Tendenze PE 2021 – Hippie Crochet

Bleuchose

Da quando è arrivata l’ estate, gli argomenti di VALIUM si snodano lungo un fil rouge inesauribile. Ricordate l’articolo Freedom? Il mood che intercettava era azzeccatissimo, il desiderio di libertà post-pandemia ha riportato in auge moltissimi stilemi Hippie e degli Swinging Sixties: il tie dye, le frange, le perline, le stampe, ma soprattutto la lavorazione crochet. In particolare i cosiddetti “Granny Square” che spopolavano nei ’60, quei patchwork di quadretti all’ uncinetto composti da variopinti pattern floreali. I Granny Square, e il crochet in generale, proliferano sia nei capi che negli accessori delle collezioni PE 2021: li ritroviamo sugli abiti, sui gilet, sulle bralettes, sulle borse e sui cappelli, sulle fasce per capelli, sulle cinture…ma non solo. Le loro declinazioni sono infinite, tutte (o quasi) all’ insegna del colore e di un’ artigianalità che i ripetuti lockdown ci hanno incentivato a riscoprire.

 

Bleuchose

Zara

Sea Spring

Marco Rambaldi

Bottega Veneta

Zara

Salvatore Ferragamo

Marco Rambaldi

Valentino

Ranya Handmade

Stradivarius

Dior

Zimmermann

Alberta Ferretti

Marco Rambaldi

Oscar de la Renta

 

 

 

Tendenze PE 2021- Il ritorno della minigonna: quando praticità fa rima con stile

Versace

Torna la minigonna: la moda dell’ estate 2021 scopre le gambe, emancipandole dalle lunghezze dei maxidress (che rimangono, comunque, sempre al top delle tendenze). Il sole, le recenti riaperture e il caldo imminente accrescono il desiderio di uscire, di tornare a girare, a muoversi. C’è voglia di praticità, di libertà persino nel modo di vestirsi: indossare una minigonna e via, a lanciarsi nel brulichio della vita. La mini è seduttiva, certo, ma soprattutto rievoca tutto un mood. Quello frizzante della Swinging London di Mary Quant, negli anni ’60, dove si sfoggiava per rompere gli schemi ed affermare i nuovi valori giovanili. Non ultimo per la sua comodità, che ancora oggi si coniuga rigorosamente con lo stile. Le collezioni della Primavera Estate 2021, infatti, propongono versioni sfiziose e ricche di questa gonna dagli orli micro: date un’ occhiata alla gallery ed ammiratene alcune.

 

Dolce & Gabbana

Miu Miu

Alberta Ferretti

Philosophy di Lorenzo Serafini

Blumarine

Dior

Chloé

Elisabetta Franchi

David Koma

 

 

 

Giambattista Valli Haute Couture PE 2021, volumi maestosi e sontuosità regale

 

Che cos’è l’ Haute Couture per Giambattista Valli? In primis, volume e maestose dimensioni. Come ha detto a Vogue.com: “L’ alta moda riguarda i volumi. Quando disegni prêt-à-porter, devi essere un designer. Quando crei Haute Couture, devi essere uno scultore. E’ la differenza che sussiste tra il costruire uno spazio e l’ arredarlo. ” Riporto questa citazione perchè mi sembra un’ affermazione chiave. A fare da fil rouge alla collezione di Haute Couture Primavera Estate 2021 di Giambattista Valli, infatti, è una sontuosità regale. I suoi celebri abiti di tulle ornati da un tripudio di balze e ruches vengono elevati a un ulteriore livello di opulenza, abbracciando una preziosità scultorea. I volumi (soprattutto delle gonne) si amplificano, gli strascichi regnano sovrani, le ruches si infittiscono e moltiplicano, sui capi in taffetà sembrano scolpite. Non è un caso che il mini film di presentazione della collezione sia ambientato a Siviglia, e che le immagini dei suoi monumenti, dei suoi patios spettacolari, si affianchino costantemente ai look sfoggiati dalle modelle. E’ un dialogo tra un’ architettura fastosa e delle altrettanto fastose creazioni, dove i colori che prevalgono rimandano a quelli del “traje de Flamenca” andaluso: rosso, nero e bianco, anche se non mancano il giallo, il pesca e il caratteristico rosa tenue delle nuvole di tulle griffate Valli. Gli abiti sono splendidamente teatrali, ma eterogenei. Risaltano modelli con gonna ampissima, ricca di balze impalpabili o miriadi di ruches, mise dotate di lunghe maniche piumate che rievocano la grazia di un cigno, corpetti rossi plasmati su grandi rose in tulle, gilet impreziositi da sofisticatissime applicazioni floreali, tuniche greche con tanto di strascico, soprabiti che ostentano cascate di volants eterei come zucchero filato. A predominare è una femminilità enfatizzata e potente, valorizzata dalle acconciature ideate da Odile Gilbert: le chiome, voluminose al pari degli abiti, diventano “importanti” grazie a un utilizzo massiccio dei toupet e si adornano di vistosi fiocchi e fiori. Riaffiorano alla mente gli hair look anni ’60 di top del calibro di Marisa Berenson, Isa Stoppi, Benedetta Barzini…reminiscenze che il make up firmato da Karin Westerlund, un trionfo di eyeliner per esaltare lo sguardo, rifinisce a regola d’arte.

