LUISAVIAROMA: torna Firenze4Ever

Vito Nesta

Al via Firenze4Ever, l’ evento – punto di incontro tra arte, fashion, celebs e influencer organizzato a Firenze, con cadenza biennale, da LUISAVIAROMA. La 14ma edizione avrà inizio stasera, con una cena di gala e un party che vedranno la cantautrice, modella e attrice Kelly Rowlands nelle vesti di main performer. La serata verrà ravvivata da esibizioni esclusive di Tom Odell, Jasmine Thompson, Dragonette e Sebastian Ingrosso, e vanta un parterre di tutto rispetto: Petite Meller, Scott Schuman, Mia Moretti, Lindsay Lohan e l’ influencer Kenza sono solo alcuni dei prestigiosi nomi che prenderanno parte all’ opening di questo straordinario appuntamento. La cena di gala prevede inoltre una charity auction in cui opere di artisti contemporanei del calibro di – tra gli altri – Bosco Sodi, Gualtiero Vanelli, Gianfranco Manfredini, Chiharu Shiota verranno battute all’ asta da Simon De Pury. I proventi saranno interamente devoluti alla Fondazione Andrea Bocelli e destinati alla ricostruzione delle scuole haitiane distrutte dall’ uragano Matthew.

Sempre in giornata, verrà inaugurata un’ importante mostra: LUISAVIAROMA sancisce la sua sinergia con l’ arte e con il design tramite Brilliant Ceramics, un percorso espositivo curato da Valentina Guidi Ottobri ed allestito nella Terrazza progettata da Patricia Urquiola. Ben Copperwheat e EKTA tramuteranno il concept store in una tela bianca a cui contribuiranno a dar forma e colore. Fulcro della mostra è il dialogo costante tra designer ed artigiani, punto di partenza per una visione fondata sulla contemporaneità. E’ così che nasce L’albero della vita, l’ avanguardista e sgargiante opera con cui Milena Muzquiz per Lladro’  racconta gli oltre 60 anni del celebre brand di porcellane spagnolo. La mostra esporrà pezzi (rigorosamente in limited edition) di Marcantonio Raimondi Malerba for Seletti, Clare Page e Richardson per Lladro’, Milena Muzquiz per Lladro’, Paolo Polloniato per Editamateria, Coralla Maiuri, Giorgia Zanellato e Daniele Bortotto, Maurizio Galante, Vito Nesta, Maison Margiela, Matteo Cibic, Jaime Hayon per Bosa, Karin Karinson per Salvatore Lanteri, Nicola Falcone, Cristina Celestino per BottegaNove.

Lladro’

La kermesse proseguirà, il 10 Gennaio, con un secondo save the date d’ eccezione: nella location della boutique di LUISAVIAROMA, Scott Schuman presenterà le sue sneaker in limited edition nate dalla collaborazione con Sutor Mantellassi. Per tutti i fan di The Sartorialist il rendez-vous è fissato alle 17.30.

Maurizio Galante

Si proseguirà poi l’ 11 Gennaio, sempre alle 17.30, con The Icon Project di Peuterey. Un evento ed un’ installazione speciali faranno da cornice al debutto di Icon, la capsule creata da Peuterey in esclusiva per LUISAVIAROMA: un parka, un bomber e un trench in nuance inedite verranno esposti in un apposito corner e saranno acquistabili sia nella boutique che nel suo shop on line.

Maison Margiela

Il 12 Gennaio sarà la volta del Fashion & Technology Summit, che al Teatro della Pergola, dalle 9.30 alle 18, riunirà relatori internazionali e brand leader nei settori del fashion e della tecnologia per una serie di dibattiti e workshop che avranno come tema i trends futuri. E’ prevista la partecipazione di Polimoda, Business of Fashion (BOF), The Huffington Post USA, AOL, Peuterey, MediaMath, Launchmetrics  e Digital4Fashion di IAB ITALIA. Il Summit, frutto di un connubio tra LUISAVIAROMA, IAB ITALIA e Netcom, è alla sua terza edizione. Gli interessati potranno consultare il sito summit.lvr.com per il programma completo.

Matteo Cibic

Da sempre attenta ai giovani talenti emergenti, LUISAVIAROMA rinsalda la collaborazione con il Salone della Moda di Berlino. “A Berlino, ho scoperto marchi tedeschi originali e di alta qualità”, ha dichiarato il CEO e fondatore del top retailer fiorentino Andrea Panconesi. Ed è lo stesso Panconesi che, durante la sua visita al Salone della Moda di Berlino, ha selezionato designer promettenti e di sicuro interesse come Antonia Goy, Michael Sontag, Odeeh, René Storck e Tim Labenda, Gabriele Frantzen e Mykita. Il 13 Gennaio, alle 11.30, la Terrazza di LUISAVIAROMA ospiterà un incontro tra i new talents e la stampa: l’ evento, realizzato in collaborazione con champagne Perrier-Jouet e Monotee, precederà il ritorno al Salone della Moda di LUISAVIAROMA, che la settimana prossima partirà di nuovo alla volta di Berlino.

Tutte le foto (courtesy of LUISAVIAROMA Press Office) raffigurano le opere in esposizione alla mostra Brilliant Ceramics.

