Pantelleria e le due Lune

 

” Quando Neil Armstrong sbarcò sulla superficie lunare, undici anni orsono, l’annunciatore televisivo esclamò emozionato: “Per la prima volta nella storia, l’uomo ha messo il piede sulla Luna.” Un bambino che si trovava con noi, e che aveva seguito con ansia i dettagli dello sbarco, gridò sorpreso: “Ma è la prima volta? Che stupidaggine!” Il suo disincanto era comprensibile. Per un bambino del suo tempo, abituato a vagare ogni sera nello spazio siderale della televisione, la notizia del primo uomo sulla Luna era come un ritorno all’ età della pietra. Anch’io rimasi con una sensazione di sconforto, ma per motivi più semplici. Stavamo passando l’estate nell’isola di Pantelleria, all’estremo sud della Sicilia, e non credo che esista al mondo un luogo più consono per pensare alla Luna. Ricordo come in un sogno le pianure interminabili di roccia vulcanica, il mare immobile, la casa dipinta a calce fin negli scalini, dalle cui finestre si vedevano nelle notti senza vento i fasci luminosi dei fari dell’ Africa. Esplorando i fondali addormentati intorno all’isola, avevamo scoperto una fila di siluri gialli lì incagliati dall’ ultima guerra; avevamo recuperato un’anfora con ghirlande pietrificate che dentro aveva ancora i residui di un vino immemore corroso dagli anni, e avevamo fatto il bagno in una gora fumante le cui acque erano così dense che si poteva quasi camminarvi sopra. Io pensavo con una certa nostalgia premonitrice che così doveva essere la Luna. Ma lo sbarco di Armstrong aumentò il mio orgoglio patriottico: Pantelleria era meglio. Per noi che perdiamo tempo pensando a queste cose, ci sono a partire da allora due Lune. La Luna astronomica, con la maiuscola, il cui valore scientifico dev’essere grandissimo, ma che manca completamente di valore poetico. L’altra è la Luna di sempre che vediamo sospesa nel cielo; la Luna unica dei licantropi e dei boleros, e che – per fortuna – nessuno raggiungerà mai. “

Gabriel Garcìa Màrquez, da ” Taccuino di cinque anni” (Mondadori)

 

 

“Otto e mezzo”, “Il Gattopardo” e la completezza del mondo

 

“Vivere la vita come un blocco unico e coerente, vivere la vita come esplosa in tanti frammenti. E’ la storia della volpe e del riccio di un frammento di Archiloco, e su cui Isaiah Berlin ha costruito un saggio. “La volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande”. Berlin ne fa uno spartiacque degli scrittori, dei pensatori, e dell’ umanità in generale. Gli esseri umani si dividono in volpi e ricci. Ricci sono quelli che si rifanno a un unico principio ispiratore, sulla base di una visione morale del mondo. Volpi sono quelli che si appassionano a modelli diversi e contraddittori, senza un faro etico. Per esempio, ricci secondo Berlin sono Platone, Lucrezio, Pascal, Hegel, Dostoevskij e Proust. E volpi: Erodoto, Aristotele, Montaigne, Erasmo, Molière, Goethe, Puskin, Balzac e Joyce. Otto e mezzo racconta che Guido è volpe. Il Gattopardo racconta che don Fabrizio è riccio. Tutti e due concludono il film accettando la propria essenza. E forse, Fellini, Mastroianni sono volpi; Visconti, Lancaster sono ricci. Non so, potrebbe essere così. Ma di sicuro, questi due film contemporanei rappresentano i due aspetti dell’ umanità, secondo questo principio. Insieme, riempiono tutti i tasselli possibili. Guido chiede a Claudia se potrebbe essere fedele a una sola cosa. Proprio alla Cardinale, che ha già tradito questa fedeltà andando da un set all’ altro, facendo avanti e indietro dalla volpe al riccio. Mettendo insieme i due film, confrontandoli, marcando le tante differenze e qualche somiglianza, si ha il bianco e nero e il colore, la sceneggiatura originale e non originale, il finto e il vero, il chiasso e il silenzio, l’ improvvisazione e la precisione; si tengono insieme il riccio e la volpe, e quindi si copre l’ intero scibile creativo e intellettuale. E si mettono insieme l’accettazione della vita e l’accettazione della morte. Così Otto e mezzo e Il Gattopardo, insieme, restituiscono la completezza del mondo. “