 

 

Visita il sito di Giambattista Valli per ammirare la collezione completa

 

 

Bianco come la neve

Volant Flower A-Line

E’ il bianco puro, assoluto, il bianco del ghiaccio e della neve il protagonista principale della collezione Mariage Autunno Inverno 2020/21 di Viktor & Rolf. Un bianco smagliante e netto, che non lascia spazio a contaminazioni cromatiche: nascono così abiti da sposa sontuosi e teatrali ma “grafici”, mai barocchi, come se quel bianco trasmettesse loro l’ essenzialità del suo candore. Eppure, gli ornamenti preziosi e una sartorialità squisita fanno da leitmotiv all’ intera linea. Cascate di fiori in organza, miriadi di ruches e di volants, finissime lavorazioni in pizzo, ricami argentati e gioielli applicati sui corpetti si alternano a uno scultoreo taffetà e a fiocchi “grafici” che adornano sofisticatamente gli abiti. Il tulle fa la sua apparizione forgiando lunghe e voluminose gonne a corolla, i bustini esibiscono scollature a cuore o con un taglio orizzontale. Le gonne sono ampie come quelle dei vestiti da ballo di altri tempi, ma non mancano le linee ad A e le svasature fluttuanti. A proposito di linee ad A: colpisce un abitino a trapezio, senza maniche e con il collo alto, orlato di sfiziosi volants plissettati. E’ una creazione che mixa suggestioni anni ’60 e anni ’20, distanziandosi dal classico wedding dress ed esaltando un mood unconventional che rievoca il profondo fermento delle due epoche a cui si ispira. Neppure questo look, tuttavia, è privo della preziosità che pervade la collezione Mariage: un decoro di perle in varie dimensioni gli conferisce una allure sublimemente regale. (clicca nel sito di Viktor & Rolf per ammirare la collezione completa )

 

Blooming Lace Tiered Gown

Volant Flower High-Low

Plissé Chiffon Dream

Volant Flower Mermaid

Taffeta Volant Dream

Royal Jewel Shift Dress

Draped Bow A-Line

Marguerite Sparkle Tea Length

Graphic Draped Gown

Royal Bow Taffeta Gown

Marguerite Sparkle Sweetheart

Floral Off-Shoulder Gown

Graphic Sash Ballgown

 

 

 

I 50 anni di Woodstock tra musica, Hippie culture e stile

Janis Joplin nel backstage del Festival

Rimane il più immenso, il più memorabile, quasi l’ “archetipo” dei Rock Festival: Woodstock compie 50 anni e, non a caso, è in atto un vero e proprio tripudio celebrativo. Perchè oltre ad essere un Festival musicale, Woodstock è stato un emblema. E un emblema a tutto tondo: dell’ epoca Hippie, di una società scossa da cambiamenti irreversibili, di un nuovo modo di intendere e “vivere” il Rock, come esperienza da condividere ma soprattutto come veicolo del motto “Love and Peace” di cui la generazione Hippie si faceva portabandiera. Erano il 15, il 16 e il 17 Agosto (si aggiunse poi il 18 estemporaneamente) del 1969, un anno che segnò l’apice della controcultura giovanile dei cosiddetti “Figli dei Fiori”, da “Flower Power” che incarnava un altro dei loro significativi slogan . Quando una società di giovani e intraprendenti imprenditori, la Woodstock Ventures, organizzò la Woodstock Music & Art Fair – questo il suo nome completo – la concepì come un raduno musicale all’insegna della pacifica convivialità e così fu. L’ allevatore Max Yasgur (sua la “Yasgur’s farm” citata da Joni Mitchell in “Woodstock”, il brano che dedicò alla kermesse) mise a disposizione del Festival 600 acri di terra a cui si aggiunsero ulteriori spazi concessi dai coltivatori confinanti: la location dell’ evento era costituita da una conca che discendeva verso lo stagno Filippini, dove, in cerca di refrigerio, innumerevoli spettatori si bagnavano spesso e volentieri completamente nudi. Invece dei 50.000 partecipanti previsti ne arrivarono 500.000, tutti allettati dalla possibilità di vivere collettivamente, come voleva l’ input dell’ era delle “comuni”, un’ avventura che sarebbe diventata leggendaria. Ad esibirsi in quell’ affollatissima quattro giorni furono autentiche icone della music scene, nomi del calibro di Richie Havens (che cantò “Freedom” rendendola un vero e proprio inno), Santana, Janis Joplin, Sly & The Family Stone, Joe Cocker, The Ten Years After, Crosby Still & Nash, Joan Baez, The Who, The Jefferson Airplane e Jimi Hendrix, oltre a moltissimi altri artisti ancora. Fu proprio Jimi Hendrix a concludere il Festival con una performance mozzafiato che incluse una versione di “The Star-Spangled Banner” talmente incandescente da restare negli annali del Rock. Sono passati 50 anni da allora, ma gli echi dell’ incredibile raduno che prometteva “tre giorni di pace e musica” sono ben lungi dallo spegnersi. Che fossero un’ utopia o meno, i valori degli Hippie hanno racchiuso lo spirito e la quintessenza di una generazione fortemente decisa a far sentire la sua voce, senza violenza (lo stesso Max Yasgur si stupì di come, durante il Festival, non si verificò neppure una rissa) e coinvolgendo in toto il proprio stile di vita. Peccato che i delitti losangelini della Manson Family (occorsi a soli pochi giorni dall’ inizio di Woodstock) rappresentassero le prime, pericolose avvisaglie di un mutamento di “clima”; mutamento che, alla fine del 1969, si fece tangibile con i tristi fatti avvenuti al free concert di Altamont tenuto dagli Stones. Si stavano spegnendo gli ideali di tutta un’ epoca: quando il decennio dei ’60 giunse al termine, i colori psichedelici e vivaci del Flower Power sfumarono progressivamente in un nero cupo.