Andy Warhol e Jean-Michel Basquiat in mostra al Mantova Outlet Village

©Anton Perich, Warhol e Bianca Jagger

Andy Warhol e Jean-Michel Basquiat – Dalla Pop Art alla Street Art è il titolo della mostra che ONO Arte inaugurerà con la storica dell’ Arte Daniela Sogliani, l’ 8 Gennaio, nella consolidata location del Mantova Outlet Village: un percorso fotografico mirato a evidenziare, attraverso 36 scatti, un sodalizio ed un periodo di transizione cruciali per tutta l’arte del ‘900. Protagonisti sono Andy Warhol e Jean-Michel Basquiat, fautori di una vera e propria “rivoluzione” che traspone l’ arte dalle sale dei Musei ad una realtà massmediatica, popolare e urbana. L’ incontro tra i due avviene in un ristorante di SoHo, nel 1978, nello scenario di una Grande Mela in pieno fermento: Warhol rimane colpito dalle cartoline illustrate che il giovanissimo Basquiat realizza e vende per guadagnarsi da vivere. Ne compra alcune ed intravede l’ espressione di un talento raro, che decide immediatamente di prendere sotto la sua ala protettiva. Sono gli anni del Club 57 e del Mudd Club, la Factory è al suo massimo apogeo: è proprio alla Factory che il duo intreccia un connubio artistico sfociato nella produzione di svariate opere a quattro mani, dove all’ istintività primitiva, agli slogan ed alle scritte di Basquiat si affianca la serialità “serigrafica” tipicamente Warholiana. E’ un incontro tra due visioni estetiche, tra due culture che si alimentano a vicenda. La Pop Art di cui Andy Warhol si fa principale interprete, con la sua campionatura di icone e prodotti cult dell’ immaginario di massa, evolve in una direzione urban, prettamente Street Art, che ha come protagonista Jean-Michel Basquiat e la sua attività di graffitista. Basquiat ha solo 17 anni quando, con l’ amico Al Diaz, inizia a “graffitare” sui muri di New York adottando l’ acronimo SAMO (da “SAMe Old shit”) come firma. Con Warhol intesse un legame simbiotico, controverso, nel tempo corroso dallo scontro tra due personalità dominanti. Rimane molto turbato dalla sua morte; gli sopravviverà però solo un anno, stroncato – il 12 Agosto del 1988 – da una overdose. La Street Art,  di cui Jean-Michel Basquiat viene considerato padre fondatore, è allora nel pieno del suo fulgore. Ma all’ orizzonte si va già profilando una svolta: quegli anni ’90 che trasferiranno l’ epicentro artistico da New York a Londra.

ANDY WARHOL E JEAN-MICHEL BASQUIAT – Dalla Pop Art alla Street Art

Dall’ 8 Gennaio al 5 Marzo 2017

c/o Mantova Outlet Village

Via Marco Biagi

Bagnolo San Vito (MN)

Per info e orari: 0376/25041

info@mantovaoutlet.it

www.mantovaoutlet.it

 

©2016 by Lee Jaffe, LWArchives, All Rights Reserved, Basquiat

 

©Bart van Leeuween, Andy Warhol NYC 1983

 

©Anton Perich, Basquiat

 

Photo courtesy of ONO Arte Contemporanea

Schield SS 2017: una ad campaign tra il sacro e il profano

Sorprendente, graffiante, provocatorio: tutti aggettivi che calzano a pennello a Diego Diaz Marin, fashion photographer dalle mille risorse e dai mille progetti.  Tra questi – oltre al recente lancio del visual book Doubleview a livello internazionale – rientra la sua attività di art director per Schield, il brand di luxury jewels fondato da Roberto Ferlito. E proprio con Schield è in procinto di lanciare una nuova, incisiva advertising campaign che presenta la collezione Primavera/Estate 2017 in una delle sue tipiche photostory. Mancano i cieli turchesi, stavolta, i colori vibranti a fare da leitmotiv; il photo shoot è interamente ambientato nello spazio ristretto di un confessionale e affianca poche nuance basilari: l’ argento, il nero, il marrone. Il focus è tra il sacro e il profano, la “vanità” dei gioielli si sposa alle sobrie atmosfere della confessione. Un rito a cui la protagonista – e qui riappare l’ inconfondibile donna di Diego, affascinante ma nevrotica – si sottopone con una devozione che rivela, scatto dopo scatto, differenti sfaccettature.

Accanto alle splendide creazioni di Roberto Ferlito – grappoli di fiori, collier, orecchini pendenti di una ricercatezza avantgarde – risaltano tre elementi chiave: la donna, una corona di filo spinato, la grata del confessionale. E’ decisamente minimal il look della protagonista, che tiene i capelli raccolti in uno chignon. E la corona di spine si fa metaforica, scegliendo un più contemporaneo filo spinato che, non a caso, con i jewels è in perfetto pendant argento.

Simbolo di espiazione oppure ironico dettaglio fashion? E ancora: la protagonista sarà davvero pentita dei suoi peccati o la confessione rappresenta piuttosto, per lei, l’ ennesima provocazione? Per chi segue ed ama l’arte di Diego Diaz Marin, l’ interpretazione si spoglia di ogni nota enigmatica.

biancobiancoSCHIELD Advertising Campaign SS 2017

Photographer: Diego Diaz Marin

Model: Reece Perkins

Hair and make up: Giovanna Fucciolo

biancoLeggi qui l’ ultima intervista di VALIUM a Diego Diaz Marin

Emilio Cavallini, la calza come cult: Pier Filippo Fioraso presenta ‘Ready to seduce’

“Quando ho aperto la mia azienda nel 1970 ero interessato a fare uscire i collant dall’anonimato, volevo trasformarli in un capo completo, fine a se stesso”, ha detto Emilio Cavallini. E bisogna dire che è perfettamente riuscito nel suo intento: oggi, le creazioni di calzetteria e l’ abbigliamento seamless che portano il suo nome incarnano uno stile inconfondibile ed altamente iconico amatissimo dalle celebs. Tutto è cominciato negli anni della Swingin’ London, quando il boom della minigonna tramutò le calze in elemento imprescindibile del look. Folgorato da quello spunto ispirativo, Cavallini iniziò a “vestire le gambe” con un’ inventiva che fondeva moda, arte e cultura pop in un prezioso connubio: i suoi collant divennero dei cult proposti nei pattern più incredibili ed in lavorazioni che alla rete declinata in molteplici versioni affiancavano – e affiancano tuttora – le stampe, il devoré, il crochet e il jacquard. Creatività e innovazione tecnologica sono ormai i leitmotiv di un brand che, per primo,  lanciò il seamless eliminando le cuciture grazie ad appositi macchinari e che Madonna, Beyoncé, Lady Gaga, Naomi Campbell, Gwyneth Paltrow, Gigi Hadid, Emma Stone e molte, molte altre star ancora scelgono per la daily life e per le loro performance. Con la nuova collezione Ready to seduce, il Direttore Creativo Pier Filippo Fioraso traduce l’ heritage più iconico del marchio in un mix di rete rock e fantasie floral che ridefinisce il gioco della seduzione: il risultato è iper-glam, straordinaramente sensuale. Ed è proprio Fioraso ad approfondire con noi i punti cardine della linea e dell’ universo Cavallini.

Com’è iniziata la sua avventura come Direttore Creativo di Emilio Cavallini?