Francesco Piccolo, da “La bella confusione” (Giulio Einaudi Editore)

 

(Nella foto: Claudia Cardinale in “Otto e mezzo”, Public Domain via Wikimedia Commons)

 

La notte di San Giovanni

 

“Cadeva la notte di San Giovanni. Olì uscì dalla cantoniera biancheggiante sull’orlo dello stradale che da Nuoro conduce a Mamojada, e s’avviò pei campi. Era una ragazza quindicenne, alta e bella, con due grandi occhi felini, glauchi e un po’ obliqui, e la bocca voluttuosa il cui labbro inferiore, spaccato nel mezzo, pareva composto da due ciliegie. Dalla cuffietta rossa, legata sotto il mento sporgente, uscivano due bende di lucidi capelli neri attortigliati intorno alle orecchie: questa acconciatura ed il costume pittoresco, dalla sottana rossa e il corsettino di broccato che sosteneva il seno con due punte ricurve, davano alla fanciulla una grazia orientale. Fra le dita cerchiate di anellini di metallo, Olì recava strisce di scarlatto e nastri coi quali voleva segnare i fiori di San Giovanni, cioè i cespugli di verbasco, di timo e d’asfodelo da cogliere l’indomani all’alba per farne medicinali ed amuleti. D’altronde Olì pensava che anche non segnando i cespugli che voleva cogliere, nessuno glieli avrebbe toccati: i campi intorno alla cantoniera dove ella viveva col padre ed i fratellini, erano completamente deserti. Solo in lontananza una casa campestre in rovina emergeva da un campo di grano, come uno scoglio in un lago verde. Nella campagna intorno moriva la selvaggia primavera sarda: si sfogliavano i fiori dell’asfodelo e i grappoli d’oro della ginestra; le rose impallidivano nelle macchie, l’erba ingialliva, un caldo odore di fieno profumava l’aria grave. La via lattea e l’ultimo splendore dell’ orizzonte, fasciato da una striscia verdastra e rosea che pareva il mare lontano, rendevano la notte chiara come un crepuscolo. Vicino al fiume, la cui acqua scarsissima rifletteva le stelle e il cielo violaceo, Olì trovò due dei suoi fratellini che cercavano grilli. (…) Olì andò oltre: oltre l’alveo del fiume, oltre il sentiero, oltre le macchie di olivastro: qua e là si curvava e legava con un nastro le cime di qualche cespuglio, poi si rizzava e scrutava la notte con lo sguardo acuto dei suoi occhi felini. “

Grazia Deledda, da “Cenere”

 

 

I viaggi, i luoghi e le emozioni

 

” Non è dimostrabile, però io ci credo: nel mondo ci sono luoghi in cui l’arrivarci o il ripartire viene misteriosamente amplificato dalle emozioni di quanti in passato da lì sono partiti o lì sono giunti. Chiunque abbia un’anima abbastanza leggera avverte una lieve resistenza nell’aria attorno allo Schreierstoren di Amsterdam – la Torre del pianto – che promana dal cumulo di dolore di coloro che lì si dissero addio, un dolore che oggi non conosciamo più. Ormai i viaggi non durano anni, sappiamo esattamente dove siamo diretti, e le probabilità di fare ritorno sono molto più alte. Sotto il portico d’ingresso della cattedrale di Santiago de Compostela si erge una colonna di marmo che reca l’impronta di profondi solchi; una sorta di “zampata” espressionistica di grande impatto emotivo prodotta da milioni di mani, tra cui la mia. Ma se dico “tra cui la mia” è già una forzatura, perchè io non ho certo mai afferrato quella colonna con tanta emozione dopo un viaggio a piedi durato più di un anno. Non ero un uomo del Medioevo, non ero un credente, e ci arrivavo in automobile. Ma anche a prescindere dalla mia mano, anche se non ci fossi mai stato, il solco resta, scavato nel duro marmo dalle dita di tutti quei morti. Eppure anch’io, appoggiando la mia mano su quel negativo di mano, sono entrato misteriosamente a far parte  di un’opera d’arte collettiva. Il pensiero diventa visibile nella materia: questo è sempre prodigioso. La forza di un’idea spinse re, contadini e monaci ad appoggiare la mano proprio in quel punto della colonna, e ogni singola mano ha consumato una parte infinitesima del marmo durissimo, e in questo modo, proprio nell’assenza del marmo, risultò visibile una mano. Penso a queste cose un giorno di luglio; è mattina presto e sto per imbarcarmi per Barcellona. Lì noleggerò un’automobile e per vie traverse, o forse addirittura dopo avere percorso tutta la Spagna, per la terza volta nella mia vita andrò a Santiago de Compostela. Non in pellegrinaggio, come gli altri, ma sulle orme di un io remoto che ormai è quasi un fantasma, riallacciandomi a un viaggio del passato. In cerca di che cosa? Una delle poche costanti della mia vita è l’amore – perchè sarebbe riduttivo definirlo diversamente – per la Spagna. “