 

Il manifesto della kermesse

 

GLI ACCENTI HIPPIE NELLE COLLEZIONI DELLA PRIMAVERA ESTATE 2019

 

R 13

Il look Hippie, nelle più disparate declinazioni, non ha mai cessato di ispirare la moda:  Ethno Style, Hippie Chic e Boho sono solo alcune delle sue varianti attuali. Il perchè di questo perenne appeal è presto detto. Innanzitutto l’ elemento di rottura, che definiva il distacco dalle generazioni precedenti anche attraverso l’ abito. E poi l’ innato senso di libertà, il gusto del colore, la fascinazione per l’esotico…La dimensione del viaggio, preferibilmente verso mete incontaminate e culle di una civiltà, di un misticismo remotissimi, nei giovani Hippie era connaturata. Basti pensare al celebre Hippie Trail, che dall’ Europa conduceva in Oriente percorrendo Paesi come la Turchia, l’ India e il Nepal: autostop o bus presi a noleggio erano i metodi preferiti per spostarsi, bandita ogni pianificazione. E’ così che gli esotismi tanto vagheggiati rientrano a pieno titolo nell’ Hippie look. Ce lo dimostrano frange, motivi tribali, caftani e Paisley pattern a profusione ma soprattutto il Tie Dye, antica tecnica di tingere i tessuti che incarna, oggi, un vero trend di stagione. Nella gallery che segue, alcuni indizi dello stile “Woodstock” – o Flower Power, se preferite – avvistati alle sfilate delle collezioni Primavera Estate 2019 dei più noti fashion brand.

 

PACO RABANNE

JONATHAN SIMKHAI

VALENTINO

VERSACE

PROENZA SCHOULER

DIOR

COLLINA STRADA

MSGM

 

 

Photo:

Janis Joplin via Kim from Flickr, CC BY-ND 2.0

Woodstock manifesto via David from Flickr, CC BY 2.0

Woodstock Festival 1 (dall’ alto verso il basso) by James M Shelley [CC BY-SA 4.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)]

Woodstock Festival 2 by James M Shelley [CC BY-SA 4.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)]

 

 

Lunar Trip

ISABEL MARANT

Argento spaziale per ricordare lo sbarco dell’ uomo sulla luna, glitter e tessuti metallici per celebrare il 50esimo anniversario della data in cui un sogno vagheggiato sin dalla notte dei tempi si fece realtà. Era il 20 Luglio 1969 quando, grazie alla missione Apollo 11, Neil Armstrong e Buzz Aldrin misero piede sul suolo lunare: un mondo avveniristico e completamente inesplorato si svelava ai loro occhi. Mito, leggenda e suprema icona, emblema associato al femminile per eccellenza, la luna ha sempre rappresentato, nei secoli, la presenza luminosa e magica che veglia sulla notte dell’ uomo. Alla fine degli anni ’60 numerosi designer, in tributo all’ allunaggio, la citarono in collezioni all’ insegna dello stile “Space Age”: pionieri furono André Courrèges, Pierre Cardin e Paco Rabanne,che creò anche i costumi di scena per il film “Barbarella” con Jane Fonda. Oggi, bagliori argentei e un mood tra il seduttivo e il galattico rievocano i memorabili istanti in cui la luna accolse la prima presenza umana.

 

 

JULIEN MACDONALD

 

TALBOT RUNHOF

 

CELINE

 

ALBERTO ZAMBELLI

 

TADASHI SHOJI

 

KAIMIN

 

 

 

Paris Fashion Week: 10 flash dalle collezioni AI 2019/20

ALEXANDER MCQUEEN Sarah Burton ci porta a Macclesfield, nel nord dell’ Inghilterra, dove è nata e cresciuta. Ispirandosi ai mulini in cui è si concentra la produzione tessile, alle tradizioni, ai festival, alle brumose lande locali, manda in scena una collezione contraddistinta da una straordinaria ricercatezza sartoriale: risaltano stupefacenti “English rose” plasmate su un voluminoso, scultoreo tripudio di taffetà tinto di fucsia, rosso e nero.

Ultimo appuntamento con il focus che VALIUM dedica alle Fashion Week delle collezioni Autunno/Inverno 2019/20. Il finale, in grande stile, è ambientato nella Ville Lumière: dal 25 Febbraio al 5 Marzo scorso, la settimana della moda parigina è stata un susseguirsi di creazioni, trend e motivi ispiratori di sorprendente suggestività. I riflettori si accendono sulle maxi spalline che rievocano gli anni ’80, ma esibiscono forme “scolpite” del tutto contemporanee; intriganti reminiscenze coinvolgono anche le decadi dei ’70 e dei ’50, di cui viene rielaborato il coté ribelle così come quello di matrice glam-chic. E se un tripudio floreale si affianca ad accenti “amorosi” e romantici, non mancano input prettamente attuali quali il mondo digital o i conflitti planetari: la moda, avvalendosi di una sartorialità squisita, fa uno statement ed espone il suo punto di vista su questi temi.

 

DIOR Lo chic si coniuga con la ribellione, la classe con la sovversività: Maria Grazia Chiuri guarda alla foto in cui la Principessa Margaret, per il suo ventunesimo compleanno, fu immortalata in un meraviglioso evening dress di Christian Dior da Cecil Beaton. Si rifà quindi ai Fifties delle Teddy Girl, rivoluzionarie figure femminili, reinterpretando pezzi iconici dell’ heritage della Maison come il tailleur Bar, il blouson nero in pelle, l’ abito Miss Dior, alla luce di una controcultura che all’ epoca dilagò letteralmente.

 

SAINT LAURENT – Focus sulle spalle, squadrate e super importanti. E poi, un omaggio agli anni ’70 tanto amati da Monsieur Yves: a prevalere sono giacche da smoking in varie declinazioni indossate con i soli collant, ma anche minidress monospalla, short abbinati ad alte cinture e a cappelli a falda larga. Il tutto, aggiornato ad un mood potentemente contemporaneo. Il total black predomina, acceso dal luccichio delle perline, mentre il finale è un susseguirsi di look surreali che, tra stampe zebrate e piume, stupisce tingendosi di cromatismi fluo.

 

CHANEL – Lunghi cappotti di tweed, pantaloni ampi e morbidi, fedora che replica sofisticatamente il pattern degli outfit: è un’ eleganza molto bon chic quella pensata da Karl Lagerfeld – insieme a Virginie Viard- per il suo “gran finale” chez Chanel. Questa volta la Maison ci trasporta in uno scenario alpino,  tra le montagne innevate, con lo “Chalet Gardenia” sullo sfondo. Pied-de-poule e stampe check la fanno da padrone, alternandosi alle fantasie nordiche riprodotte sulle gonne e sugli abiti in lana che, strizzati in vita, si svasano a campana con estrema grazia.

 

BALMAIN – Una femminilità fatta di contrasti che convivono in libertà e senza etichettature: la donna pensata da Olivier Rousteing alterna coprispalle impreziositi da un tripudio di rose a borchie e spuntoni disseminati sui biker jacket, sugli stivaletti, sui minidress dalla linea scultorea, non lesinando audaci outfit in piume o lunghi abiti con trama a rete declinati nel mohair più soffice. Berretti in pelle con visiera donano grinta a look che spaziano dal denim al cuoio, dalla vernice al PVC trasparente, delineando una seduttività potentemente unconventional.

 

VALENTINO – Romanticismo e poesia, in senso sia figurato che letterale: Pierpaolo Piccioli – in collaborazione con Jun Takahashi di Undercover –  li profonde a man bassa in una collezione il cui leitmotiv, una stampa neoclassica raffigurante due amanti che si baciano, viene intervallato da motivi di farfalle e rose. Affascinato dal “Movimento per l’ Emancipazione della Poesia”, che è solito disseminare liriche sui muri di tutto il mondo, il designer si avvale dell’ apporto di giovani poeti quali Robert Montgomery, Greta Bellamacina, Mustafa The Poet e Yrsa Daley-Ward per riprodurre versi in ogni più recondito angolo degli abiti e degli accessori.

 

MAISON MARGIELA – Sulla linea delle tematiche sviluppate nella collezione Artisanal Primavera/Estate 2019, John Galliano porta avanti il concetto di “degenerazione” degli abiti e di “decadenza digitale”. Entrambi conducono a una purificazione estrema degli outfit, che vengono ridotti al nucleo attraverso sartoriali rielaborazioni della loro struttura portante. Leitmotiv sono le spalle enfatizzate, le maniche allungate, l’ essenzialità delle linee. Tra cuciture a vista, graffiti multicolor e inaspettati sbuffi di piume, il brand ridefinisce i crismi della sua nuova estetica senza tralasciare le ormai iconiche Mary Jane ultrapiatte, stavolta rigorosamente in total black.