Vengo da una tradizione familiare nel campo della moda, fin da piccolo sono stato motivato a seguire le mie passioni, i miei sogni, ad esprimermi liberamente. Da qui ho sviluppato un grande interesse per l’arte, nelle sue svariate forme ed espressioni. Fra tutte la moda è quella che mi ha attratto di più. Dopo gli studi artistici mi sono trasferito a Brescia e Milano per approfondire la mia formazione nel campo del fashion design e della maglieria. Da lì l’interesse per le infinite possibilità della “maglia” intesa come punto di partenza su cui sperimentare ed innovare. Successivamente, dal 2007 è iniziata una solida e continuativa collaborazione con Emilio Cavallini.

Calze a rete avantgarde”, fantasie optical e floral, calze che si tramutano in un vero e proprio capo di vestiario: quale elemento sente più suo, dello stile Cavallini?

Dello stile Cavallini sento mia la filosofia che anima il brand sin dalla sua fondazione: ideare outfit per donne reali, che cercano proposte ricche di personalità e che non vogliono passare inosservate.

 Quale valore aggiunto possiede la calza, in un outfit?

Penso che la calza sia uno degli accessori più versatili del guardaroba femminile, capace di trasformare e impreziosire anche il più semplice dei look. Abbinarla nel modo giusto più trasformare una donna nella regina della serata… o del supermercato!

Beyoncé

La nuova collezione ha il nome di Ready to Seduce”:che  cos’è, per lei, la seduzione?

Con Ready to Seduce ho cercato di dare corpo ad un’idea. Di definire una donna capace di esprimere la propria sensualità con consapevolezza di sé. Gli stessi scatti della collezione non sono stati pensati per rendere il corpo “esplicito” quanto, piuttosto, per vestirlo di allure. Ready to seduce è ricca di dettagli, anche di trame recuperate dall’archivio del brand e attualizzate, proprio per dare ad ogni tipo di femminilità la possibilità di trovare quello che è più adatto al personale gioco della seduzione che decide di condurre. E questo è per me “seduzione”, un gioco in cui ciascuno definisce le proprie regole.

Il black and white è un po’ il leitmotiv della linea. Perché?

Il bianco e nero rappresenta uno dei tratti distintivi della Collezione Timeless, il “continuativo” di Cavallini. Se per molti brand questo termine rappresenta il basico, da noi è invece iconico. Bianco e nero sono l’essenza della calza, il pieno e il vuoto su cui plasmare arte per le gambe.

Emilio Cavallini è un brand che le celebrities adorano. Quali sono i modelli preferiti dalle dive dello show-biz?

Celebrities come Madonna, Beyoncé, Lady Gaga, sono consapevoli di essere icone di irriverenza e seduzione, oltre che dive del pop. Sono comunicatrici e quando scelgono le creazioni di Cavallini sanno esattamente cosa vogliono. Di recente anche Petite Meller e Bebe Rexha sono letteralmente impazzite per i bodysuit. Di tutti gli articoli della collezione sono sicuramente i migliori per enfatizzare il corpo e sottolinearne le curve; hanno la forza impattante di un nudo integrale pur coprendo completamente la figura.

Se dovesse indicare un pezzo iconico della nuova collezione, su quale punterebbe?

Direi sicuramente i tre modelli a rete. Facendo ricerca negli archivi, me ne sono innamorato! Erano stati disegnati per una collezione del 1976. Li ho rivisitati in chiave contemporanea e in poco tempo sono stati tra i più utilizzati in moltissimi editoriali, oltre che scelti da numerose star.

Da dove ha attinto ispirazione per il sensualissimo bodysuit in rete?

In genere è la quotidianità ad ispirarmi, trovo che in ciò che ci circonda ci siano spesso veri momenti, o dettagli, capaci di sorprenderci. Altre volte mi ispiro al mondo dell’arte, soprattutto di quella contemporanea e al lavoro di artisti come Joana Vasconcelos o Magda Sayeg. In particolare questo bodysuit è nato dopo un viaggio in Sicilia dove sono rimasto colpito dei preziosissimi pizzi e crochet realizzati a mano secondo l’antica tradizione locale.

Madonna

biancoSe dovesse tracciare un breve ritratto della donna Cavallini, come la descriverebbe?

Una donna libera e sicura di sé, capace di definire ogni giorno la propria personalità.

Tra i suoi progetti futuri ce n’è qualcuno di cui vorrebbe parlare?

In questi anni ho collaborato con stilisti e brand di diverso calibro, come Alexander McQueen, Balenciaga, Paco Rabanne e Missoni, oltre ad aver sviluppato progetti speciali come quello per Opening Ceremony e sono sempre aperto a svilupparne di nuovi. Per il mondo Cavallini, vorrei sviluppare maggiormente l’universo Uomo, la cui proposta di calzini ed intimo è limitata ai motivi iconici in bianco e nero e, solo di recente, si è arricchita dei tanto discussi mantyhose (comodissimi collant da uomo). Vorrei inoltre focalizzarmi di più su nuove proposte di outwear e maglieria da abbinare ai motivi optical Cavallini.

Gigi Hadid

Bebe Rexha

https://www.emiliocavallini.com

biancoREADY TO SEDUCE  credits photo shoot:

Photographer: Marco Barbaro
Creative Director: Pier Fioraso
Stylist & Editor: Manuele Menconi
Video: Tommaso Cappelletti
Hair & Make-up: Rosanna Campisi @RockandRose, Melissa Alaimo
Models: Gaia and Federica @ Nur Model Mgt, Edoardo @ Mandarine Models

Location: special thanks to Soprarno Suites – Florence

Photo courtesy of Pier Filippo Fioraso

New icons: Petite Meller

L’ hanno paragonata di volta in volta a una Lolita, ad un folletto, a una bambolina: quel che è certo, è che nel panorama pop contemporaneo la figura di Petite Meller è talmente unica e irripetibile da non avere eguali. Incarnato color latte, capelli biondissimi e il tipico fard rosa steso in una chiazza che ricopre naso, guance e zigomi in modo uniforme, Petite ha saputo tramutare il suo look in materiale iconico imitato da migliaia di fans. Dopo il boom dell’ estate 2015 con il singolo Baby Love, un’ esplosione gioiosa di note mandata quasi “in loop” per tutta la stagione ed oltre, nel Settembre scorso è uscito Lil Empire, il suo primo album, scritto e prodotto da un team di big names che include Jocke Ahlund, Peter Mayes, Shamir, Nick Littlemore e Craigie Dodds, già producer di Amy Winehouse. Petite, nata in Francia ma vissuta a lungo in Israele, vanta un CV di tutto rispetto che spazia dagli studi di Filosofia alla Sorbona all’ attività di modella in un caleidoscopio di suggestioni ispirative: un elemento fondante del suo stile “jazzy pop” – come le piace definirlo – che mixa irresistibilmente le sonorità di Dizzy Gillespie, Charles Aznavour e Duke Ellington al pop melodico più tradizionale.

Una miscela non nata a caso, influenzata da un’ infanzia parigina che al sottofondo di chansonnier come Charles Aznavour e Serge Gainsbourg alternava i ritmi made in Africa di Fela Kuti. E’ all’ università che Petite scrive le prime lyrics, ma solo a New York il suo imprinting musicale riaffiora appieno: le note dell’ hot jazz la contagiano, tramutandosi in mood ispirativo da cui scaturiscono suoni e immagini. Potenti entrambi, preziosi in parti uguali nel definire un sound che fa del video il suo irrinunciabile supporto base. Il primo, NYC Time, Petite lo gira a New York e lo carica su You Tube: proprio grazie a quel video viene notata per caso da un manager inglese che, folgorato, la invita immediatamente a Londra.  Ha così inizio la sua avventura, una carriera all’ insegna di un jazzy pop travolgente associato a sequenze di forte impatto visivo. Un esempio su tutti? Il coloratissimo video di Baby Love, dove Petite esorcizza il mal d’amore in un tripudio di danze. Girata a Nairobi, in Kenya, la clip la vede ballare scatenata con i locali e posare tra giraffe e fenicotteri rosa.

L’ ispirazione è nata dalla famosa scena del mambo di BB in E Dio creò la donna, ma le citazioni cinematografiche riappaiono in quasi ogni video di Petite Meller, così come le terre lontane ed i paesaggi esotici: le Vergini suicide di Sofia Coppola, le colline mongole, il lago Rosa del Senegal fanno da leitmotiv all’ immaginario sconfinato della bionda popstar, suggestivi fotogrammi di un viaggio a ritroso nell’ infanzia.

Ed è proprio da un ricordo infantile che provengono le sue guance in total look rosa. Nulla a che fare con un trademark di stile, piuttosto – come ha spiegato a Panorama – lo strumento terapeutico per il superamento di un trauma, quando un’ ustione durante le vacanze sulla neve tinse il suo volto di un fiammeggiante rosso ciliegia: un aneddoto che la dice lunga sul “think pink” interiore e sulla straordinaria propositività di Petite.

Photo courtesy of Petite Meller

Amanda Toy: tattoo da fiaba e un nuovo e-shop

 

Bambole dagli occhioni languidi, matrioske, unicorni, arcobaleni fatati e dettagli che strizzano l’ occhio ad un’ epoca a cavallo tra la Belle Epoque e i Ruggenti Anni ’20: tutto questo – e molto altro ancora – fa parte dell’ inconfondibile iconografia di Amanda Toy, tatuatrice cult del panorama italiano ed internazionale. Il suo cognome d’arte, “toy”, evoca un immaginario in cui il fiabesco si intreccia al ludico traducendosi in un tripudio di forme naif e tinte pop in modalità sfumata. Iconico e al tempo stesso unico, lo stile di Amanda risalta per forza espressiva: il suo universo creativo riflette nelle immagini, accompagnate a volte da brevi claim, una magica valenza concettuale. Non è un caso che i bijoux e la tela siano gli ulteriori supporti delle sue creazioni, celebrate come veri e propri fetiches. Oggi, Amanda Toy festeggia i primi 20 anni di carriera ed ha in serbo una sorpresa che farà la gioia degli aficionados del suo studio di Milano e di tutti i suoi fan: un e-shop in cui sarà possibile acquistare prodotti che riproducono le oniriche effigi dei suoi tattoo. L’ ho incontrata per saperne di più.

 

Per quando è previsto il lancio del tuo e-shop esclusivo?

Per il 22 novembre.

Attualmente, nel tuo sito web è già possibile acquistare bijoux e stampe ispirate ai tuoi tattoo. Quando e come hai deciso di ampliare il tuo “raggio d’azione”?

Oltre al lancio dell’e-shop è in previsione un nuovo sito Internet ad esso collegato. Ho deciso di ampliare il raggio d’azione circa 12 anni fa, in quanto ho sempre cercato di essere il più trasversale possibile e quindi di collegare i tatuaggi delle mie bamboline ad un filo conduttore non solo concettuale ma anche reale, che le potesse far viaggiare non solo sulla pelle ma anche su altri supporti. Per questo inizialmente ho deciso di creare una collezione di bijoux proseguendo con borse, maglie ed altre cose.

Amanda Toy

 

Come hai iniziato, come tatuatrice?

Ho iniziato nel 1996: eh sì, sono vent’anni … Quello dei tatuaggi era un mondo magico e molto di nicchia ed è stato amore a prima vista, qualcosa che potesse permettere alla mia energia di incanalarsi in una direzione che per me aveva un senso.

L’uso del colore sfumato in un arcobaleno di gradazioni è uno dei tuoi punti di forza. Come nasce questa tecnica?

Lo amo, mi viene spontaneo. Questa tecnica nasce con la consapevolezza di riuscire a mixare i colori tra di loro con sofficità. E quando dico “tecnica” intendo la conoscenza dello strumento, cioè la macchinetta per fare i tatuaggi, con tutti i suoi annessi e connessi.

Da dove trai ispirazione?

Semplicemente da me stessa e ovviamente da tutto ciò che mi circonda e mi contagia in senso positivo: immagini, ma soprattutto emozioni. Si può davvero dire che traggo ispirazione dalle mie emozioni.

Se dovessi definire il tuo stile con un aggettivo, quale sceglieresti?

Un aggettivo solo?…E’ un po’ difficile, perché io stessa non sono mai una cosa sola quindi neanche un solo aggettivo penso che definirebbe il mio stile. Se vuoi che te lo descriva con una parola direi stile TOY, cioè me stessa…Se invece mi dai la possibilità di definirlo con più aggettivi, sarebbero sicuramente “immaginativo”, “surreale”, “onirico”, “infantile”, “simbolico”, “giocoso”, “concettuale”.

Quali sono i tatuaggi più richiesti?

Lavoro molto con i racconti e le storie delle persone, a cui chiedo di definirmi che tipo di tatuaggio vogliono dal punto di vista degli aggettivi e delle loro emozioni in maniera che io possa trasferirli su pelle. Ovviamente un soggetto ricorrente è la donna, le mie bambole con occhi grandi. Il messaggio, molto spesso, è nei dettagli.

La tua è una carriera internazionale: che ci racconti al riguardo?

Ho una lista d’attesa molto lunga qua a Milano. Cerco di viaggiare il più spesso possibile, ma non sempre riesco a viaggiare come vorrei in quanto sono molto presente nel mio studio milanese. Ho in previsione, comunque, viaggi in Giappone e in America.

Esiste un tuo cliente tipo?

Il mio cliente tipo rientra in una vasta lista di persone che si tatua da me da moltissimi anni, e devo dirti che il 50% dei miei clienti sono tutti clienti che ho tatuato più volte. Da me si sono fatti braccia intere o comunque molti tatuaggi, e di questo ne sono molto felice. Il mio cliente tipo è colui che conoscendomi e fidandosi mi lascia ampio spazio di azione. Tatuo più ragazze per scelta, in quanto i miei tatuaggi spesso hanno colori molto femminili. Ma quando iniziai, nel ’96, tatuavo più maschi: anche i tatuaggi con tanto nero e molto potenti fanno parte di me.

Photo courtesy of Amanda Toy

La notte, l’arte, la “contaminazione”: incontro con il Principe Maurice

All’ anagrafe il suo nome completo è Maurizio Agosti Montenaro Durazzo, ma è unanimemente conosciuto come Principe Maurice. E un principe, Maurizio Agosti, lo è davvero: discende da una casata d’ illustre lignaggio che affonda le origini nel Veneto della Serenissima, e da vent’anni a questa parte ha scelto proprio Venezia come sua dimora.  Eclettico, visionario, eccentrico, nel suo CV alterna studi di Marketing Bancario al Conservatorio ma in lui, a prevalere, è stata decisamente la vena artistica. Dire “Principe Maurice” equivale ad evocare un’ incontrastata icona dei cultori della nightlife: colui che, con magnetismo straordinario, ha movimentato le notti della Piramide del Cocoricò di Riccione durante la “favolosa” decade dei ’90, ma non solo. Star del cosiddetto teatro notturno, il Principe Maurice si muove tra Djset e performance, esibizioni musicali e prove di canto, ballo e recitazione, party esclusivi e spettacolari eventi di cui è regista e autore. La città della laguna lo vede protagonista indiscusso: Direttore Artistico dell’ Associazione Internazionale del Carnevale di Venezia, è Gran Cerimoniere oltre che figura ormai emblematica della kermesse. Oggi, la sua carriera sfaccettata ed esplosiva viene celebrata in un docufilm, Principe Maurice #Tribute, diretto da Daniele Sartori. E’ un’ alternanza di interviste e footage a raccontare questo sommo artista “della notte” in tutto il suo carisma: con il Principe Maurice ho parlato dell’ omaggio che Sartori gli ha dedicato e di molto altro ancora.

 

Icona della nightlife, performer, artista a 360°: quale definizione ti calza più a pennello?

Penso che “performer” sia la più adeguata poiché mi consente di non definirmi esattamente. Icona lo sono diventato grazie ai miei tanti estimatori e penso anche per l’originalità del mio personaggio. Artista a 360° mi piace vista la mia passione ed applicazione in varie discipline… insomma, di tutto un po’.

Come nasce il Principe Maurice?

Il Principe Maurice è nato dall’esigenza di sovrapporre alla mia vita reale una dimensione surreale ma sempre personale. E’ stata la naturale evoluzione di una personalità composita e curiosa. Il mondo della notte è stato mio complice con le sue atmosfere rarefatte e a volte morbose.

Il Principe Maurice nei panni di Giacomo Casanova – Foto di Marco Bertin

Discendi da un’antica famiglia dell’ aristocrazia veneto-napoletana. Qual è il tratto più nobile presente in te?

La mia famiglia mi ha trasmesso valori fondamentali quali la libertà, la dignità e l’amore. Non ho avuto un’educazione “borghese” legata al patrimonio e all’ostentazione. Credo che il tratto più riconoscibile sia una naturale eleganza del gesto e del linguaggio e la grande sensibilità verso la Bellezza.

Da bancario a star del “Night Theater Show”. Perché hai scelto la notte e cosa rappresenta, la notte, per te?

Fin da bambino la notte per me significava magia. Non ho mai avuto paura del buio e in vacanza mi si lasciava sveglio a fantasticare. Leggere e suonare di notte ha un altro sapore. Quando crei atmosfere oniriche hai bisogno dell’oscurità. Con le luci di scena hai uno strumento in più per suggestionare e caratterizzare ciò che fai. La notte è complice, è libera e libertina, è una sfida tra eros e thanatos che mi ha sempre intrigato. Infine, è la mia dimensione ideale.

Il Principe Maurice (in total look Issey Miyake e gorgera Swarovski Jorge Santos) e Daniel Didonè immortalati da Daniele Cipriani

Un diploma al Conservatorio con il massimo dei voti, studi di canto, danza e recitazione, mentori prestigiosi come Lindsay Kemp: come si inserisce questo background nel tuo ruolo di anfitrione delle più note discoteche italiane ed internazionali?

La mia preparazione e continua ricerca mi consentono di esprimermi in maniera intensa ed emozionale in un contesto piuttosto tecnologico e impersonale. E’ questa la differenza tra “animazione” e “teatro notturno”. Il mio modo di intervenire è fortemente contaminante e solo con strumenti artisticamente e tecnicamente affinati è possibile elaborare linguaggi che pur molto alternativi e sperimentali riescono a toccare le corde sensibili di un pubblico non abituato a queste atmosfere. La possibilità di avere Maestri straordinari è stata una grande fortuna.

Hai dichiarato di essere stato fortemente ispirato da Klaus Nomi. Che tipo di influenza ha esercitato sulla tua traiettoria artistica?

Klaus Nomi, con la sua voce incredibile e la sua presenza scenica drammatica e grottesca al tempo stesso, è per me un punto di riferimento proprio per quella sua unicità nel proporre, in particolare, la musica barocca in modo nuovo e godibile anche dal mondo “pop”. E’ esattamente quello che cerco di fare io nell’ambiente “techno”. Non l’ho mai incontrato personalmente ma quando l’ho scoperto è diventato il mio modello assoluto. L’altro mio grande mentore è stato Lindsay Kemp, con lui ho studiato e praticato la magica arte della pantomima moderna.

Il Principe Maurice con Grace Jones al Gran Ballo della Cavalchina del Teatro La Fenice (Carnevale di Venezia 2009)

Il Carnevale di Venezia ti ha visto, per anni, nei panni di un Giacomo Casanova poi proclamato maschera ufficiale della kermesse. Cosa ti affascina, del grande seduttore veneziano?

Giacomo Casanova è il testimone più autentico del modus vivendi del suo secolo, il mio preferito, il ‘700. Ha creato il mito di se stesso con la sua esistenza fatta di avventure di ogni genere e di grande curiosità intellettuale. In lui riconosco i miei tre valori fondamentali: la libertà, la dignità e l’amore. Non è tanto il celeberrimo libertino che mi intriga quanto il temerario, iperbolico, adorabile cialtrone ma anche autentico e libero “illuminato” che vive in maniera così intensa e libera una vita esaltante e tribolata a cavallo di cambiamenti radicali che lo vedono rifugiarsi nelle sue memorie per non soccombere. Ho perorato personalmente la sua “elezione” a nuova Maschera (“Il Casanova”) della Commedia dell’Arte codificando il personaggio e dandogli un cliché di immagine con il noto costumista Stefano Nicolao. Un modo per renderlo immortale attraverso il Teatro.

A Grace Jones ti lega una collaborazione di lunga data. Com’è scattata l’ alchimia tra di voi?

Conosco Grace da 35 anni. Ero ragazzino la prima volta che l’ho incontrata a Milano in una festa per la Settimana della Moda. E’ stato un colpo di fulmine e in lei ho subito intuito la personalità straordinaria oltre a subirne il fascino totale. Anche lei si è sentita immediatamente in sintonia con me intuendo qualità che nemmeno io conoscevo e che ho scoperto e migliorato proprio grazie alla nostra frequentazione. Per un periodo siamo stati anche “fidanzati”, ma sapevamo bene che l’Amicizia ha più durata e quindi il nostro rapporto si è tarato in quel senso. Godere della sua fiducia al punto da invitarmi sul palco della Royal Albert Hall in concerto all’improvviso per ballare “Libertango” chiamandomi dal pubblico dà il senso della confidenza e della complicità che nel tempo si è creata tra di noi. La considero come una componente della mia famiglia e la cosa è ricambiata. Basti pensare che quando si è esibita al Giubileo di Diamante della Regina Elisabetta II d’Inghilterra, avendo a disposizione pochi e preziosi inviti ufficiali e personali, mi ha fatto recapitare da Buckingham Palace il mio facendomi un regalo indimenticabile. Abbiamo troppo poco spazio qui per poter spiegare cosa significa per me questo rapporto così speciale e completo.

La locandina di “Principe Maurice #Tribute” di Daniele Sartori

“Principe Maurice #Tribute” è il titolo del docufilm che ti ha dedicato il regista Daniele Sartori: ce ne vuoi parlare?

Daniele Sartori, amico veneziano che ho conosciuto quando da ragazzo frequentava il Cocoricò ed era già mio fan, è un regista di grande talento che ha ricevuto riconoscimenti internazionali per i suoi corti rivolti in particolare alla cultura Queer. Mi chiese tempo fa di fare un cameo in un suo lavoro importante e ne scoprii l’originalità e bravura. Quando mi ha proposto di seguirmi per un certo periodo in modo da realizzare un docufilm su di me ne sono rimasto colpito e ho risposto subito si. In lui riconosco la capacità di esprimersi con diverse tecniche mantenendo il filo del racconto, un po’ come Kubrick, quindi il più adatto a rappresentare le mie tante personalità. Così è stato: Principe Maurice # Tribute è un insieme di corti, tre di video arte e altri di reportage, molto diversi tra loro e  legati da un’intervista in cui spiego il mio percorso artistico ed esistenziale entrando anche nell’intimo… c’è un omaggio a Klaus Nomi ed uno a Lindsay Kemp. Il mediometraggio che dura circa 50 minuti ed ha una colonna sonora originale elaborata da me con i mitici Datura, ha già fatto il giro di Festival di Cinema quali Firenze, Torino, Milano, Venezia e l’ultima proiezione prima della distribuzione è al Cinepalace di Riccione, dove tutto è nato, ad inaugurare una rassegna di Cinema d’Essai (3 ottobre) voluta dal patron Massimiliano Gometti in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura.

Le lenti bianche e la Piramide del Cocoricò sono gli emblemi a cui la mia generazione associa, da sempre, il Principe Maurice. Se ne dovessi indicare un terzo ai “posteri”, quale sarebbe?

La “contaminazione”, una parola che amo e che è stata anche il titolo della mia prima esperienza radiofonica su Radio Capital nel ’94.

Il Principe Maurice in un look di Vivienne Westwood

“Last, but not least”: in VALIUM il focus sul fashion è preponderante. Che rapporto hai con la moda o con lo stile in generale?

Lo stile è più importante della moda, me lo hanno insegnato Grace Jones e David Bowie, che pure ho avuto il privilegio di frequentare per un po’… Ci sono stilisti straordinari che nelle loro collezioni mettono capi, magari   poi nemmeno in produzione, che se riesco ad accaparrarmi (quasi sempre) entrano nel mio repertorio di costumi. Tra questi, oltre ad outfit fatti apposta per me dal mio compagno (scomparso prematuramente 8 anni fa ma sempre nel mio cuore) Pierluigi Voltolina ho parecchi pezzi di Issey Miyake, Jean Paul Gaultier, Thierry Mugler, Martin Margiela, Vivienne Westwood, Alexander McQueen, John Galliano e tanti abiti di scena autenticamente teatrali e anche antichi che “contamino”, appunto, con accessori particolari spesso fatti su mio disegno. In ogni caso la Moda è sempre più Teatro e segno dei tempi, quindi a modo suo Arte.

Photo courtesy of Maurizio Agosti

“Franca: chaos and creation”: a Venezia il docufilm che racconta il direttore di Vogue Italia

E’ la “Signora della Moda” per eccellenza: Franca Sozzani, dal 1988 al timone di VOGUE Italia,  ricopre anche i prestigiosi incarichi di direttore di L’ Uomo Vogue e direttore editoriale della Casa Editrice Condé Nast. Ma al di là delle vette professionali raggiunte (che la vedono, inoltre, alla guida di tutte le testate italiane “griffate” VOGUE), il suo ruolo di influencer si è affermato grazie ad un intuito sopraffino, al coinvolgimento in importanti topic sociali, ad una straordinaria  visionarietà. La rimessa in discussione dei canoni di bellezza, la lotta contro i disturbi alimentari, i celeberrimi Plastic Surgery e Black Issue hanno rivelato le doti pioneristiche ed il talento sovversivo di colei che ha saputo imporsi, a titolo definitivo, come la figura più iconica ed autorevole del fashion system. A “raccontarla”, oggi, è un docufilm d’eccezione: diretto dal figlio Francesco Carrozzini, in 78 minuti delinea un ritratto di Franca Sozzani accurato e disinvolto al tempo stesso. Frammenti di girato, superotto che immortalano squarci della sua infanzia e adolescenza, il tributo delle celebrities intervistate – tra cui appaiono Karl Lagerfeld, Baz Luhrmann, Naomi Campbell, Courtney Love e Bruce Weber solo per citarne alcune – compongono i tasselli di un puzzle che descrive a tutto tondo il direttore di VOGUE Italia. Nella pellicola, che sarà presentata in anteprima stasera, alla Mostra del Cinema di Venezia,  il fotografo e regista Francesco Carrozzini traccia un excursus che, oltre a rivelare Franca Sozzani come business woman e donna,  si addentra nella relazione madre-figlio evidenziandone la quintessenza. Il “Sozzani-pensiero” appare in tutto il suo fulgore: volitiva e votata al controllo, ma non per questo priva di una leggerezza che sdrammatizza la vita con rinfrescante ironia, Franca crede fermamente nella potenza dei sogni e attende un Principe Azzurro non ancora pervenuto. Anche se – con ogni probabilità – al suo arrivo sarà già proiettata verso nuove idee e nuovi lidi, incontro a quel futuro che persegue costantemente, capace di stravolgere, con la sua ingegnosità creativa, persino il fluir del tempo. Sempre intenta a creare, a scoprire, a lanciare, in perenne movimento: se come diceva Nietzsche “Bisogna avere un caos dentro di sè, per generare una stella danzante”, non poteva esistere titolo migliore (Franca. Chaos and creation) per descriverla in un docufilm che rappresenta, simultaneamente, un omaggio e un lascito. La dichiarazione d’amore da parte di un figlio che ha voluto regalare a sua madre il dono più bello: una testimonianza che celebra l’ audacia, l’ estro, la marcia in più di una “Signora della Moda” davvero speciale.

Photo by Studio NYC (Opera propria) [CC BY-SA 4.0 (http://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)], attraverso Wikimedia Commons

“MemoryCard” di Rita Vitali Rosati: quando il vissuto visivo si fa racconto

 

Rita Vitali Rosati

Dissacrante, visionaria, ironica, eclettica, acuta e sensibile osservatrice del suo tempo: una manciata di aggettivi che non basta a definire Rita Vitali Rosati, ma che tenta di condensarne la quintessenza. Nata a Milano, fabrianese di adozione, Rita è un’ artista che traduce in opere giocosamente trasgressive il suo personale “inventario” del reale. Pittura, fotografia e performance sono solo alcune delle modalità espressive di cui si avvale. A fare da leitmotiv, immagini che con attitude destabilizzante, ma pervasa di poesia intrinseca, riflettono lo sguardo dell’ artista sul mondo e sui suoi tic:  Rita si fa interprete in prima persona dei concetti che esplora, amplifica e ribalta continuamente le coordinate della propria visionarietà. “Mette una lente di ingrandimento sul formicolio sociale” – come recita la sua biografia ufficiale – scrutandolo con occhio ironico, a tratti con crudezza. Ma soprattutto, è sempre in grado di sorprenderci con la sua travolgente inventiva: stavolta lo fa con MemoryCard, progetto che racchiude in un inedito packaging in latta 50 cartoline associate ad altrettante immagini, 25 delle quali ospitano un breve racconto d’autore. Estrapolate dal vasto repertorio che l’ artista ha realizzato nel tempo, le foto condensano un vero e proprio vissuto visivo. Ho incontrato Rita per saperne di più su questo innovativo, singolarissimo photo-book.

MemoryCard è un mix eclettico di fotografia, design e scrittura dal forte impatto visivo. Come “racconteresti” quest’ opera?

Il raccontare dell’opera si evince scoprendo il fil rouge  che lega i testi alle immagini. Seguendo il proprio istinto che indica una corsia privilegiata unendo in una sintesi l’input dato dalle immagini, (che sono le domande) a quello dei testi, (che sono le risposte). O rovesciando il tutto, sorpresi dalla natura vicendevole dei soggetti.

Perché la scelta di un titolo ispirato alla scheda informatica che mantiene i dati in memoria?

E’ un titolo che parla dell’attualità, per vivere la contemporaneità.

Le “contaminazioni artistiche” sono oggi molto in voga. Su quali criteri ti sei basata per la scelta degli autori?

Non mi piace il termine “contaminazione”, nasconde una qualche patologia in atto. Prediligo l’espressione “duettare”, si anima di passione, di complicità, di armonie in divenire.

Qual è il link che fa da leitmotiv ai 50 scatti?

Il tema dell’assenza è l’idea trainante dell’intero progetto adottato per dare l’agio allo scrittore di colmare, senza eccessiva premeditazione, il vuoto indicato dalle immagini che, nelle sue declinazioni, sono lo scenario per le diverse interpretazioni degli autori che ne hanno fatto, così, un racconto.

Se dovessi descrivere il connubio tra immagine e racconto con un aggettivo, quale utilizzeresti?

Ho una particolare predilezione per gli ossimori, perciò le definirei “silenziosamente eloquenti”.

Come nasce l’ intuizione del pack in latta?

L’input creativo nasce da una sinergia: una corrente carica positivamente di indizi, di impulsi che hanno sede in un’area astratta, altra, quindi metafisica, si incontra con un ricevente che è già sintonizzato, perché istruito a plasmarlo  secondo il proprio istinto e la propria sensibilità. E la propria cultura.  Per deformarlo. Ecco, la mia scatola è una deformazione di un vuoto che è stato riempito.

“Che cos’è, detto sottovoce, la memoria?” si chiede Gordon Splash in un passaggio del suo racconto. Cosa gli risponderesti?

Ci deve essere un fantasma che riscrive i ricordi a volte al contrario percorrendo il vissuto con una luce particolare per darsi come testimonianza.

Calvino scrisse: “La fantasia è il burro, ma perchè sia produttiva bisogna spalmarla su una fetta di pane.” Qual è la tua “fetta di pane”?

Preferisco il Panettone (!).

 

 

 

Gli scrittori presenti nell’ opera sono: Laura Bosio, Enrico Capodaglio, Alessandro Catà, Filippo Davoli, Paolo Di Paolo, Angelo Ferracuti, Chicca Gagliardo, Bianca Garavelli, Roberta Lepri, Giuseppe Lupo, Gian Ruggero Manzoni, Angelo Mastrandrea, Marco Missiroli, Alessandro Moscè, Feliciano Paoli, Laura Pariani, Aurelio Picca, Silvio Ramat, Francesca Scotti, Fabio Scotto, Gordon Splash, Paolo Valesio, Gian Mario Villalta, Piergiorgio Viti, Alessandro Zaccuri.

MemoryCard, prodotto in esemplari di 500 pezzi editi da Hacca Edizioni, contiene inoltre alcuni gadget più un piccolo catalogo e gli interventi critici di Maria Letizia Paiato, Paola Paleari e Marcello Sparaventi.

Photo courtesy of Rita Vitali Rosati

Schield Jewels: a tu per tu con Roberto Ferlito

In questi giorni la stampa internazionale, sempre molto attenta ai look di Letizia Ortiz,  è rimasta letteralmente conquistata dagli orecchini che la Regina di Spagna ha sfoggiato durante la cerimonia di premiazione della Fondacion Consejo Espana-India: un grappolo di fiori smaltati di bianco e cosparsi di Swarovski che pende dal lobo sfiorando delicatamente il collo. Gli orecchini in questione sono firmati Schield, un brand che i lettori di VALIUM conoscono ormai bene. Direttore creativo del marchio fondato a Firenze nel 2012 è Roberto Ferlito, classe 1981, nato in Sicilia ma fiorentino d’adozione. Dopo il diploma al liceo artistico, Roberto prosegue gli studi a Milano prima di stabilirsi definitivamente nel capoluogo toscano,  dove esordisce come designer di accessori per brand del calibro di Vivienne Westwood e Roberto Cavalli. E’ durante il periodo trascorso alla corte del “Re dell’ Animalier” che ha il suo primo approccio con il gioiello: un coup de foudre sfociato, in breve tempo, nella creazione di una griffe che ingloba la luxury jewellery in un vero e proprio progetto con focus sul design, sulla fotografia e sul lifestyle. L’ incontro e il connubio con il fotografo Diego Diaz Marin sono stati, in questo senso, fondamentali. Insieme, Ferlito e Diaz Marin hanno dotato l’ universo Schield di un’ identità inconfondibile e dal forte impatto visivo: il design avantgarde di Roberto mixa originalità e inventiva con piglio graffiante, a tratti ironico, declinando il proprio estro visionario in creazioni ad alto tasso di savoir faire artigianale. La destinataria è una donna audace, priva di censure, eccentrica e sofisticata al tempo stesso: una donna che le advertising campaign di Diego Diaz Marin per Schield “raccontano” in immagini d’effetto.

Il successo riscosso da questo brand già divenuto iconico era inevitabile, rafforzato dal visual magazine Doubleview che ne diffonde il progetto a livello internazionale.  La nomina tra i finalisti della categoria “Accessori e Gioielli” di Who’s Next, l’ iniziativa di fashion scouting  lanciata da Altaroma e Vogue Italia, ha rappresentato un ulteriore, prestigioso step nella carriera di Roberto Ferlito: l’ ho incontrato per approfondire con lui l’ appassionante avventura di Schield.

Come nasce il tuo percorso di designer di gioielli?

Mi avvicino al mondo del gioiello quasi per caso, quando cominciai a lavorare per Roberto Cavalli 14 anni fa. Da lì una grande sorpresa mi porta ad appassionarmi fino a creare Schield.

A Firenze vivi, ma hai anche fissato il tuo headquarter. Quali sono i pro e i contro dell’ aver privilegiato una location che, pur prestigiosa,  si distanzia dal circuito delle capitali internazionali della moda?

Firenze è da sempre una città che mi ha dato molto, sia nel personale che nel lavoro. La distanza non mi spaventa anche perché è in un punto strategico, che ti permette di arrivare un po’ dappertutto. Il mio studio, creato insieme a Diego, è un luogo dover poter seguire serenamente i nostri progetti e il fatto di essere un po’ distanti dalle capitali della moda ci permette di creare senza nessun tipo di influenze.

Schield è un progetto che incorpora un mix esplosivo di estro e trasgressione. Quali input ha apportato, in questo senso, il tuo connubio creativo con Diego Diaz Marin?

Quando ho conosciuto Diego è scattata, da subito, una sintonia creativa molto simile che ci ha permesso di tracciare senza alcun dubbio la nostra strada creativa. In poco tempo ha permesso sia a Schield, che a Diego come fotografo, un forte impatto nel mondo della moda, dell’arte e delle celebrities.

Quanto è importante l’ aspetto visuale, oggi, al fine di veicolare l’ identità e il mood di un prodotto?

Soprattutto per Schield è importante perché con i nostri scatti, oltre a mostrare i gioielli siamo riusciti a creare un mondo che ha dato una personalità al brand.

Nei tuoi jewels risaltano il design innovativo, scintillanti Swarovski e colori vibranti che si sposano con l’ artigianalità più minuziosa. A quali spunti attinge la tua ispirazione?

E’ tutto casuale, qualunque cosa guardo può diventare un gioiello Schield.

Se dovessi tracciare un ritratto della “donna Schield”, come la descriveresti?

Decisa!

Esistono creazioni a cui sei particolarmente legato o contraddistinte da una speciale traiettoria creativa?

Uno dei pezzi che preferisco è la Fluide Necklace, un choker che viene realizzato come se il metallo stesse per sciogliersi.

Doubleview è il magazine che “racconta” il progetto Schield nella sua interezza. Posso chiederti qualche anticipazione sul prossimo numero della rivista?  

Doubleview è un progetto a sé, anche se viene realizzato nel nostro studio. Ha una propria personalità. L’ unica anticipazione che posso darti è che il prossimo numero uscirà a fine settembre e sarà un numero provocatorio molto più vicino all’ arte visiva che alla moda.

Cos’ ha rappresentato, per te, il traguardo di Who’s Next?

Una grande soddisfazione, sono contento di aver fatto parte di questo progetto!

 

 

Photo courtesy of Schield