Cees Nooteboom, da “Verso Santiago. Disgressioni sulle strade di Spagna”

 

 

Vedesti il mare

 

“Opposto alla terra è il mare. Non permette sguardi dall’ alto, è orizzontale, pari. Ferma i passi e però è pure strada spianata. Lo vedesti calmo, senza una sponda in vista, fino a dove l’aria si confondeva con l’acqua. Ti venne voglia di salirci sopra. Eri arrivata al tuo punto di partenza. Rimanesti a fissarlo, una lastra lucente sotto il sole. Avevi la spinta a staccarti da tutto. Non ti aspettavi pace. In pochi giorni ti erano stati addosso tuo padre, dei gendarmi, dei banditi. Vedesti il mare, fine delle corse. Coi soldi dei capelli comprasti la tela cerata per lavorare a bordo, oltre al primo libro, l’alfabeto italiano. Dalla prima notte che dormimmo in barca non hai più dormito in terraferma. I tuoi figli sono stati concepiti a bordo di una chiatta. Scrivevi che era un ormeggio che si poteva sciogliere. Mi scrivesti, con la mano incerta delle prime lettere, del brevetto di subacqueo che avevi preso per lavorare alla pesca del corallo. Per mezz’ora di raccolta ci volevano ore di decompressione con le bombole. Lui restava a bordo. Scendevi con la lampada nell’ oscurità dei fondali lungo i fianchi di un vulcano sommerso. Ti sentivi al sicuro sul fondo del mare. I tuoi pericoli erano in terraferma. Shangai: il suo nome in cinese vuol dire stare al di sopra del mare. Avrei dovuto dirtelo. Sento di avvicinarmi a un punto simile a quello che è stato per te il mare. “

Erri De Luca, da “Le regole dello Shanghai”

 

 

Bournville e il cioccolato nell’ aria

 

” L’aria non profumava di cioccolato, ma il cioccolato era nell’aria. Nessuno sentiva il bisogno di dare un nome alla fabbrica che sorgeva nel cuore del villaggio. Tutti la chiamavano semplicemente lo “Stabilimento”. E dentro quella fabbrica si produceva il cioccolato. Lo si produceva da più di sessant’anni. Da quando John Cadbury aveva aperto il suo primo negozio nel centro di Birmingham,nel 1824, vendendo semi di cacao macinati per la cioccolata calda. Quacchero devoto, come i suoi fratelli, considerava la bevanda non solo come una componente nutrizionale della prima colazione, ma anche come un sostituto sano dell’alcol nelle ore più tarde della giornata. L’attività era cresciuta costantemente, la forza lavoro si era ampliata, erano stati acquistati locali più grandi finchè, nel 1879, i figli avevano deciso di spostare la produzione fuori Birmingham. All’epoca l’area prescelta consisteva essenzialmente di grandi prati digradanti. La loro idea era quella di una coesistenza armonica tra industria e natura, legate da un rapporto quasi simbiotico di reciproca dipendenza. (…) Al centro erano situati i giardini pubblici e vicino c’era la scuola media con la torre dell’orologio che ospitava il famoso carillon. Attorno alla scuola c’erano Woodbrooke Road, Thorn Road e Linden Road, strade che anche in seguito, nonostante il traffico, mantennero sempre un senso di calma, un ricordo pastorale di ombra e di fronde, incorporato nei loro stessi nomi. Come chiamare questo luogo speciale? (…) Il piccolo corso d’acqua che serpeggiava fin nel suo centro si chiamava Bourn e molti si aspettavano che Bournbrook sarebbe stato il nome prescelto. Ma il villaggio era fondato su un’impresa, e l’impresa era quella di vendere cioccolato, e persino nel cuore dei Cadbury, pionieri della produzione britannica di questo alimento, si annidava ancora la sensazione che il loro prodotto fosse inferiore ai suoi rivali continentali. Perché, inutile negarlo, il miglior cioccolato aveva in sé qualcosa di intrinsecamente europeo. I chicchi erano sempre arrivati dagli angoli più remoti dell’Impero – non c’era nulla di non britannico in questo – , ma i procedimenti per trasformarli in cioccolato commestibile erano stati inventati da un olandese ed era una verità universalmente riconosciuta, anche se non sempre apertamente dichiarata, che erano stati i francesi, i belgi e gli svizzeri a portare la produzione del cioccolato a un livello vicino alla perfezione. Se il cioccolato Cadbury avesse mai dovuto competere con loro, avrebbe dovuto essere etichettato in modo da incarnare almeno una una sfumatura di raffinatezza europea, di sofisticazione continentale. Decisero quindi che Bournbrook non avrebbe funzionato e, come variante, scelsero Bournville. Il nome di un villaggio non solo fondato sul cioccolato e a esso dedicato, ma l’espressione di un sogno che il cioccolato aveva reso possibile. “