 

CELINE – Hedi Slimane abbandona il glam-rock del suo esordio con Celine a favore del mood “bourgeois” insito nel DNA del brand. L’ ispirazione spazia a cavallo tra gli anni ’70 e gli ’80, ripristinando gonne-pantalone, jeans skinny, bluse con jabot, mantelle anche in pelliccia e una grande quantità di blazer. Torna il giaccone in shearling, il golfino scintilla d’oro in stile disco e i look sono completati da cuissardes oltre il ginocchio. Predominano colori sobri come il beige, il blu, il grigio, il nero, affiancati a pennellate di bordeaux. L’allure anni ’70 è accentuata dagli occhiali da sole “aviator” che all’epoca facevano furore.

 

GIVENCHY – “The Winter of Eden”, “l’ Inverno dell’ Eden”, è il titolo della collezione. E come in uno stato di grazia cristallizzato ed idilliaco al tempo stesso, Clare Waight Keller sposa armonicamente forme geometriche, ben scolpite,  con il fascino soave delle fantasie floreali e del plissé. Il focus è sulle spalle e sulle maniche, esaltate rispettivamente da maxi volumi arrotondati e grandi strutture a campana, ma risaltano anche le inedite puffer jacket che vanno a sovrapporsi a spolverini lineari. Ricordano un vero e proprio giardino dell’ Eden, invece, gli abiti “fioriti”, plissettati e con colletto a ruche: declinati in colori vivaci, ma non squillanti, rievocano la preziosità degli antichi vasi giapponesi.

 

COMME DES GARçONS – Il nero trionfa, in questa collezione ispirata al “buio” del mondo contemporaneo. Rei Kawawubo mette la sua proverbiale ricerca sulle forme, sui volumi e sui materiali al servizio di creazioni a dir poco spettacolari: “armature” in pelle e gomma, crinoline futuribili, vistosi cappucci, linee a palloncino quando non a vera e propria sfera si accompagnano a fitte ruche, intarsi in rete ed abiti che sembrano ridotti a brandelli a causa di un’ esplosione. Sono look che hanno un so che di apocalittico, rievocano le bombe e le macchine da guerra, ma più che al “militaresco” rimandano a una sorta di gotico avantgarde. A un “Raduno delle Ombre” (così Kawawubo battezza la sua collezione) che, riunendosi, riescono a esorcizzare ogni male.

 

 

 

 

 

 

Il focus

 

VALIUM loves pink: e chi mi segue lo sa bene. Ma quando il rosa si abbina a una stupefacente creazione di Haute Couture, è allora che prende vita il sogno. Lo dimostra questo look di Valentino, un’ autentica nuvola di piume rosa che Kaia Gerber ha indossato al défilé della collezione di alta moda Autunno/Inverno 2018/19. Un défilé ambientato nel “secret garden” dell’ Hotel parigino Salomon de Rothschild ed esaltato dal suo incanto, dalla sua magica atmosfera; non poteva esistere location migliore per le mise mozzafiato ideate da Pierpaolo Piccioli. Un unico leitmotiv ad ispirarle, il “tempo”. Il tempo inteso nella duplice accezione della Grecia antica, laddove il “Kairòs” si identifica con l’ immaginazione e il “Kronòs” con il suo divenire tangibile e concreta. Nel processo creativo, allo stesso modo, fantasia e ispirazione prendono forma attraverso la realizzazione. E’ la loro messa in atto nel reale a plasmarle, la traduzione delle idee in materia. Il dualismo mitico del tempo confluisce quindi in una dimensione intima, atemporale, che sancisce il predominio dei sogni e delle emozioni: lo spazio della creazione. Da questi presupposti scaturisce una collezione a dir poco sbalorditiva. Piccioli segue l’ istinto senza riserve, orientato a una bellezza che è espressione delle sue personali suggestioni oniriche. Ecco allora il lungo abito rosa confetto, vaporoso, completamente cosparso di piume. Scopre le spalle e si svasa nel fondo amplificando armonicamente il suo volume. Regale e ricco, l’ abito viene sdrammatizzato e movimentato, al tempo stesso, dall’ impalpabile leggerezza delle piume: il look è ammaliante, di straordinario impatto visivo. Sembra uscito da una fiaba o – a scelta – da uno scatto che immortala un party del jet set anni ’60 in tutto il suo glamour. Ad avvalorare quest’ opzione contribuisce anche lo scenografico hairstyle “firmato” da Guido Palau insieme a Josh Wood: in passerella, le modelle hanno sfilato con parrucche di lunghi capelli lisci, ma cotonatissimi alla radice. Un omaggio ai Sixties che il cat-eye iper grafico pensato dalla make-up artist Pat McGrath ha ulteriormente enfatizzato. Il risultato? Una mise che si addentra a nei meandri del sogno a trecentosessanta gradi.

 

Giulia Pivetta: la moda tra fenomenologia e cultura giovanile

 

La osservi, e pensi che Giulia Pivetta sia una perfetta incarnazione del tipo di donna che più spesso descrive: l’ età è indefinibile, l’ aspetto a metà tra la donna adulta e un’ adolescente in via di sboccio, il look vagamente rétro. In realtà Giulia ha 33 anni, cinque libri e numerosi articoli già all’ attivo ed è impegnata su più fronti, ad esempio come docente alla Domus Academy di Milano. Ma quel che salta all’ attenzione è la sua ricerca, da sempre incentrata sulla moda come fenomeno sociale e sulle culture giovanili. La moda che Giulia racconta si interseca con la “strada”, con il fermento adolescenziale, con le evoluzioni del costume, e viaggia di pari passo con il mutare delle epoche e dei loro iter di stile.  Il suo studio approfondisce il punto d’ incontro tra estetica e cultura: Lolita, il dandy, il “Pink Feminism” delle Millennials sono solo alcuni dei temi inerenti al suo universo. Su tutti, risalta un’ indagine a 360° – o sarebbe meglio dire “una passione smisurata” – che ruota attorno agli anni ’60. E’ Giulia stessa a spiegarci da dove nasce, e molto altro ancora.

Cosa mi racconti di te e del tuo percorso?

Ho sempre avuto una grandissima propensione verso tutto ciò che è visivo, che riguarda l’immagine. Non so se è una questione generazionale o più personale, del modo in cui cresci…Però sono sempre stata molto attaccata alle immagini, soprattutto alle immagini degli abiti: quello che gli abiti rappresentavano per me nella mia vita, nella mia infanzia, anche in modo inconscio. Da lì mi è venuto il desiderio di fare la stilista. Questo è stato il mio primo input, per cui i miei studi dopo le superiori sono stati orientati al Fashion and Textile Design. Mi sono diplomata al NABA, ma non ho concretizzato il mio sogno perché, in quel momento, non sentivo l’ambiente canonico della moda particolarmente adatto a me. Avevo un’idea molto romantica, molto “rétro” se vuoi, della figura dello stilista, che non combaciava con la realtà dei fatti. Nel contempo mi sono avvicinata ai temi delle avanguardie storiche, delle culture, dello stile, tutto quello che lontano dalle passerelle accadeva e che alle passerelle, poi, in realtà parlava. Per cui mi sono specializzata in modo molto naturale in quello che ora è il mio mestiere: raccontare immagini e abiti che per me hanno rappresentato la felicità per tanti anni e anche tuttora. Ho iniziato a raccontare non tanto la situazione delle passerelle, ma come gli abiti e la moda fanno parte della vita quotidiana della gente, come dalle passerelle si vada a parlare di persone vere. Della moda, cioè, intesa come qualcuno che crea ma anche come qualcosa che ha a che fare con la vita delle persone. Le subculture e le avanguardie sono state un po’ un pretesto, perché non ti parlano di fashion design ma ti parlano di ragazzi. La cultura giovanile, l’adolescenza con la sua ribellione sono gli elementi fondamentali della mia ricerca.  ll mio è un cercare di raccontare con parole facili, ma non superficiali, che cos’ è la moda reale. E poi ci sono queste benedette immagini a guidarmi, questi vestiti che sono essenzialmente immagini. La scrittura per me è un veicolo, uno strumento, non il fine principale: non voglio fare la scrittrice.

 

Il titolo e il logo della copertina di “Ladies Haircult” (2016, ed. 24 Ore Cultura)

Docente, autrice, fine conoscitrice dei fenomeni di moda e di costume. Come ti sintetizzeresti in una definizione?

A volte vivo molto male, altre molto bene il fatto di non sentirmi racchiusa in una definizione. Per sintetizzare potrei dire che sono un’autrice giornalista, poi però bisognerebbe specificare “di moda e di costume”…Non amo le definizioni strette perché secondo me semplificano, e le semplificazioni banalizzano.

 

La copertina di “Dreamers & Dissenters” (2012, ed. Vololibero)

Nei tuoi libri volgi spesso lo sguardo allo stile e alla cultura pop anni ’60: cosa ti affascina di più, di quel periodo?

Sono stati un po’ il motivo scatenante che mi ha fatto aprire il vaso di Pandora: quando li ho scoperti, mi si è aperto davanti tutto un mondo. E’ facile capire cosa affascina degli anni ’60. Negli anni ‘60 c’è stata la sintesi e allo stesso tempo l’esplosione di un’estetica, di tante estetiche…Ho scritto un libro che è, appunto, una lode spassionata a questo decennio. Si intitola “Dreamers and dissenters” ed è illustrato da Matteo Guarnaccia. Nel libro prendo in analisi un’ epoca che definisco “di dissenzienti e sognatori” e racconto tutti gli stili nati allora. Ne abbiamo inseriti forse una trentina, ma ci siamo dovuti limitare! In soli dieci anni è nata una serie di input, al di là delle passerelle, su cui ci sarebbe stato da scrivere tanto altro ancora. E’ stato un decennio davvero ipercarico, con un’energia che si è concentrata come poche volte è capitato nella storia. Un fermento che ha coinvolto le gerarchie sociali, le estetiche, l’arte, la musica…

 

 

Le copertine di “Ladies’haircult” (2016) e “Barber Couture” (2014), ed. 24 Ore Cultura

La moda è, da sempre, legata a doppio filo all’ evoluzione del costume. Qual è il rapporto che le unisce e quale delle due influenza l’ altra per prima?

Diciamo che la moda non è fatta altro che di persone che guardano quello che succede, che sentono quello che sta per succedere e lo trasferiscono negli abiti. Per cui, c’è un po’ questo: la moda ruba dalla strada, dalle subculture ma anche dalle persone, prende ispirazione da quelle che sono espressioni autentiche di stile, poi le rilegge e le fa diventare una cosa poetica anche quando non c’è poesia. Ma questo è solo un aspetto. Dall’ altro lato è anche vero che lo stilista fa un lavoro di sintesi, di input, crea qualcosa di nuovo che diventa qualcos’altro e addosso alla gente diventa un’altra cosa ancora. Quindi, secondo me, è un continuo dare e ricevere tra una parte e l’altra. Anche perché il punto di contatto è rappresentato dagli stilisti, che sono uomini nel mondo…E oltretutto, sempre di più. Oggi il fashion designer lavora con un team di persone, è come se nel suo studio avesse una microcollettività, gli input vanno e vengono. E’ una cosa normalissima, un motivo di grande orgoglio per i designer di tutti i marchi più famosi: avere un team con cui lavorare attraverso uno scambio continuo.

 

La copertina di “Lolita. Icona di stile” (2016, ed. 24 Ore Cultura)

Nel 2016 hai analizzato in un libro il fenomeno di Lolita e delle “ninfette”, su Marie Claire è uscito un tuo articolo sul “Pink Feminism” delle Millennials. Come è cambiata l’affermazione del femminile, da Lolita in poi?

Sono due argomenti molto connessi, e non solo per via del rosa! L’ affermazione del femminile con Lolita si veste di un linguaggio, diciamo, “antico”, nel senso che è qualcosa che c’era già: Lolita incarna una tipologia di femminilità ancestrale, che però tramite lei inizia a parlare un linguaggio pop. Se vuoi anche grazie al film, perché nel momento in cui qualcosa di scritto prende una forma estetica e si fa immagine, diventa veicolabile a tutti. Questo è stato il grande apporto di Lolita. E poi, il nome: un nome che fosse attuale, moderno, e lo è tuttora. Un nome che fosse unico, perfetto per il momento in cui è uscito, per la persona che stava a rappresentarlo e per il tipo di femminilità che rappresentava. Da allora è cambiato il fatto che l’infanzia, o anche il lato bambino, giocoso, è diventata un valore, qualcosa da difendere e che non va buttata via insieme al primo paio di scarpe col tacco e al primo filo di rossetto. Ed è un valore che va preservato, mentre prima si lasciava alle spalle nel momento in cui si entrava nell’ età adulta.  “Pink Feminism” perché il rosa è il colore della donna, ma è anche un colore che rimanda molto all’ infanzia, quindi ha una doppia valenza. Poi ovviamente viene chiamato così anche per via del “Millennial Pink” e del successo pazzesco che ha avuto questo colore. Ma è un tipo di messaggio, quello che passano le femministe di oggi, che – e si vede anche nelle foto dell’articolo – non fa finta di essere qualcos’altro. Si rifà all’ infanzia, a uno spirito ancora molto presente in tutte le ragazze che hanno 18, 16 anni: non è che da un momento all’ altro ti dimentichi delle penne colorate che fino a due settimane prima avevi usato per scrivere nel tuo diario.

Nell’ articolo sottolinei che il “sistema lo combatti meglio se ne fai parte integrante”. Non pensi che, essendo l’arte una delle più alte forme di espressione umana, le artiste che citi operino da un punto di vista privilegiato?

Oggi tutto è molto più connesso, non esiste un milieu intellettuale che vive lontano dalle dinamiche del mondo e che quindi può permettersi certe cose perché tanto, poi, alla fine rimane immune da tutto. C’è sempre una ricerca personale, secondo me. Un percorso di indagine condotta anche sulla base della sensibilità individuale. Il sistema lo combatti meglio dal di dentro, se sei parte di esso: queste ragazze sono delle artiste, ma al tempo stesso lavorano come fotografe, registe…Fanno tante cose. Certo, si tratta   sempre di lavori che hanno una componente creativa molto alta. Ma è una scelta personale il fatto di fare un lavoro artistico a mille livelli, dove c’è una tua espressione propria o meno. E vale anche per tutte coloro che producono lavori che possono far parte del commercio, del sistema. Non noto divisioni così nette.

Dalla celebre t-shirt che recitava “We all should be feminists” ideata da M.Grazia Chiuri a molti altri esempi attuali, anche il mondo della moda è stato contagiato dalla vena femminista: tendenza o potente elemento amplificatore?

Dipende da quale espressione della moda si tratta. Parlando ad esempio di Dior, Maria Grazia Chiuri è una donna e quindi ha molto senso che voglia far arrivare a tutte, anche a livello di mainstream, quella frase.  Io non trovo che se il femminismo passa a più livelli, attraverso cioè un capo di abbigliamento, attraverso la moda, sia negativo. Gli abiti veicolano sempre dei messaggi, e piuttosto che un messaggio di distruzione preferisco che portino un messaggio di coscienza e di autocoscienza. Penso che è nella natura della moda trasmettere messaggi. Poi, che la gente sia conscia o meno del messaggio che sta portando addosso, è un altro discorso.

 

Luca Rubinacci. Foto © Mattia Balsamini tratta dal libro “Dandy. Lo stile italiano” (2017, ed. 24 Ore Cultura)

In “Dandy. Lo stile italiano”, il tuo ultimo libro, ti occupi di questa storica figura maschile e del suo universo. Qual è l’identikit di un dandy italiano del nuovo millennio?

Nel libro esistono dei caratteri che accomunano tutti, poi ovviamente ognuno li declina a proprio modo e si vede. Ognuno ha la sua identità. A livello stilistico è il fatto di conoscere quello che si indossa, cioè sapere che alla base di un abito o alla base dell’abbigliamento c’è la cultura, e soprattutto arrivare all’ abbigliamento attraverso la cultura. Che non vuol dire una mera ricerca estetica dal punto di vista delle forme, ma è tutto quel compete la cultura tessile, la cultura della manifattura, la cultura dell’artigianalità, la storia…Questo, a mio avviso, è il leitmotiv presente nell’ identikit di un dandy italiano. Poi è ovvio che se mi chiedi dei dettagli estetici tipo “ha la pochette” piuttosto che “le scarpe verdi”, fatico a dirlo. I protagonisti del mio libro sono molto diversi tra loro ed una cosa che, a mio parere, li accomuna, è quella di riuscire a amalgamare molti mondi, di non rimanere ancorati alla sartoria artigianale. Mescolare un abito fatto a mano con qualcosa, magari, di origine militare o che arriva dagli anni ’60. Secondo me è fondamentale.

 

Luigi Presicce nella copertina di “Dandy. Lo stile italiano”. Foto © Jacopo Menzani e Tommaso Majonchi.

Chi rappresenta maggiormente, oggi, la quintessenza del dandy del Bel Paese?

In realtà lo fanno tutti. Io i “miei dandy” li ho scelti proprio perché per me tutti rappresentano – per un motivo o per l’altro – quella figura, per cui non ho preferenze. Potrebbe essere Alessio Berto come Gerardo Cavaliere, i fratelli Guardì…Oppure Luigi Presicce, l’artista in copertina. Dandy lo sono un po’ tutti, li ho selezionati con cura! Ognuno di loro è esemplificativo di un carattere ben preciso.

 

Rodolfo Valentino. Foto © Ullstein Bild / Alinari

Hai qualche progetto in serbo di cui mi vorresti parlare?

Assolutamente sì: è un progetto che si sta chiudendo in questi giorni, ma fino a un nuovo ordine non posso pronunciarmi. Ti aggiornerò appena posso!

 

Sergio. Foto © Giulia Gasparini

Barnaba Fornasetti. Foto © Mattia Balsamini

Tavolo del Maestro Liverano. Foto courtesy Liverano & Liverano

 

 

Tendenze FW 2015/16: racconti di cappa e stile

Versace

 

Capo basic dell’ Autunno/Inverno dei tardi anni’60, la mantella si conferma anche per l’ attuale stagione fredda un assoluto must have: versatile, stilosa e non convenzionale, è la scelta ad hoc per il periodo in cui alle “foglie morte” si accompagnano i primi cali di temperature e rappresenta una valida alternativa al coat. Quest’ anno le Maison la propongono in reinterpretazioni molteplici che spaziano dal vibrante full colour a uno stile più prettamente rétro, senza venir meno al leitmotiv di un’ eleganza estrosa che incarna, da sempre, il suo maggiore atout. Eccone una selezione.

 

 

 

Valentino

 

 

 

Ferragamo

 

 

 

Roberto Cavalli

 

 

 

Marc Jacobs

 

 

 

Dolce & Gabbana

 

 

 

Dsquared2

 

 

 

Emporio Armani

 

 

 

Philosophy by Lorenzo Serafini

 

 

 

Saint Laurent