”, una parola che amo e che è stata anche il titolo della mia prima esperienza radiofonica su Radio Capital nel ’94.

Il Principe Maurice in un look di Vivienne Westwood

“Last, but not least”: in VALIUM il focus sul fashion è preponderante. Che rapporto hai con la moda o con lo stile in generale?

Lo stile è più importante della moda, me lo hanno insegnato Grace Jones e David Bowie, che pure ho avuto il privilegio di frequentare per un po’… Ci sono stilisti straordinari che nelle loro collezioni mettono capi, magari   poi nemmeno in produzione, che se riesco ad accaparrarmi (quasi sempre) entrano nel mio repertorio di costumi. Tra questi, oltre ad outfit fatti apposta per me dal mio compagno (scomparso prematuramente 8 anni fa ma sempre nel mio cuore) Pierluigi Voltolina ho parecchi pezzi di Issey Miyake, Jean Paul Gaultier, Thierry Mugler, Martin Margiela, Vivienne Westwood, Alexander McQueen, John Galliano e tanti abiti di scena autenticamente teatrali e anche antichi che “contamino”, appunto, con accessori particolari spesso fatti su mio disegno. In ogni caso la Moda è sempre più Teatro e segno dei tempi, quindi a modo suo Arte.

Photo courtesy of Maurizio Agosti

A colloquio con Greta La Medica, poliedrica icona

Photo by Oskar Cecere

Dai giorni dell’ ultima Fashion Week milanese, non si fa che parlare di lei: passare inosservata non si addice a Greta La Medica, icona glamour che ha stregato il parterre della sfilata Primavera/Estate 2017 di Fausto Puglisi. VOGUE Italia la definirebbe #untaggable, impossibile da incasellare in catalogazioni standard o in categorie ben precise. Stylist, dj, esteta, musa di designer quali Fausto Puglisi e Riccardo Tisci, Greta è una creatura ammaliante e poliedrica, colta e sofisticata ma al tempo stesso profondamente estrosa, notturna, trasgressiva. Persino i suoi “colori” rivelano un mix di contrasti: bionda come una scandinava benchè sia nata nel profondo Sud, emana una allure che coniuga al fascino una buona dose di mistero dark. Non è un caso che, sulla passerella di Puglisi, abbia calamitato tutti gli sguardi mentre incendeva tra statue di Madonne barocche e croci al neon con l’ aplomb di una modella consumata. Per Greta è stato subito boom: richiestissima, la femme fatale milanese d’adozione ha moltiplicato il numero dei suoi fan in modo esponenziale. Ed è una vera e propria star  – a Milano, i suoi dj set del venerdì sera al Blanco sono un must – di un universo che costantemente intreccia lo sfavillio della nightlife a quello del fashion world.

Com’è stato sfilare per un designer del calibro di Fausto Puglisi?

Io e Fausto ci conosciamo da tanto tempo, entrambi abbiamo le nostre radici in Sicilia. Poche settimane fa, mi ha chiesto di incontrarlo per parlare di un “progetto speciale”. Facendo la stylist, ed essendo sempre stata dall’altra parte della passerella,  non mi sarei mai aspettata che volesse propormi di fare da modella per il suo show, mi ha letteralmente spiazzata. I giorni prima dell’evento mi sono sembrati quasi irreali e carichi di forti emozioni in cui una grande eccitazione si alternava a momenti di forte insicurezza: io con il  mio  metro e 67 e diciamo non esattamente giovanissima, fra tante ragazze appena maggiorenni e bellissime. Ero molto emozionata, quasi terrorizzata. Il giorno dello show l’ho vissuto come un sogno bellissimo,  avevo l’adrenalina a mille e non mi sono quasi accorta di quanto la giornata fosse stata lunga ed intensa; l’appuntamento per le prove era di primo mattino e durante il giorno ho sfilato 2 volte, anzi 3 se penso anche alla presentazione privata fatta nel backstage per Anna Wintour! E’ stato davvero un sogno oltre che un grande onore, e ora che rotto il ghiaccio lo rifarei altre mille volte.

Che rapporto hai con la moda?

Simbiotico: per me non è semplicemente un sostantivo bisillabico, spesso anche connotato in senso negativo per via della sua caducità. E’  l’insieme di fascinazioni che arrivano da un quadro, da un film, da un viaggio, un volto, da cui si cerca di estrarre l’essenza per renderla “eterna”, per non dimenticare. La moda è pura magia e se non incanta non si può definirla tale.

Greta sulla passerella di Fausto Puglisi

Nasci come truccatrice e stylist. Come ha avuto inizio la tua avventura da dj nei più celebri “templi della notte”?

Ho studiato Lettere Antiche a Milano, è stata una scelta meravigliosa, mi ha reso poliedrica, elastica… Qualsiasi  suggestione mi sia arrivata l’ho trasformata in lavoro. Nel mio DNA scorre sangue da vampiro, amo la notte, mi ispira molto più del giorno. Qualsiasi studio o lavoro io abbia intrapreso, ho sempre avuto un rapporto parallelo con i club come fossero “amanti”. Non potrei vivere senza musica e forse non ci sarebbe vita senza di essa. Persino le stelle pare la producano nel cosmo.

Rock e moda hanno sancito, ultimamente, un connubio del tutto speciale. Da dove sorge questo feeling, a tuo parere?

Non vorrei essere troppo oscura in questa risposta, ma credo che arrivi dalle tenebre: parliamoci chiaro, le rockstar raccontano poemi di anime tormentate, che non hanno pace. E’ un’eredità lontana che arriva dallo “Sturm und drang”, da Baudelaire. Quale designer non è stato ispirato dal rock? Oggi più che mai, forse perchè siamo in una fase dissacratoria e tormentata culturalmente. E’ un periodo di buio e la moda lo deve narrare.

Photo by Giampaolo Sgura

Il tuo è un look d’impatto, inconfondibile, lo definirei da “femme fatale pensante”. Qual è la playlist che meglio ti esprime?

In questa risposta vorrei mescolare insieme musica e cinema, sintetizzo una top five: 1) “Sinnerman” di Nina Simone. 2) “The Tenant” di Roman Polansky. 3) “Janitor of Lunacy” di Nico. 4) “Lo Zoo di Venere” di Peter Greenaway. 5) “Per una Bambola” di Patty Pravo. Ma il mio sogno sarebbe ascoltare Grace Jones che canta al piano con Michael Nyman.

La musica, lo stile, e…? Quali sono le tue altre passioni?

Ultimamente sto maturando una passione pericolosa per le pietre preziose, sto studiando il loro linguaggio energetico, mi rapisce il loro colore, la luce che emanano: come se avessero un’anima. Sono una grande appassionata di cinema, da come si è intuito, e in questo periodo sono letteralmente drogata di serie TV di cui sono in grado di divorarne un’intera stagione in una sola notte. E coltivo un amore immutato nel tempo per “La Recherche” di Marcel Proust: la porterei nell’Arca insieme a tutti gli animali, se dovessimo estinguerci…Ma non porterei l’uomo!

Con la moda hai intrecciato una liason fissa. A quali designer ti senti maggiormente affine?

Discorso complicato per non dire periglioso. Non sono vittima di un marchio preciso, non voglio banalizzare rispondendo con la classica frase “dipende dalle occasioni”, ma in una situazione tipo mi piacerebbe: bere un caffè in una collezione 2010/11 di Stefano Pilati per YSL ispirata alle Suore Nere, sposarmi in un abito bianco che Riccardo Tisci disegnò nella couture del 2007 per poi uccidere lo sposo in un abito tailleur di Thierry Mugler ispirato alle formiche e andare a ballare infine in un  look gladiatrice bondage, completamente ricamato di strass e firmato Fausto Puglisi, ovviamente!

Greta alla consolle

Cosa pensi del trend no gender?

Penso che se gli alieni invadessero la Terra un giorno non starebbero a guardare cosa conservi sotto le mutandine, per essere spiccioli… in questa prospettiva cerco di interpretare la mia esistenza: sono nata in un modo, mi sono evoluta in altra forma, cerco di stare bene con me stessa. La chiave sta nell’accettazione di ciò che si è in senso ontologico; dialogare con se stessi e trovarsi. Se poi la moda negli ultimi anni sta riuscendo a scardinare gli idola tribus ereditati dal cattolicesimo, credo sia un messaggio catartico rivolto alla Libertà, che è il valore più alto dell”uomo!

Una domanda che sembra rubata ad un colloquio di lavoro: come ti vedi tra 10 anni?

Mi vedo identica ad oggi, non so se farmi i capelli con riga al centro o laterale forse accorciarli, ma sicuramente sarò bionda!

Che ci racconti, invece, del tuo immediato futuro?

Ci sono diversi progetti molto allettanti artisticamente di cui non parlo per scaramanzia. Un giornale ha scritto: dj, stylist, trendsetter e musa. Ecco, direi che il ventaglio è abbastanza ampio. Continuerò a produrre ed  ispirare con quella consapevolezza ereditata dal classicismo che le sole Muse nacquero da Zeus e Mnemosine e quindi starò con i piedi per terra!

Greta con Fausto Puglisi

Greta La Medica profilo Instagram: greta_lamedica

Photo courtesy of Greta la Medica

 

 

Eve La Plume, eterea diva

Photo by Bostjan Tacol

Di lei colpiscono immediatamente l’ allure sofisticata, l’ incarnato diafano a contrasto con la chioma color rame. I fiori intrecciati tra i capelli pettinati a ondine richiamano la nuance vibrante del suo lipstick: lo stile è anni ’30 DOC, con incursioni ad ampio spettro nel rétro enfatizzate da abiti scenografici e preziosi. Eterea, fascinosa, garbatamente seduttiva, Eve La Plume è una Burlesque performer che si distanzia in toto dallo stereotipo della pin up. Al Summer Jamboree – dove, per il secondo anno consecutivo, è stata confermata conduttrice – ha sfoggiato creazioni di Luisa Beccaria con una grazia innata, donando risalto ad evening dress che erano un trionfo di pizzo e tulle. Fotografatissima, al Festival senigalliese Eve è ormai una diva. Ma non perde mai di vista l’ ironia, né un entusiasmo genuino, nel raccontarsi e nel raccontare passioni, tappe e progetti che tracciano il percorso della sua poliedrica carriera.

Sei al bis come presentatrice del Summer Jamboree. Qual è il tuo bilancio di queste due edizioni?

Rimango sempre sbalordita da questo Festival, organizzato da due persone che su un grande amore personale per gli anni ’50 hanno imbastito un evento meraviglioso che attira pubblico da tutto il mondo. Venire qui è per me, ogni volta, un’ iniezione di felicità. E’ davvero impressionante! Non si può essere tristi, al Summer Jamboree. Il mio bilancio, quindi, è superpositivo.

Puoi raccontarci qualche aneddoto relativo alla kermesse?

Al Summer Jamboree girano moltissimi fotografi, ufficiali e non. Il risultato è che si è fotografati a qualsiasi ora del giorno e della notte. Ci ho fatto l’abitudine, ma è impegnativo! Un giorno al mio fidanzato ho detto “Basta, oggi ci prendiamo una giornata liberatoria lontani dalle macchine fotografiche e dalle telecamere”, e siamo andati in spiaggia vicino alla Rotonda. Mi sono tolta il copricostume, mi sono slegata i capelli, sono entrata in acqua e ho sentito una signora che mi diceva ‘”Mi scusi signorina, la stanno chiamando da lassù!”: mi sono girata, ho guardato la Rotonda e ho visto tre teleobiettivi giganteschi, quattro macchine fotografiche, tutta l’organizzazione del Summer Jamboree  – che si trovava lì per caso, in realtà, ma vista Eve in acqua senza tutti i suoi artifici…Sono impazzita dal ridere, mi sentivo come le dive anni ‘50 paparazzate ovunque! E’ stato davvero comico. E gli scatti che ne son venuti fuori sono molto belli perché spontanei. Incredibile: persino in mezzo al mare sono riusciti a trovarmi!

Perché hai scelto di chiamarti Eve La Plume?

È una storia un po’ complicata, però posso semplificarla. Adoro il nome Eve perché è palindromo, cioè si legge anche al contrario. Ha tre lettere e a me piacciono i nomi brevi, e poi è il nome di una primadonna come Eva. “La Plume” perché fin da ragazzina mi hanno associata al concetto di leggerezza, quindi volevo un nome che contenesse un elemento leggero, delicato. In più, quando si pensa alla piuma, si pensa sempre alla piuma bianca, che svolazza. Nell’ immaginario collettivo la piuma è leggera e bianca. Dunque, Eve La Plume: un nome che è come una piccola poesia, molto fonetico.

Photo by Bostjan Tacol

Il tuo sofisticato stile d’antan è inconfondibile. Quali sono le tue epoche preferite?

Sono appassionata del periodo che va dalla fine dell’800 agli anni ’30 e ’40 del ‘900: il periodo della Belle Epoque, del Liberty, dell’ Art Déco. Di quell’ epoca amo l’estetica in toto: architettura, arredamento, abbigliamento…

Hai icone di riferimento a cui ti ispiri?

La Marchesa Luisa Casati è stata per me un innamoramento a prima vista, una folgorazione: era una donna coraggiosa, molto moderna, una performer di inizio ‘900. Con la cura, con lo studio, ha fatto di sé un’opera d’arte. Per un periodo mi è piaciuta Kiki de Montparnasse, una sorta di groupie di fine ‘800, e poi tante altre…Ammiro le donne audaci e “fuori dal loro tempo”, che hanno condotto una vita ben diversa rispetto a quella, costrittiva, delle donne dell’epoca.

Il Burlesque inneggia al glamour e all’ arte della seduzione. Che cos’è, per te, la femminilità?

Io non associo il Burlesque all’ arte della seduzione: per me è una ricerca estetica. Anche se, in generale, è sempre collegato alla sensualità femminile. Di sicuro la bellezza ha un suo lato sensuale. Il Burlesque va comunque alla ricerca di una bellezza del passato, dell’immagine di una donna che fu. Per me femminilità è la cura di sé, una cura estetica a 360° che comprende l’atteggiamento, la parola, il modo di muoversi, il modo di porsi…E’ questo che mi interessa. Perché oggi si guarda spesso a una bellezza molto più immediata e non alla cura che si costruisce nel tempo con i gesti, le parole, l’educazione.

Photo by Bostjan Tacol

Una domanda a bruciapelo: cosa voleva fare, da grande, Eve La Plume?

Da ragazzina, intorno agli 11 anni, volevo fare l’insegnante di pattinaggio artistico. Pattinavo tutti i giorni, era la mia missione di vita, e poi l’ ho fatto. Quando sono diventata più grande insegnavo pattinaggio artistico e mi sono resa conto che faceva così freddo, ma così freddo, che ho abbandonato l’ idea dopo 2- 3 anni! Poi volevo fare la stilista e quindi ho aperto un laboratorio di sartoria in cui si facevano abiti ed accessori per i negozi, per gli artisti che calcavano i palchi. E’ durata 10 anni. Infine, volevo diventare la regina del Burlesque! Ed è andata abbastanza bene, devo dire. Quando mi metto in testa di fare qualcosa, in qualche modo ci riesco. Non sempre con lo stesso successo, però i miei sogni li concretizzo. E riesco a non avere rimpianti.

Quali sono i tuoi progetti più immediati?

Tra i miei progetti più immediati di sicuro c’è “Ultimo Spettacolo”, uno spettacolo teatrale che gira l’ Italia da un paio d’anni e il 12 novembre prossimo sarà a Bologna: spero che decolli perché ne sono molto orgogliosa. E poi ci sarà Venezia, perché sono già 6-7 anni che faccio parte del cast del Ballo del Doge e di altri eventi del Carnevale Veneziano. In più,ho in programma tante date e feste private in giro per l’ Italia.

Photo by Bostjan Tacol (https://www.facebook.com/PhotobillyPhotography/)

L’ abito blu e l’ abito in pizzo bianco che Eve indossa sono firmati Luisa Beccaria

“MemoryCard” di Rita Vitali Rosati: quando il vissuto visivo si fa racconto

 

Rita Vitali Rosati

Dissacrante, visionaria, ironica, eclettica, acuta e sensibile osservatrice del suo tempo: una manciata di aggettivi che non basta a definire Rita Vitali Rosati, ma che tenta di condensarne la quintessenza. Nata a Milano, fabrianese di adozione, Rita è un’ artista che traduce in opere giocosamente trasgressive il suo personale “inventario” del reale. Pittura, fotografia e performance sono solo alcune delle modalità espressive di cui si avvale. A fare da leitmotiv, immagini che con attitude destabilizzante, ma pervasa di poesia intrinseca, riflettono lo sguardo dell’ artista sul mondo e sui suoi tic:  Rita si fa interprete in prima persona dei concetti che esplora, amplifica e ribalta continuamente le coordinate della propria visionarietà. “Mette una lente di ingrandimento sul formicolio sociale” – come recita la sua biografia ufficiale – scrutandolo con occhio ironico, a tratti con crudezza. Ma soprattutto, è sempre in grado di sorprenderci con la sua travolgente inventiva: stavolta lo fa con MemoryCard, progetto che racchiude in un inedito packaging in latta 50 cartoline associate ad altrettante immagini, 25 delle quali ospitano un breve racconto d’autore. Estrapolate dal vasto repertorio che l’ artista ha realizzato nel tempo, le foto condensano un vero e proprio vissuto visivo. Ho incontrato Rita per saperne di più su questo innovativo, singolarissimo photo-book.

MemoryCard è un mix eclettico di fotografia, design e scrittura dal forte impatto visivo. Come “racconteresti” quest’ opera?

Il raccontare dell’opera si evince scoprendo il fil rouge  che lega i testi alle immagini. Seguendo il proprio istinto che indica una corsia privilegiata unendo in una sintesi l’input dato dalle immagini, (che sono le domande) a quello dei testi, (che sono le risposte). O rovesciando il tutto, sorpresi dalla natura vicendevole dei soggetti.

Perché la scelta di un titolo ispirato alla scheda informatica che mantiene i dati in memoria?

E’ un titolo che parla dell’attualità, per vivere la contemporaneità.

Le “contaminazioni artistiche” sono oggi molto in voga. Su quali criteri ti sei basata per la scelta degli autori?

Non mi piace il termine “contaminazione”, nasconde una qualche patologia in atto. Prediligo l’espressione “duettare”, si anima di passione, di complicità, di armonie in divenire.

Qual è il link che fa da leitmotiv ai 50 scatti?

Il tema dell’assenza è l’idea trainante dell’intero progetto adottato per dare l’agio allo scrittore di colmare, senza eccessiva premeditazione, il vuoto indicato dalle immagini che, nelle sue declinazioni, sono lo scenario per le diverse interpretazioni degli autori che ne hanno fatto, così, un racconto.

Se dovessi descrivere il connubio tra immagine e racconto con un aggettivo, quale utilizzeresti?

Ho una particolare predilezione per gli ossimori, perciò le definirei “silenziosamente eloquenti”.

Come nasce l’ intuizione del pack in latta?

L’input creativo nasce da una sinergia: una corrente carica positivamente di indizi, di impulsi che hanno sede in un’area astratta, altra, quindi metafisica, si incontra con un ricevente che è già sintonizzato, perché istruito a plasmarlo  secondo il proprio istinto e la propria sensibilità. E la propria cultura.  Per deformarlo. Ecco, la mia scatola è una deformazione di un vuoto che è stato riempito.

“Che cos’è, detto sottovoce, la memoria?” si chiede Gordon Splash in un passaggio del suo racconto. Cosa gli risponderesti?

Ci deve essere un fantasma che riscrive i ricordi a volte al contrario percorrendo il vissuto con una luce particolare per darsi come testimonianza.

Calvino scrisse: “La fantasia è il burro, ma perchè sia produttiva bisogna spalmarla su una fetta di pane.” Qual è la tua “fetta di pane”?

Preferisco il Panettone (!).

 

 

 

Gli scrittori presenti nell’ opera sono: Laura Bosio, Enrico Capodaglio, Alessandro Catà, Filippo Davoli, Paolo Di Paolo, Angelo Ferracuti, Chicca Gagliardo, Bianca Garavelli, Roberta Lepri, Giuseppe Lupo, Gian Ruggero Manzoni, Angelo Mastrandrea, Marco Missiroli, Alessandro Moscè, Feliciano Paoli, Laura Pariani, Aurelio Picca, Silvio Ramat, Francesca Scotti, Fabio Scotto, Gordon Splash, Paolo Valesio, Gian Mario Villalta, Piergiorgio Viti, Alessandro Zaccuri.

MemoryCard, prodotto in esemplari di 500 pezzi editi da Hacca Edizioni, contiene inoltre alcuni gadget più un piccolo catalogo e gli interventi critici di Maria Letizia Paiato, Paola Paleari e Marcello Sparaventi.

Photo courtesy of Rita Vitali Rosati

Schield Jewels: a tu per tu con Roberto Ferlito

In questi giorni la stampa internazionale, sempre molto attenta ai look di Letizia Ortiz,  è rimasta letteralmente conquistata dagli orecchini che la Regina di Spagna ha sfoggiato durante la cerimonia di premiazione della Fondacion Consejo Espana-India: un grappolo di fiori smaltati di bianco e cosparsi di Swarovski che pende dal lobo sfiorando delicatamente il collo. Gli orecchini in questione sono firmati Schield, un brand che i lettori di VALIUM conoscono ormai bene. Direttore creativo del marchio fondato a Firenze nel 2012 è Roberto Ferlito, classe 1981, nato in Sicilia ma fiorentino d’adozione. Dopo il diploma al liceo artistico, Roberto prosegue gli studi a Milano prima di stabilirsi definitivamente nel capoluogo toscano,  dove esordisce come designer di accessori per brand del calibro di Vivienne Westwood e Roberto Cavalli. E’ durante il periodo trascorso alla corte del “Re dell’ Animalier” che ha il suo primo approccio con il gioiello: un coup de foudre sfociato, in breve tempo, nella creazione di una griffe che ingloba la luxury jewellery in un vero e proprio progetto con focus sul design, sulla fotografia e sul lifestyle. L’ incontro e il connubio con il fotografo Diego Diaz Marin sono stati, in questo senso, fondamentali. Insieme, Ferlito e Diaz Marin hanno dotato l’ universo Schield di un’ identità inconfondibile e dal forte impatto visivo: il design avantgarde di Roberto mixa originalità e inventiva con piglio graffiante, a tratti ironico, declinando il proprio estro visionario in creazioni ad alto tasso di savoir faire artigianale. La destinataria è una donna audace, priva di censure, eccentrica e sofisticata al tempo stesso: una donna che le advertising campaign di Diego Diaz Marin per Schield “raccontano” in immagini d’effetto.

Il successo riscosso da questo brand già divenuto iconico era inevitabile, rafforzato dal visual magazine Doubleview che ne diffonde il progetto a livello internazionale.  La nomina tra i finalisti della categoria “Accessori e Gioielli” di Who’s Next, l’ iniziativa di fashion scouting  lanciata da Altaroma e Vogue Italia, ha rappresentato un ulteriore, prestigioso step nella carriera di Roberto Ferlito: l’ ho incontrato per approfondire con lui l’ appassionante avventura di Schield.

Come nasce il tuo percorso di designer di gioielli?

Mi avvicino al mondo del gioiello quasi per caso, quando cominciai a lavorare per Roberto Cavalli 14 anni fa. Da lì una grande sorpresa mi porta ad appassionarmi fino a creare Schield.

A Firenze vivi, ma hai anche fissato il tuo headquarter. Quali sono i pro e i contro dell’ aver privilegiato una location che, pur prestigiosa,  si distanzia dal circuito delle capitali internazionali della moda?

Firenze è da sempre una città che mi ha dato molto, sia nel personale che nel lavoro. La distanza non mi spaventa anche perché è in un punto strategico, che ti permette di arrivare un po’ dappertutto. Il mio studio, creato insieme a Diego, è un luogo dover poter seguire serenamente i nostri progetti e il fatto di essere un po’ distanti dalle capitali della moda ci permette di creare senza nessun tipo di influenze.

Schield è un progetto che incorpora un mix esplosivo di estro e trasgressione. Quali input ha apportato, in questo senso, il tuo connubio creativo con Diego Diaz Marin?

Quando ho conosciuto Diego è scattata, da subito, una sintonia creativa molto simile che ci ha permesso di tracciare senza alcun dubbio la nostra strada creativa. In poco tempo ha permesso sia a Schield, che a Diego come fotografo, un forte impatto nel mondo della moda, dell’arte e delle celebrities.

Quanto è importante l’ aspetto visuale, oggi, al fine di veicolare l’ identità e il mood di un prodotto?

Soprattutto per Schield è importante perché con i nostri scatti, oltre a mostrare i gioielli siamo riusciti a creare un mondo che ha dato una personalità al brand.

Nei tuoi jewels risaltano il design innovativo, scintillanti Swarovski e colori vibranti che si sposano con l’ artigianalità più minuziosa. A quali spunti attinge la tua ispirazione?

E’ tutto casuale, qualunque cosa guardo può diventare un gioiello Schield.

Se dovessi tracciare un ritratto della “donna Schield”, come la descriveresti?

Decisa!

Esistono creazioni a cui sei particolarmente legato o contraddistinte da una speciale traiettoria creativa?

Uno dei pezzi che preferisco è la Fluide Necklace, un choker che viene realizzato come se il metallo stesse per sciogliersi.

Doubleview è il magazine che “racconta” il progetto Schield nella sua interezza. Posso chiederti qualche anticipazione sul prossimo numero della rivista?  

Doubleview è un progetto a sé, anche se viene realizzato nel nostro studio. Ha una propria personalità. L’ unica anticipazione che posso darti è che il prossimo numero uscirà a fine settembre e sarà un numero provocatorio molto più vicino all’ arte visiva che alla moda.

Cos’ ha rappresentato, per te, il traguardo di Who’s Next?

Una grande soddisfazione, sono contento di aver fatto parte di questo progetto!

 

 

Photo courtesy of Schield

Michael Putland, il fotografo delle leggende del Rock

Il libro-catalogo THE ROLLING STONES BY PUTLAND (ed. LullaBit)

 

Dalla A degli Abba alla Z di (Frank) Zappa: difficile individuare chi non sia stato immortalato da Michael Putland, in un ipotetico “alfabeto del Rock”. Classe 1947, inglese, Putland debutta come assistente fotografo quando è appena un teen. Apre il suo primo studio fotografico nel 1969, anno di transizione che vede sfumare gli Swingin’ Sixties nell’ era hippy e delle più graffianti Rock band. E’ allora che il link tra Michael Putland e la music scene si salda, indistruttibile, per tutti gli anni a venire. Il ruolo di fotografo ufficiale che ricopre per Disc & Music Echo, un magazine di musica britannico, è in questo senso fondamentale: proprio grazie alla rivista ha un primo approccio con Mick Jagger, che nel 1973 segue in tour inaugurando un pluriennale sodalizio con i Rolling Stones. Nel frattempo, prosegue indefessa la sua collaborazione con la stampa musicale e con major discografiche come CBS, Columbia Records, Warner, Polydor e EMI, per le quali ritrae le star di un’epoca straordinaria in quanto a innovazione e a fermento creativo. Nel 1977 si trasferisce a New York dove fonda Retna, agenzia fotografica rimasta attiva per quasi trent’anni. I soggetti principali del suo portfolio sono gli eroi della music scene: dagli Stones a Bowie passando per Prince, Eric Clapton, Tina Turner, Joni Mitchell e Marc Bolan – solo per citarne alcuni – Putland immortala personaggi annoverati nella music history per carisma e genialità. Ai suoi scatti vengono dedicate mostre, come l’ importante retrospettiva che la Getty Gallery di Londra ha organizzato per il suo 50mo di carriera o quelle, tutte italiane, con cui ONO Arte ha reso omaggio al suo archivio su David Bowie e sui Rolling Stones. Ed è proprio in occasione di It’s only rock’n roll (but I like it), la mostra che fino al 23 Luglio sarà visitabile nella galleria d’arte bolognese, che ho avuto il privilegio e l’ onore di scambiare quattro chiacchiere con Putland. Il libro-catalogo THE ROLLING STONES BY PUTLAND rappresenta una chicca aggiuntiva dell’ esposizione: edito da LullaBit, raccoglie oltre 200 scatti in cui il grande fotografo ha immortalato i Rolling on e off stage. Una splendida opportunità per approfondire l’ opera di Putland e per immergersi nel mood che animava (e che anima) una vera e propria leggenda del Rock.

Ha scattato la prima foto a soli 9 anni. Quale ‘molla’ ha innescato il colpo di fulmine con la fotografia?

Sì, è stato davvero un colpo di fulmine tra me e la fotografia. Ma la mia influenza principale è stato mio zio, che vedeva che questa passione stava nascendo in me e mi aiutò molto a coltivarla. Lui aveva un macchina fotografica tedesca, una Voigtländer 35 mm, e da lì partì tutto. Ho ancora una collezione di macchine fotografiche appartenute alla mia famiglia, quella di mia nonna ad esempio, con cui di fatto scattai la mia prima fotografia! Mia nonna, in seguito, mi regalò una delle prime macchine con rullino: una Kodak Crystal.

Si dice che lei abbia fotografato tutte le rockstar al top dagli anni ’70 in poi. Ha mai coltivato velleità musicali?

In realtà mi sarebbe piaciuto ma non ero per nulla portato, nonostante mia nonna – quella della macchina fotografica – fosse una pianista abbastanza famosa ai suoi tempi.

Michael Putland

Tra gli innumerevoli artisti che ha immortalato spicca David Bowie. Che ricordo ha di lui e quali atout, a suo parere, lo hanno tramutato in un’icona?

La prima volta che vidi Ziggy pensai che fosse eccezionale e diverso. Tutto quel periodo era straordinario, e l’aspetto androgino di Bowie era qualcosa che non si era mai visto. Credo che quello che lo abbia davvero reso un’icona – a parte la sua musica incredibile, perché non scordiamoci che la musica era incredibile – sia stata la sua capacità di reinventarsi costantemente. Anche il suo ultimo lavoro prima di morire, Lazarus, è stato davvero un capolavoro di citazioni e innovazioni al tempo stesso.

Il bianco e nero è un leit-motiv di tutta la sua opera. Perché?

Ovviamente sono cresciuto con il bianco e nero, e anche quando le pellicole a colori divennero disponibili, nessuno se le poteva davvero permettere – e a pensarci bene non ho mai conosciuto nessuno che ai tempi le usasse! Il mio occhio è abituato a leggere il mondo a due colori, anche quando scatto ora.

┬®Michael Putland, Mick & Keith live, Wembley 1973

La sua collaborazione con i Rolling Stones ha avuto inizio nei primissimi anni ’70. Che tipo di feeling si è instaurato tra lei e la band?

Quello che posso dire è che ci trattavamo con estremo rispetto reciproco e fiducia, ognuno del lavoro dell’altro. Il nostro rapporto era più che altro professionale, fatto di gesti e pose più che di parole, soprattutto in confronto al rapporto che avevo con altri artisti. E forse questa è sempre stata una delle cose che ho amato di più.

Nei suoi scatti, la quintessenza degli Stones si esprime al meglio nella dimensione del tour. Come se lo spiega?

Uno dei talenti che ho in assoluto come fotografo, se posso dirlo, è quello di stabilire un rapporto con il soggetto che ritraggo. La band si sentiva a proprio agio  con me e quindi ero in grado di cogliere la loro vera essenza – non un’immagine posata – che sul palco, ovviamente, era all’ennesima potenza. Oggi quando scatto in digitale ho ancora questa capacità, infatti edito pochissimo le mie foto. In realtà, se devo essere onesto, preferisco fotografare chiunque non sul palco: le restrizioni e le difficoltà tecniche sono folli. Ma con gli Stones era una simbiosi di musica e performance che sapeva trascinarti via. Per quello, essere con loro on stage era incredibile.

Bowie, 1976. The Thin White Duke

Esistono foto, tra quelle in mostra, che associa a ricordi o ad aneddoti particolari?

Senza ombra di dubbio la foto che scattai a Bob Marley, Peter Tosh e Mick Jagger al Palladium Theatre di New York. Il contrasto tra il viso di Mick esausto dalla performance sul palco è così bianco e quello di Peter Tosh così sorridente e scuro, al contempo: mi  hanno regalato uno dei miei scatti di maggior successo.

Il libro fotografico ROLLING STONES by PUTLAND è presentato in una doppia copertina raffigurante Mick Jagger e Keith Richards. Chi dei due subisce maggiormente il fascino dell’obiettivo?

Mick è sicuramente più naturale davanti all’obiettivo, ma al tempo stesso se Keith sorridesse e fosse a suo agio non sarebbe più lui. In realtà in questi ultimi anni è sempre più sorridente, lui stesso non si riconosce più – dice. In fondo, è un nonno anche lui!

Photo courtesy ONO Arte

Bet She Can: un nuovo concetto di empowerment pre-teen

I Barbie Awards hanno prepotentemente portato alla ribalta la sua progettualità innovativa: Bet She Can, fondazione che mira a sostenere tramite percorsi motivazionali e di empowerment le pre-adolescenti provenienti da qualsiasi contesto economico, religioso e sociale, si è subito imposta tra le più interessanti realtà legate al non profit. La fondatrice Marie-Madeleine Gianni approfondisce con noi gli input, i punti cardine e gli obiettivi di un’ iniziativa che si propone, come fine ultimo, che “le bambine sboccino in donne serene, coraggiose e soprattutto libere.”

Come e quando nasce Bet She Can?

Nel gennaio 2015. E’ una start up non profit fondata da me e dalle due consigliere che mi supportano in questa avventura, Giovanna Leto di Priolo e Laura Arena: ho sempre voluto fare qualcosa per provare a cambiare questa nostra società e ho pensato che le giuste referenti fossero le bambine tra gli 8 e i 12 anni. La fondazione è unica nel suo genere perché il fatto di approcciare con una logica di puro investimento, non di prevenzione né di risoluzione di problemi, un pubblico così giovane, è una cosa nuova per il nostro Paese.  12 anni è un età massima perché poi si entra nelle turbe dell’adolescenza e il rapporto con l’ esterno, in particolare con il mondo adulto, si fa meno diretto e trasparente.

Quanto incidono, sulle giovanissime, gli stereotipi che ruotano attorno alla figura femminile?

Viviamo in una società che, anche se si rende conto che siamo immersi negli stereotipi, li subisce ogni giorno. Facciamo fatica a decodificarli e a far filtro, soprattutto i bambini e le bambine che non hanno gli strumenti per cogliere le distorsioni veicolate da certi messaggi dei media, delle famiglie, delle scuole, della società in generale. Il nostro intento è cercare di far sì che le bambine siano fondamentalmente libere di fare le proprie scelte e di mettere in discussione queste imposizioni stereotipate.

Su quali basi poggia l’ empowerment delle nuove generazioni?

Sicuramente sulla consapevolezza di chi sono e chi posso diventare. Abbiamo suddiviso i nostri percorsi in 5 filoni- corpo, mente, contesto,  avvicinare le bambine alle tecnologie e ai mestieri etichettati come maschili –  che veicolano due concetti base: la conoscenza delle proprie potenzialità e il coraggio di tirarle fuori. E’ importante far capire a queste bambine che hanno una personalità e caratteristiche che permettono di fare tante cose, che il mondo è pieno di opportunità. Però bisogna tirar fuori la grinta, il coraggio e la determinazione. Gli errori fanno parte del percorso, mettersi in gioco è assolutamente essenziale.

Nell’ era dei social, le competenze tecnologiche delle native digitali possono contribuire ad azzerare gli standard legati al genere?

I mezzi sono sicuramente innovativi, ma comunicando sempre gli stessi modelli perdono il loro potenziale. Una frase di Michelangelo rende l’ idea: “Ho visto un angelo nel marmo ed ho scolpito fino a liberarlo”: devo avere un’ immagine di dove devo arrivare. Il fatto di avere di fronte una Samantha Cristoforetti, una Margherita Hack, una Rita Levi Montalcini fa sì che le bambine abbiano dei riferimenti in carne ed ossa in cui immedesimarsi. Ecco, mi piacerebbe che gli strumenti a loro disposizione comunicassero anche questi esempi.

Esiste una professione a cui oggi le bambine maggiormente ambiscono anche in virtù dei modelli proposti da media e web?

In questa fascia di età le risposte sono molto personali, legate a passioni e a interessi individuali che poi si perdono perché la pressione mediatica della società e dell’ entourage si fanno più forti. Non me la sento, quindi, di segnalare trend o macrocategorie: posso solo dire che le bambine non dovrebbero mai perdere la passione che le guida.

Attraverso i Barbie Awards, Bet She Can ha diffuso una nuova percezione della bambola Mattel: una donna volitiva che realizza i propri sogni di bambina.  Cosa pensi delle ultimissime Barbie “realistiche”?

Una Barbie, per ogni bambina, è sempre la possibilità di immedesimarsi in un personaggio e vivere straordinarie avventure con l’ immaginazione. Il fatto che fosse alta e bionda non l’ ho mai percepito come un limite: per la mia Barbie inventavo storie che duravano ore, era una specie di avatar. Se oggi è disponibile in varie forme, bene: ma non mi sembra essenziale.

Quali sono i progetti più immediati della vostra fondazione?

Abbiamo appena lanciato un bellissimo progetto a Roma, “Cambiamo gioco”, finanziato da Mattel Italy e in collaborazione con la cooperativa sociale Be Free. E’ partito oggi, il 16 aprile, e promuove l’ importanza della solidarietà e del confronto positivo con gli altri: un tema che riteniamo importantissimo in particolare per le bambine. Fino a novembre effettueremo 10 incontri su base quindicinale. Proprio perché il fil rouge è la solidarietà, prevediamo la possibilità di innestare piccoli percorsi in ciascun municipio con una bambina-ambasciatrice. È un progetto al quale tengo moltissimo, realizzato grazie alla concessione dal prefetto Tronca e con il patrocinio del Comune di Roma.

Nelle foto, Marie-Madeleine Gianni all’ evento dei Barbie Awards

Photo credits Magia2000

Photo courtesy of Marie-Madeleine Gianni/Bet She Can

“Doubleview” diventa internazionale

 

La sua è un’ impronta artistica inconfondibile: colori vibranti, netti, decisi, che mettono in risalto un mood irriverente e profuso di ironia. Il cielo azzurro del Mediterraneo riaffiora come un flashback, delineando il leitmotiv di scenari potentemente radicati nell’ immaginario. E poi, ancora, il rosso, il fucsia, il blu elettrico, il giallo, l’acquamarina, alternati in cromatismi vividi e di estremo impatto: spagnolo di Torre del Mar, il ventinovenne Diego Diaz Marin ha interiorizzato i panorami della sua infanzia traducendoli in assoluti input visivi. Come fashion photographer si impone in Italia, spaziando dalle advertising campaign per marchi del calibro di Roberto Cavalli, Aquazzura, Luisaviaroma, Liu Jo – solo per citarne alcuni – a shooting graffianti e sottilmente provocatori. Dal 2012 affianca il designer Roberto Ferlito nel concept di Schield, jewellery brand con base a Firenze per cui realizza campagne pubblicitarie ad alto tasso di originalità creativa. Le protagoniste sui generis fanno da fil rouge a tutta la sua fotografia: drama queen ossessionate dai sogni e da desideri di evasione, eccentriche eroine di una quotidianità che sconfina di continuo nel surrealismo onirico. Donne che sembrano appena uscite da una pellicola di Almodovar, “raccontate” da Diego nell’ incredibile contrasto tra le azioni improbabili e un’ eleganza innata. I suoi shooting sotto forma di photofilm si prestano molto, in tal senso: ogni singolo fotogramma è il tassello di una storia, parte integrante di un percorso che include un inizio e un culmine. Questo storytelling per immagini rappresenta anche il leitmotiv di Schield, progetto ad ampio spettro che cala la creazione di jewels in un effervescente mix di design, moda e fotografia rinsaldando il sodalizio creativo tra Ferlito e Diaz Marin. E’ da questa intuizione che è nato Doubleview, visual book  che si addentra nell’ universo artistico del fotografo andaluso esplorandolo nelle molteplici sfaccettature: prodotto da Finger Coast Studios, la società che il duo di Schield ha fondato a Firenze, Doubleview è un “compendium” in cui coté fashion e concettualità si intersecano con un risultato esplosivo, evidenziando il genio inventivo di Diaz Marin e degli special guest che di volta in volta appaiono nel magazine. A un esordio on line è seguita l’ edizione cartacea, appena lanciata a livello internazionale. Da ora in poi, Doubleview farà capolino nei newsstand di (quasi) tutto il mondo: dall’ America al Giappone. E’ proprio Diego Diaz Marin ad approfondire con noi questa nuova avventura.

 

Il lancio internazionale di Doubleview è appena partito. Su quali Paesi avete puntato, per il debutto?

Al momento Doubleview è appena uscito negli Stati Uniti, in Belgio, Gran Bretagna, Olanda, Francia, Spagna, Canada, Italia, Portogallo, GermaniaAustralia e Giappone.

Dove verrà distribuito esattamente?

Prevalentemente nei concept store, nelle edicole e nelle librerie specializzate.

Il visual book include contributi da parte di numerosi special guest. Cosa ci racconti, al riguardo?

Per questo primo numero abbiamo collaborato soprattutto con Schield e con Pamela Costantini, una grande amica che mi ha spinto a creare questo progetto ed è attualmente una shoe designer da Givenchy. Abbiamo realizzato un editoriale con Vivetta ed altri, diciamo così, più “indipendenti”. A cui tengo molto perché attraverso questi shooting posso esprimere la mia arte in modo “puro”, scattandoli nel mio Paese con persone che da sempre mi ispirano. Infatti, per la seconda uscita, il numero sarà scattato al 50% in Spagna. Per quanto riguarda le illustrazioni, Gianpaolo Infante ha contribuito con un editoriale ispirato alle televendite degli anni ‘80.

 

Lo spazio dedicato alla fotografia continuerà a rappresentare la quasi totalità della rivista o prevedi evoluzioni?

No, voglio che lo spazio sia totalmente visivo. Gli editoriali dei prossimi mesi racconteranno delle storie, ma solo per immagini. E’ questa la filosofia della rivista.

Come definiresti il tuo stile fotografico?

Non saprei definirlo: posso solo dirti che la fotografia è per me qualcosa di viscerale, mi esce “da dentro”. Il mio lavoro non è impostato, è intuitivo, nasce da sè. Se dovessi trovare una definizione, direi “cinematografico”. Ogni foto è come il fotogramma di un film.

 

Il fashion world ti appassiona sin da bambino. Com’ è nata questa fascinazione?

Da bambino, quando lavoravo nel campeggio dei miei genitori, vedevo la pubblicità di Roberto Cavalli e sognavo… Anni dopo, quando mi sono ritrovato a casa sua per una campagna pubblicitaria, appena ho finito mi sono messo a piangere perché avevo realizzato un sogno che mi sembrava irraggiungibile. Sono stato sempre molto attratto, come ipnotizzato dal mondo della moda. Da Cavalli, ho iniziato con la campagna accessori Psychotic love. Oggi, se devo essere sincero, dalla moda sono un po’ annoiato. Nel senso che preferisco mantenere la fotografia “pura”, infatti il secondo numero di Doubleview sarà molto più incentrato sul “concetto” e meno sulla “moda”. Ossia: la moda sarà presente perché il look delle modelle verrà accuratamente studiato, ma sarà molto più “anonima”. Perché secondo me oggi c’è tanto, troppo sfruttamento del marketing. Vorrei che la fotografia rimanesse qualcosa di più concettuale: che fosse l’ immagine ad essere protagonista, non un brand.

Photo courtesy of Diego Diaz Marin

 

 

 

Lindsay Kemp: tra Teatro e Glam Rock

Lindsay Kemp, ovvero quando il talento si unisce a un carisma straordinario. In quasi cinquant’anni di carriera, il visionario artista che conquistò nomi del calibro di Nureyev e Fellini con il suo mix di mimo e teatro danza ha rievocato, sul palco, un universo forgiato da molteplici ispirazioni. Oggi vive a Livorno e porta in tour lo show Kemp dances. Inventions and reincarnations dando ulteriore prova della sua leggendaria genialità istrionica: e se proprio a Kemp va il merito di aver unito teatro e rock tramite la messa in scena di The rise and fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars del suo allievo David Bowie, fu la figura emblematica di Pierrot a tracciare un imperituro link tra l’ immaginario artistico del Duca Bianco e quello del coreografo inglese. In questa intervista, Lindsay Kemp si racconta e ce ne spiega i motivi.

Quando e come si è rivelato il suo talento di artista?

Sono nato danzando. Danzare mi piaceva così tanto che non avrei potuto essere altro se non un danzatore. Ma il cammino non è stato facile, ho dovuto combattere. Mia madre, quando ha cominciato a capire che la danza era quel che volevo fare nella vita, ha cominciato a preoccuparsi: che non avessi abbastanza talento, che non avessi il fisico, che avrei avuto problemi economici…E con buonissime intenzioni mi ha iscritto a un collegio nautico militare dove sperava che seguissi le orme di mio padre, un marinaio morto durante la guerra mondiale. Ma la disciplina militare non ha fatto altro che rafforzare le mie inclinazioni artistiche!

Perché la scelta di privilegiare l’ arte mimica?

Il mimo è solo un aspetto della mia espressione teatrale. Mi avvalgo di diverse forme artistiche per arrivare, in tutti i casi, a toccare il cuore dello spettatore.

Ha dichiarato che Marcel Marceau le ha “dato le mani”. Oltre che dal grande mimo francese, da quali figure è stato maggiormente ispirato?

Prima dell’  incontro con lui, i miei insegnanti di danza dicevano che le mie mani sembravano “salsicce”: non le usavo con grazia. Marceau mi ha insegnato tantissime cose, ma gli sono grato soprattutto per aver trasformato le mie mani da “salsicce” in “farfalle”. I Maestri che mi hanno più influenzato, per la maggior parte, non li ho mai incontrati. Ho imparato molto da Picasso, attraverso i suoi dipinti. E nella danza, attraverso lo spirito guida di Isadora Duncan, dagli spettacoli di Martha Graham, Paul Taylor e Pina Bausch.

La sua opera è contraddistinta da un mix di linguaggi teatrali. Come si inserisce, in questo contesto, il suo approccio alla danza?

Ho imparato moltissimo imitando i miei maestri sia nella danza che nella pittura. Seguendo le loro orme ho trovato me stesso. La cosa più importante, quando hai un pubblico, è intrattenere. La danza è forse il mezzo più veloce per arrivare a toccare il cuore della gente. La mia arte non poggia su chissà quale intellettualistico motivo: è come inviare una cartolina allo spettatore per condividere la gioia di quel momento, per sollevare lo spirito, per dare amore. I protagonisti dei miei disegni sono i tipici personaggi dei miei spettacoli: il marinaio, il circo, il saltimbanco, le ballerine, il torero…Ricerco la luce, il colore: voglio donare un messaggio di positività immediato. Quando sono in scena il mio scopo è quello di raccontare una storia, senza barriere o limiti concettuali. Cantare, proiettare un dipinto, recitare: tutto si mescola con armonia per arrivare allo spettatore in modo completo.

David Bowie è stato il suo più celebre allievo. Che ricordo ha di lui?

Ho solo ricordi felici. David vide un mio spettacolo a Londra, nel ‘67. Incantato dal mio mondo – che definiva “il mondo bohemien di Pierrot” – venne a trovarmi nel backstage: rimasi folgorato. Mi chiese se poteva essere un mio allievo e il giorno dopo era a lezione da me. Gli ho insegnato ad esprimere se stesso attraverso il corpo, era uno studente di prima classe. Lo spettacolo che abbiamo creato insieme, Pierrot in Turquoise, ha girato l’ Inghilterra ed ha avuto una stagione a Londra prima che ci separassimo per un periodo. Un paio d’anni dopo ci siamo incontrati di nuovo per una versione TV di Pierrot in Turquoise ribattezzata The looking glass murders. David mi portò il suo nuovo LP The rise and fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars e mi chiese di aiutarlo a metterlo in scena al Rainbow Theatre. In quello show appaio come guest artist: è così che è nato “Starman”.

Il personaggio di Ziggy Stardust sancì una sinergia tra lei e Bowie. Come ebbe inizio quella straordinaria avventura?               

Ziggy è stato una sua creazione. La mia influenza si è concretizzata nello stabilire una connessione tra la rockstar Bowie e l’ artista d’ avanguardia che ero. È stato forse il primo mix tra musica rock e azione scenica: lo show era influenzato dalla mia passione per il teatro giapponese, soprattutto il kabuki, uno spunto che ha poi avuto un’ enorme influenza nell’ opera di David Bowie.

Quali affinità accomunavano i vostri universi artistici?

Era una mescolanza totale, una fusione.

Una frase che non ha avuto la possibilità di indirizzargli quando era in vita: cosa gli direbbe?

“ Vorrei rivivere tutto di nuovo”. Ma senza cuore infranto finale!

Kemp Dances – un titolo che gioca sul significato ambivalente di “dances” come verbo in terza persona e sostantivo al plurale – Inventions and reincarnations è uno show antologico che alterna brani del repertorio di Lindsay Kemp a nuove creazioni sceniche. Sono presenti, tra gli altri, Ricordi di una Traviata, il celebre assolo The flower e Frammenti dal diario di Nijinsky, icona della danza alla quale Kemp ha dedicato più di un tributo. Kemp dances, che l’artista porta in scena con la Lindsay Kemp Company, approderà in Spagna il prossimo Settembre per la seconda tranche di un tour che ha a tutt’ oggi incluso l’ Italia e parte della penisola iberica.

Photo Credits: Richard Haughton

Un ringraziamento speciale a Daniela Maccari della Lindsay Kemp Company

Photo courtesy of Daniela Maccari/Lindsay Kemp Company