Jonathan Coe, da “Bournville”

 

 

Elisabetta I Tudor, l’incoronazione

 

“I preparativi per l’antico e complesso rito dell’incoronazione assorbivano gran parte del tempo di Elisabetta. Occorreva trovare un ecclesiastico disposto a officiare e, con il cardinale Pole defunto (era sopravvissuto a Maria solo per poche ore) e Heath, l’arcivescovo di York, diffidente nei riguardi dell’ intimo credo della nuova regina, la ricerca non si prospettava facile. Alla fine la scelta cadde su un oscuro suffraganeo di Heath, Owen Oglethorpe di Carlisle. Poi vi furono da appianare le controversie relative alla cerimonia, con i nobili che gareggiavano per ottenere la posizione di maggiore spicco durante le celebrazioni, i paramenti e gli arredi da ordinare, ecc. Nel giro di una notte, fu allestita una vera e propria impresa per fornire gli abiti, gli ornamenti e gli orpelli per la più sfarzosa delle occasioni regali: sarti e cucitrici per impuntire le vesti preziose e ricamatori, merciai e piumai per decorarle, pellai per reperire le pellicce e commercianti di tessuti per i ricchi velluti e le sete. I tappezzieri furono incaricati di rivestire la nuova portantina della sovrana con una stoffa intessuta d’oro e il seggio dell’ incoronazione nell’abbazia con un drappo argentato. Sellai e ferraioli prepararono sontuosi finimenti per i cavalli, mentre i coltellinai si occuparono delle spade cerimoniali e delle altre armi tradizionalmente indossate nel giorno dell’incoronazione. Il sarto della regina supervisionò l’ abbigliamento dell’ intera corte, non solo degli ufficiali e delle dame della sovrana, ma anche delle diverse centinaia di araldi, tirapiedi, musicisti e guardie che avrebbero seguito Elisabetta in processione. Nessuno fu dimenticato, nemmeno i fornitori di cibarie per le cucine del palazzo nè le lavandaie della regina, che ebbero una nuova veste rossa, e neppure i buffoni di corte, che avrebbero indossato sgargianti abiti in velluto arancione con inserti viola. “

 

Carolly Erickson, da “Elisabetta I – La vergine regina”

 

Foto: “Elizabeth I of England (1533-1603) in Coronation Robes”, dipinto di autore anonimo risalente al 1600 circa.

 

Nel tramonto

 

” Camminavo in una primavera mediterranea. Sola. Ancora oceani di pensieri inquieti acceleravano ritmi cardiaci sincopati e ansiosi. Nel confuso di un tramonto marino. Il porto a pochi passi. Liberi i gabbiani in volo. La mia ombra addosso rimproverava sicurezze più che ventenni. Mi vorrei forte e coraggiosa. Pensavo. Integra stella lucente e intanto lame metalliche mi stringevano stronze i fianchi saziandosi, rubando il dolce rimasto sulla mia pelle. Frenetica inquietudine bisognosa di felice quiete. Cosi poetico e triste insieme. Sentirmi romantica nel tramonto. Come sempre musica di violini elettrificati registrati in nebbiose pianure padane ad azzerare il sonoro naturale delle onde nervose. “

 

                                               Isabella Santacroce, da “Destroy”

 

 

Il prato e il paradiso

 

“Sofia domandò com’ era il paradiso e la nonna rispose che forse assomigliava a quel prato là; stavano passando davanti a un pascolo a fianco del sentiero e si fermarono a guardare. Faceva molto caldo, la strada maestra era bianca e screpolata e tutte le pianticelle che crescevano lungo il ciglio del fossato avevano le foglie impolverate. Entrarono nel pascolo e sedettero sull’ erba che era alta e per nulla polverosa, e cosparsa di campanule e antennarie e ranuncoli. “Ci sono formiche in paradiso?” domandò Sofia. “No”, disse la nonna, e si distese con cautela sulla schiena, si tirò il cappello sul naso e cercò di dormire di nascosto. Lontano lontano si sentiva una macchina agricola, instancabile e pacifica. Escludendo il rumore della macchina, il che non era difficile, e ascoltando solamente gli insetti, questi diventavano migliaia di milioni e riempivano il mondo intero di ritmiche ondate d’estasi, e di un senso di estate. Sofia raccolse dei fiori e li tenne in mano fin quando divennero caldi e sgradevoli; allora li depose sulla nonna e domandò come facesse Dio ad ascoltare tutti quelli che pregano contemporaneamente. “E’ saggio, tanto saggio”, mormorò la nonna assonnata sotto il cappello. “Rispondi bene”, disse Sofia. “Com’è che ci riesce?” “Ha dei segretari…” “Ma come fa a esaudire le preghiere se non fa in tempo a parlare con i segretari prima che vada a finir male?” La nonna fece finta di dormire ma sapeva bene che non ingannava nessuno e alla fine disse che Dio predispone in modo che non possa succedere nulla di male fra l’attimo in cui si prega e l’attimo in cui viene informato sul contenuto della preghiera; allora la nipotina le domandò che cosa succede quando uno prega mentre sta cadendo da un albero e si trova ancora a mezz’aria. “Aha”, fece la nonna, e parve rianimarsi. “Allora fa in modo che si impigli in un ramo”. “Buona idea”, concedette Sofia. “Adesso tocca a te farmi delle domande. Ma devono essere sul paradiso.”

Tove Jansson, da “Il libro dell’estate”

 

 

Fellini e “La strada”

 

” In quel nostro primo incontro sulla terrazza del Lido, a un certo punto Fellini s’inoltrò nel racconto di La strada. Fu un momento sospeso tra la magia e l’ imbarazzo. L’idea che stesse progettando un film-favola, sia pure d’ispirazione neorealista, mi preoccupò per lui. Tanto che mi proposi, alla prima occasione, di sconsigliarlo vivamente, cosa che poi ebbi l’ opportunità di fare. Nello stesso tempo, però, mi rendevo conto che il narratore ci andava schiudendo dei panorami tali da consentire prospettive nuove su realtà antichissime: l’ Italia povera, i campi fangosi e freddi attraversati dai sottoproletari dello spettacolo, il rapporto brutale e primitivo fra l’uomo e la donna, ovvero il mondo contadino sopravvissuto ai margini delle vie consolari, i linguaggi perduti, i riti magici, i ricordi infantili e ancestrali. Senza rendersene conto, con perfetta naturalezza, quel cineasta di tipo nuovo si preparava a buttar giù i muri della cultura piccolo borghese dentro i quali la crescita dell’ Italia unita, in una regione come la sua Romagna fortemente segnata dal potere temporale, aveva cancellato i segni delle culture precedenti. Apprezzato o tollerato al tempo dei primi film come bozzettista crepuscolare, Fellini finì infatti per suscitare un’alzata di scudi con la triste odissea di Gelsomina, considerata elusiva e criptocattolica. Per anni nei caffè di via Veneto, nei saggi e nei dibattiti si andò proclamando che Fellini, con la sua formazione spavaldamente antintellettuale, era “fuori della cultura”. Solo dopo la svolta degli anni sessanta la sinistra pensante restituì legittimità alla forma della favola, riconoscendone il carattere mitografico, simbolico e perfino eversivo. E dovettero scomparire Stalin, Benedetto Croce e Pio XII perchè gli orizzonti si allargassero; sicchè quando i sapienti si avventurarono nel territorio inesplorato delle scienze dell’ uomo, fu per molti una sorpresa constatare che il regista di La strada era già là.”

Tullio Kezich, da “Federico. Fellini, la vita e i film”

 

Nella foto: una scena tratta dal film “La strada” con Zampanò (Anthony Quinn) e Gelsomina (Giulietta Masina). Immagine di Bucherwiliam, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons