La colazione di oggi: il mais, dalla civiltà Azteca ai nostri giorni

 

Si chiama mais, ma il suo nome scientifico è Zea Mays L. ed appartiene alla famiglia delle Graminacee. Cresce nei climi tropicali o temperati e in molte aree del globo, soprattutto in America Latina, costituisce l’alimento base dei pasti giornalieri: in Messico, dove affonda le sue radici, gli Aztechi lo elessero a ingrediente principale della loro cucina. Prende il nome dallo spagnolo “maiz”, ma è stato ribattezzato granturco – vale a dire “grano turco” – per conferirgli un tocco esotico e differenziarlo dal grano tenero. Come consumarlo a colazione? In svariati modi: sotto forma di torte, muffin, pannocchie alla griglia o arrostite, chicchi tostati, focacce di mais, corn flakes da mettere nel latte, popcorn… L’Autunno è la stagione migliore per gustarlo: la raccolta del mais avviene tra Agosto e Settembre, perciò rappresenta uno degli alimenti clou di questo periodo dell’ anno. Anche perchè è ricco di proprietà salutari; basti pensare che condivide la sua famiglia di appartenenza, le Graminacee, con cereali come l’ orzo, il riso, l’avena, il frumento e la segale, tutti alimenti decisamente benefici. Essendo una pianta monoica, il mais è composto da due distinte infiorescenze: quella femminile, conosciuta come “pannocchia”, in realtà è una spiga (botanicamente detta “spadice”) su cui sono fissate le cariossidi (ovvero i chicchi). Quella maschile è posizionata in cima al fusto e viene spesso indicata come “spiga” a causa del suo aspetto. La fecondazione ha luogo tramite il vento, che disperdendo il polline dà origine alle cariossidi; i chicchi del mais, fissati su un asso cilindrico centrale chiamato tutolo, hanno differenti colorazioni: la tipica tonalità giallo-arancione è dovuta alla produzione dei carotenoidi, mentre le antocianine determinano cromie che spaziano dal rosso al nero.

 

 

L’ appartenenza alle Graminacee e i semi abbondanti di amido rendono il mais un cereale a pieno titolo. Con il granturco si producono farine, olio, bevande alcoliche…è un alimento versatile e ottimo a livello nutrizionale. Innanzitutto, ha proprietà altamente energizzanti. Contiene macronutrienti come i carboidrati in gran quantità, fibre, minerali quali il potassio, il sodio, il calcio, il ferro, il magnesio, il selenio, vitamina A e vitamine del gruppo B in dosi massicce. Le virtù antiossidanti di molti dei suoi sali minerali, unite al betacarotene che l’organismo converte in vitamina A, contrastano i nefasti effetti dei radicali liberi prevenendo l’ invecchiamento cellulare e lo sviluppo di patologie neurologiche e tumorali. Anche l’acido ferulico contenuto nel mais svolge un’ efficace azione anticancro. Il granturco possiede poi spiccate virtù antinfiammatorie, regolarizza l’ intestino, è un buon antidiuretico e cicatrizzante. La presenza del ferro, unitamente a quella dell’ acido folico e delle vitamine del gruppo B, contribuisce a combattere l’anemia. Le antocianine che determinano la colorazione rossa, viola e nera del mais sono flavonoidi, quindi dei potenti antiossidanti: oltre a mettere KO i radicali liberi, svolgono un’azione protettiva nei confronti delle cellule, dei tessuti e di tutto l’organismo. I carboidrati forniscono energia, l’assenza di lipidi e colesterolo lo rendono un toccasana. Gli acidi fenolici calibrano il rilascio dell’ insulina e sono un valido aiuto per i diabetici. Il mais, inoltre, viene digerito molto facilmente. Essendo privo di glutine è un alimento perfetto per chi è affetto da celiachia; anche l’amido di mais, una farina detta maizena, risulta l’ideale per i celiaci e può sostituire la farina di grano. Il selenio contenuto nel granturco è benefico ad ampio spettro: protegge l’apparato cardiovascolare ed è un eccellente antiossidante, mentre l’acido folico è in grado di abbassare i livelli di colesterolo contrastando l’ arteriosclerosi e le patologie cardiache. Ultimo ma non ultimo, minerali quali il ferro e il fosforo sono efficacissimi per mantenere la mente e la memoria in costante allenamento.

 

 

Passiamo ora a qualche cenno sulla storia del mais. Il granturco vanta origini antichissime: nel Mesoamerica veniva coltivato da diversi millenni prima della nascita di Cristo. I Maya e gli Olmechi si dedicarono alla coltura di un gran numero di varietà, che dal 2500 a.C. in poi vennero diffuse nel continente americano. In Europa il mais arrivò nel 1493: era uno dei prodotti che Cristoforo Colombo portò con sè dopo aver scoperto l’America. Inizialmente fu coltivato soprattutto in Spagna, nella Francia del Sud, in Italia e nei Balcani, ma la massiccia espansione del cereale si verificò a partire dal 1700. A quell’ epoca, la crescita demografica e il proliferare delle carestie spinsero a considerare la coltivazione del mais più proficua rispetto a quella del miglio e dell’ orzo. Intorno alla metà del XVIII secolo, era già diventata la coltura principale. Nelle campagne la sua diffusione fu tale da tramurarsi nell’ alimento attorno al quale ruotava tutta la dieta. Ciò determinò conseguenze nefande: il popolo si nutriva esclusivamente di mais e di polenta (che si prepara con la farina del mais), ma diete di questo tipo, completamente prive di niacina assimilabile, causano una malattia chiamata pellagra. La pellagra continuò a imperversare fino ai primi anni del 1900 rimarcando quel grave deficit nutrizionale.

 

 

Ho già accennato a inizio articolo cosa potete preparare utilizzando il mais. Per la prima colazione il focus è sulla sua farina: con essa si realizza la polenta, ma anche il pane e innumerevoli tipologie di dolci, biscotti e dolcetti, addirittura delle speciali torte di polenta. Se volete celebrare le origini dell’ alimento, cercate in rete la ricetta del champurrado, la tipica cioccolata calda messicana. Oppure, sempre a colazione, potete degustare il granturco sotto forma di corn flakes, chicchi lessati o tostati da consumare da soli o insieme ad ogni genere di spuntino. Chi ama il salato a inizio giornata potrà concedersi dei tocchetti di pannocchia al forno insaporita di burro, sale e pepe: negli Stati Uniti, le pannocchie al burro sono la norma. Oggi si condiscono addirittura con il ketchup, la senape o la maionese; tutte idee che fanno gola, ma…attenzione a non esagerare!

 

 

 

 

La colazione di oggi: la melagrana, un frutto magico e portafortuna

 

La melagrana (e non il melograno, che è il nome della pianta) è un tipico frutto autunnale; matura a Ottobre ed ha un aspetto molto particolare. Il suo nome, composto dai termini latini “melum” (ovvero “mela”) e “granatum” (“con semi”), è indicativo: a vedersi sembra una mela, alla quale lo accomunano la forma sferica e il rosso intenso della buccia, ma in realtà è una bacca – chiamata Balausta – dalla texture dura e massiccia. Sul lato opposto a quello del picciolo presenta una protuberanza circolare molto solida che altri non è che una rimanenza del suo calice floreale. All’ interno, la melagrana è suddivisa in sezioni che straripano di semi (gli arilli); la membrana che separa gli scomparti porta il nome di cica. Il melograno, l’albero dal quale la melagrana matura, in botanica è denominato Punica Granatum, appartiene alla famiglia delle Punicaceae e al genere Punica. La pianta è originaria della Persia e attualmente viene coltivata in Iran, nell’ India settentrionale, nel Caucaso e nel Mediterraneo. Per le sue proprietà e per i benefici che apportano, la melagrana è considerata un frutto miracoloso, addirittura magico: possiede potenti virtù antiossidanti e c’è chi la ritiene efficacissima persino contro il cancro.

 

 

Ma quali sono i componenti che la rendono così salutare? Innanzitutto le vitamine, in particolare la vitamina e pro-vitamina A e la vitamina C: quest’ ultima svolge un’azione rafforzante sul sistema immunitario e protegge le cellule dai nefasti effetti dello stress ossidativo; impedendo la sintesi delle sostanze cancerogene, poi, pare che contrasti l’ insorgere dei tumori, soprattutto di quello allo stomaco. Gli arilli abbondano di acqua, zuccheri, fibre, proteine, lipidi e grassi insaturi, che riducono i livelli di colesterolo LDL (il cosiddetto “colesterolo cattivo”) a favore del colesterolo HDL (il “colesterolo buono”). La melagrana è inoltre ricca di minerali come il potassio, il sodio, il fosforo, il ferro e il magnesio. Le calorie sono piuttosto contenute, tra le 52 e le 60 per ogni 100 grammi. Di conseguenza, se non soffrite di patologie come il diabete o l’obesità, gustare il frutto non ha controindicazioni di sorta. La presenza di fibre lo rende ottimo contro la stipsi, il potassio modula la pressione sanguigna, l’acqua combatte la disidratazione e reintegra i liquidi persi, ad esempio, con un’ intensa attività sportiva.  Altri benefici della melagrana possono essere riassunti in questo elenco: ha proprietà antidiarroiche, vermifughe, gastroprotettive, diuretiche, antitrombotiche e vasoprotettrici grazie a  una massiccia presenza di flavonoidi. La spremuta e il liquore di melagrana sono bevande ideali per usufruire al meglio delle sue doti salutari, ma esistono pietanze a miriadi che prevedono l’ utilizzo del frutto.

 

 

Con la Balausta, tra l’altro, si prepara una deliziosa marmellata: è decisamente perfetta per la prima colazione. La melagrana può essere mangiata al naturale oppure usata per guarnire i dolci, le torte, le crostate e la macedonia. Innumerevoli sono anche le ricette destinate ai pasti principali (il risotto, l’insalata e l’anatra alla melagrana, tanto per citarne qualcuna), ma in linea con il tema di questa rubrica daremo spazio agli alimenti del mattino. Appena alzati potete arricchire di arilli lo yogurt, le meringhe, la panna cotta, il budino, il semifreddo, il pancake, i cupcakes… Versate del succo di melagrana nel sorbetto per renderlo ancora più dolce, oppure assaporate le golose gelatine e confetture ottenute con l’ eclettico frutto. Spalmatele sul pane, utilizzatele per farcire le crostate: la bontà è assicurata.

 

 

Sapevate che la melagrana è un frutto portafortuna? Svariate culture la associano all’ abbondanza, al benessere, alla ricchezza, sin dalla notte dei tempi. Ciò è in gran parte dovuto ai suoi numerosissimi chicchi, gli arilli, incredibilmente succosi. E rossi come il sangue, che simbolizza il vigore e l’energia. Il melograno, inoltre, cresce e matura con ogni tipo di clima senza disdegnare i terreni brulli: non necessita di una quantità d’acqua particolare e resiste alle intemperie stoicamente. Queste caratteristiche lo hanno reso quasi magico presso gli antichi popoli asiatici. Nella Bibbia, il melograno viene citato spesso. Rappresenta un emblema di fertilità, è un dono di Dio molto importante; persino artisti del calibro del Botticelli e di Leonardo Da Vinci lo inserirono frequentemente nelle loro opere. L’ ebraismo sostiene che i semi della melagrana e i comandamenti della Torah siano entrambi 613. In Turchia è usanza che le spose lancino a terra una melagrana di fronte alla casa coniugale: se i semi fuoriusciti sono parecchi, sarà di buon auspicio per le finanze della famiglia e per la futura prole. Sempre in Oriente, il frutto – grazie alla gran quantità di semi racchiusi nella membrana interna – è un emblema di fratellanza e solidarietà tra i popoli. Tornando in Occidente, notiamo che la valenza beneaugurale della melagrana si è imposta anche in Italia. Qui si è soliti gustarla a Capodanno perchè, al pari delle lenticchie, i suoi arilli simboleggiano il denaro e attirano la ricchezza. Regalare questo frutto, di conseguenza, è un gesto dalla potente valenza propiziatoria.

 

 

 

Il dolce autunno

 

Crostate, torte di mele e di zucca, cioccolato à-gogo, dessert guarniti con frutta secca e frutti di bosco… L’ autunno, complici anche le deliziose marmellate, è il paradiso dei dolci. Prendete spunto dalla gallery per organizzare un weekend goloso approfittando delle temperature scese a picco: soddisferete il palato e onorerete degnamente la nuova stagione.

 

 

 

La colazione di oggi: le bacche commestibili e le loro innumerevoli virtù

 

In Autunno il contatto con la natura si cerca prevalentemente nei boschi: è lì che ci si inoltra per ammirare gli incredibili colori del foliage, per raccogliere funghi, per purificarsi dal caos cittadino. Ma nei boschi si va anche in cerca di bacche, che nei mesi freddi ci conquistano con il caleidoscopio delle loro nuance. Preciso che sto parlando di bacche commestibili, che è imprescindibile saper identificare. Se non siete degli esperti di botanica, quindi, fate attenzione: correte il rischio di confonderle con quelle velenose o tossiche. Per scongiurare questo pericolo, vi consiglio di comprarle nei migliori supermercati o in specifici siti on line. Perchè, allora, un focus sulle bacche? Il motivo è molto semplice: sono buonissime, succose, particolarmente ricche di proprietà salutari. Con le bacche si guarniscono o farciscono i dolci, si preparano marmellate e liquori. Andiamo subito a scoprire le più utilizzate in cucina!

 

 

Le bacche di sambuco, sferiche e di un viola scurissimo, sono soffici e deliziose. Molto conosciute per le virtù lassative e diuretiche, è tassativo consumarle cotte allo scopo di azzerare la loro lieve tossicità. Mature al punto giusto, possono essere utilizzate per la preparazione di ghiotte marmellate; aggiungete mezza mela con la buccia, se volete renderle ancora più appetitose: risulteranno dense e irresistibili. Dal punto di vista del benessere, il sambuco è considerato un toccasana per le vie respiratorie: le sue foglie e i suoi fiori, sotto forma di infuso, sono ottimi per sconfiggere bronchiti e raffreddori.

 

 

Chi non conosce il biancospino? La sua nuvola di fiori candidi, le spine che si infittiscono sui suoi rami lo rendono inconfondibile. A inizio Autunno, i fiori si tramutano in una bacca color rosso vibrante amatissima dagli uccelli. Anticamente, la bacca di biancospino ha fornito sostentamento a svariate popolazioni: il suo valore nutrizionale è ragguardevole. Inoltre, essendo ricca di flavonoidi, possiede delle spiccate proprietà antiossidanti. Gli zuccheri naturali in essa contenuti fanno sì che sia un potente energizzante; non è un caso che venisse inclusa tra gli ingredienti della “pemmican”, una miscela alimentare tipica dei nativi americani. La bacca di biancospino è anche ottima per il benessere della circolazione e dell’ apparato cardiovascolare. Risulta l’ideale per guarnire i dolci e, come il sambuco, per preparare delle squisite marmellate.

 

 

Il ginepro è un sempreverde contraddistinto da una vertiginosa altezza (può sfiorare addirittura i 10 metri), dalle aghifoglie e da bacche che in Autunno assumono una sfumatura tra il blu e il viola. Grazie alla sua maestosità, non è raro che adorni i giardini e le aiuole dei parchi. La bacca di ginepro ha una particolarità: è completamente avvolta in una pellicola opaca detta pruina. Anche il suo sapore, simile a quello del gin, è senza dubbio singolare; si tratta inoltre di una bacca succosissima e molto dolce. Le doti di questo piccolo frutto, principalmente adoperato per aromatizzare gli alimenti, sono innumerevoli: migliora la digestione, contrasta il gonfiore allo stomaco, è un ottimo diuretico, purifica l’apparato urinario, possiede virtù antimicrobiche e antimicotiche. Essendo ricco di antiossidanti, neutralizza l’azione dei radicali liberi e stimola la rigenerazione cellulare. In cucina dona uno speciale sapore speziato al pane, alla carne e agli insaccati, mentre come bevanda  si utilizza per preparare il gin oltre che un gran numero di liquori e digestivi.

 

 

Le bacche del corniolo, tinte di un rosso profondo, hanno una forma ovoidale che ricorda quella delle olive. Per maturare impiegano sette mesi durante i quali assumono, l’uno dopo l’altro, diversi colori: dal verde iniziale passano al giallo, dal giallo all’ arancio, dall’ arancio a un rosso squillante per poi finire con il burgundy che indica la completa maturazione. Il gusto delle corniole è dolce e acidulo a un tempo, il grado di succosità molto alto. Le loro proprietà sono incalcolabili. Abbondano innanzitutto di vitamina C, un efficace antiossidante naturale che contribuisce a rafforzare il sistema immunitario e a contrastare i radicali liberi. La vitamina C è portentosa, inoltre, per combattere i dolori alle articolazioni e i disordini del metabolismo. La presenza dei tannini, potentemente astringenti e antinfiammatori, è un toccasana per i disturbi intestinali. In cucina, la bacca del corniolo è utilizzatissima: il suo inconfondibile sapore fa sì che venga impiegata sia per la preparazione di bevande che di alimenti. Vini, liquori, dolci, marmellate, salse e gelatine a base di corniola sono numerosissimi; degustate fresche, in più, queste bacche risultano particolarmente dissetanti.

 

 

Tra le bacche che apportano molteplici benefici figurano anche quelle dell’ aronia nera: sfoggiano un color ebano intenso e si riuniscono in folti grappoli. Tra i loro componenti principali risalta una quantità massiccia di antociani, dei flavonoidi dalla spiccata azione antiossidante, che contrastano l’ invecchiamento cellulare, lo stress ossidativo e le patologie cardiovascolari. La presenza dei polifenoli accentua queste proprietà e rende le bacche dell’aronia nera il frutto “antietà” per eccellenza. Un connubio di vitamine, fibre e sali minerali apporta ulteriori vantaggi. La vitamina C è ottima per mantenere in salute le ossa, i tessuti e rafforzare il sistema immunitario; la vitamina K ottimizza la coagulazione del sangue abbassando i livelli di colesterolo e combattendo l’aterosclerosi, con effetti benefici sulla pressione sanguigna; l’acido chinico contrasta le infezioni dell’ apparato urinario; il ferro garantisce l’ossigenazione delle cellule, mentre il potassio è un toccasana per il sistema cardiovascolare; le fibre favoriscono la digestione e regolarizzano l’ intestino. Pare che gli antociani, inoltre, svolgano un’efficace azione contro determinati tipi di tumori, ad esempio quello al colon. Con le bacche dell’ aronia nera si preparano sciroppi, bevande, marmellate, frullati, tisane, macedonie…a colazione si possono abbinare al latte, al muesli o ai cereali per iniziare la giornata in modo salutare, ma possono essere anche consumate al naturale: possiedono un altissimo valore nutrizionale.

 

 

 

 

La colazione di oggi: frutti esotici per sentirsi ai Tropici

 

L’ Italia è stata invasa dall’ ennesima ondata di calore. Di giorno e di notte le temperature sono bollenti, afose, impregnate di umidità. In una parola, tropicali. Perchè non provare, quindi, ad applicare questo aggettivo anche alla prima colazione? E’ un’ ottima chance per stuzzicare il palato e sperimentare nuovi sapori. La frutta tropicale, ad esempio, rappresenta un must irresistibile. Ci inebria con i suoi colori, ci travolge con il suo gusto insolito, ma non solo: è un’ autentica miniera di benessere ed energia. Anni fa ho viaggiato in America Latina e sono tornata con la mente a quegli aromi dolcissimi, inebrianti al punto tale da sedurti all’ istante. La frutta tropicale, tutta, abbonda di proprietà salutari. E non è difficile reperirla, possiamo trovarla in qualsiasi supermercato. Pensiamo solo all’ ananas, al cocco, all’ avocado, al kiwi, al mango, al platano, alla papaya, al maracujà, al passion fruit e così via. Come gustarli a colazione, oltre che nel ruolo abituale? In innumerevoli modi: sotto forma di macedonie, succhi e frullati, mousse, deliziose marmellate…Oppure tagliati a fettine con cui farcire i toast. C’è solo l’ imbarazzo della scelta. Per darvi un’idea dei benefici dei frutti esotici, mi soffermerò su tre di loro in particolare.

 

 

Cominciamo con l’ avocado. Originario del Messico e del Guatemala, ha la polpa verde o gialla e una forma allungata simile a quella della pera. Al centro risalta un grande seme che può raggiungere anche i 5 cm di diametro. Una curiosità. Gli Aztechi battezzarono l’avocado “ahuacatl”, ossia “testicolo”, proprio per la sua conformazione. L’ avocado è ipercalorico, a 100 grammi di frutto corrispondono 160 calorie, ma contiene una quantità esigua di zuccheri. In compenso è un ottimo antidoto per combattere il colesterolo: abbonda di acidi grassi monoinsaturi, i cosiddetti “grassi buoni”, nello specifico di acido linoleico e di omega 3; riducendo i livelli di colesterolo, contrasta le patologie cardiache e si rivela un toccasana per l’intero organismo. L’ avocado, grazie a potenti antiossidanti come la vitamina A e la vitamina E, neutralizza l’azione dei radicali liberi e ritarda l’ invecchiamento cellulare; la pelle si mantiene liscia, levigata e ben nutrita. Questo frutto tropicale, inoltre, tiene sotto controllo il metabolismo: è sufficiente gustarne uno per sentirsi sazi e allontanare la fame. Last but not least, all’ avocado vengono attribuite delle speciali doti afrodisiache. Provare per credere!

 

 

La papaya, che in Venezuela chiamano “lechosa”, è un frutto dalla forma oblunga e dalla polpa di un inconfondibile color arancio; in una cavità centrale racchiude semi grandi quanto chicchi di caffè. La polpa, ultra soffice, vanta un sapore delizioso e ricco di dolcezza. Originaria del Messico e del Brasile, la papaya è diffusissima negli habitat tropicali: in America Latina, nell’ America Centrale e nell’Asia del Pacifico viene massicciamente coltivata, ma è ormai reperibile in moltissimi paesi del mondo. In Europa, piantagioni di papaya sono presenti in Spagna – soprattutto nelle Isole Canarie – in Sicilia e sulle coste calabre, dove generalmente si coltiva in serra. Per sondarne i benefici basta citare i suoi componenti: acqua in dosi massicce, vitamina C, A, E e K, flavonoidi, fibre, carotenoidi, sali minerali…I vantaggi che apporta questo frutto sono incalcolabili, perciò non mi resta che sintetizzarli. E’ un potente antinfiammatorio e antibiotico naturale, in particolare un ottimo mucolitico. La papaina, un enzima che si estrae dalla papaya, possiede una spiccata azione digestiva, antimicrobica e antiossidante: favorisce (tra l’altro) il processo di cicatrizzazione, rallenta la ricrescita dei peli e regolarizza il ciclo mestruale. La vitamina C e le fibre sono degli efficaci antidoti contro il colesterolo “cattivo”; contenendo poi arginina, un aminoacido essenziale, la papaya contribuisce a mantenere in salute l’apparato cardiovascolare, stimola l’ ormone della crescita e svolge una funzione immunomodulante. Le maschere a base di papaya combattono l’acne e levigano il viso. Gli impacchi alla papaya sui capelli, invece, li rendono splendenti eliminando ogni traccia di forfora. In questa stagione dell’ anno, da questo miracoloso frutto esotico si ricavano anche dei validi doposole.

 

 

Il mango è un frutto succosissimo, dal gusto dolce e ammaliante. Lo caratterizza un sapore simile a quelli dell’arancia, dell’ ananas e della pesca mixati insieme. Originario dell’ Asia meridionale, è diventato il frutto dei Tropici per eccellenza; la forma ovale, la buccia rossa e il giallo oro della polpa sono i suoi tratti distintivi. Riassumendo i benefici del mango (proclamato frutto nazionale dell’ India, del Pakistan e delle Filippine), possono essere adoperate due definizioni: è nutriente e super energizzante. Approfondendo le sue proprietà, notiamo che è una bomba di vitamine. Contiene vitamina C, A, B, D, E, K, e possiede, quindi, spiccate doti antiossidanti; gli oligominerali di cui abbonda neutralizzano la stanchezza, reintegrando anche i sali minerali che perdiamo con l’ afa estiva; il mango è ricco di lupeolo, una sostanza che svolge una potente azione antinfiammatoria e, in primis, antitumorale; favorisce il benessere del cuore, della cute, dei denti e delle ossa; incentiva la memoria e contrasta l’ anemia, poichè contiene un’ elevata quantità di ferro; è un efficace antidoto contro l’ insonnia; regolarizza l’ intestino grazie alle sue proprietà lassative e diuretiche. Come l’avocado, ha la capacità di saziare immediatamente e di annullare lo stimolo della fame. Alla buccia del mango, dulcis in fundo, vengono attribuite virtù dimagranti e anticellulite.

 

La colazione di oggi: l’amarena, il frutto “luculliano”dell’ Estate

 

A prima vista sembrano ciliegie, ma ciliegie non sono. Delle ciliegie potrebbero essere sorelle, perchè appartengono alla stessa famiglia: quella delle Rosacee. Ma mentre le ciliegie sono i frutti del Prunus avium, le amarene (perchè è di loro che sto parlando) maturano dai fiori del Prunus cerasus. Si suppone che l’ amareno, anche detto ciliegio aspro, provenga dall’ Asia o dal Medio Oriente.  Quel che è certo è che il Prunus cerarus si adatta alla perfezione a qualsiasi clima e tipo di terreno, resistendo a lunghi periodi di siccità. Tornando alle differenze tra ciliegie e amarene, la più evidente riguarda il sapore: le ciliegie sono soffici, dolcissime, succose. Le amarene hanno una polpa più “tosta” e un gusto più aspro, tendente all’ amarognolo. Entrambe sfoggiano un bel rosso acceso e una forma tondeggiante, ma anche questi aspetti presentano delle diversità. La tonalità delle amarene è meno intensa rispetto a quella delle ciliegie, che vantano dimensioni maggiori rispetto alle loro “sorelle”. Il gusto leggermente amaro dei frutti del Prunus cerasus si deve all’ acido ossalico, contenuto in svariati alimenti. Lungi dal renderle sgradevoli, quel sapore è un punto di forza: non è un caso che il maraschino, liquore dall’ aroma inconfondibile, sia interamente ricavato dalla distillazione delle amarene. La versatilità di questi frutti, inoltre, fa sì che vengano inclusi in moltissime ricette. Sciroppate, danno vita a degli ottimi dessert; alcuni esempi? Torte come la celebre Foresta Nera, e poi cheesecake, panna cotta, biscotti, dolcetti, yogurt…Anche uno dei più acclamati gusti di gelato, l’amarena, si avvale di amarene sciroppate. Denocciolati, i frutti del Prunus cerasus possono essere utilizzati per guarnire un buon numero di dolci e di spuntini. Mangiati crudi (e preferibilmente freschissimi, perchè si seccano a tempo di record) non sono meno invitanti, magari – date le loro virtù energizzanti – per ritrovare un po’ di sprint. Con le amarene si preparano dei ghiotti sciroppi, liquori e marmellate. In alcuni paesi dell’ Europa dell’ Est si suole addirittura friggerle prima di inserirle in delizie quali un tipico strudel locale.

 

 

Veniamo ora alle proprietà delle amarene. Che sono molte! Innanzitutto, hanno il potere di sconfiggere l’ insonnia. Berle ogni notte sotto forma di succo (tassativamente da non zuccherare) incrementa la produzione di melatonina, regolarizzando il ciclo sonno-veglia con benefici istantanei per l’umore. Le amarene sono dei potenti antiossidanti naturali: i flavonoidi in esse contenuti combattono l’ invecchiamento delle cellule e rappresentano un toccasana per la circolazione del sangue. Essendo dei frutti diuretici, contrastano la ritenzione idrica favorendo l’ eliminazione delle tossine e il drenaggio dei liquidi in eccesso. Anche la stipsi può essere sconfitta grazie alle amarene: sono ricche di fibre, che purificano l’ intestino e ne garantiscono la regolarità. Questi frutti, vere e proprie miniere di potassio, rinvigoriscono la muscolatura e restituiscono energia; le vitamine A, B e C che racchiudono in dosi massicce accrescono i livelli di collagene con effetti benefici per la pelle e per la vista. Le amarene, infine, ottimizzano la formazione di acido urico nell’ organismo rimuovendone gli eccessi: ciò permette di scongiurare patologie come la gotta.

 

 

Per concludere, una teoria incentrata sulla misteriosa origine del ciliegio aspro. Si narra che l’ amareno giunse in Italia per merito di Lucio Licinio Lucullo, un generale romano che condusse campagne in Oriente tra il 70 e il 65 a.C. Grande stratega militare, raffinatissimo e amante del bello, Lucullo adorava i pasti sfarzosi (i celebri banchetti “luculliani”), e in Asia rimase colpito dal gusto amarognolo e dalle proprietà dei frutti del Prunus cerasus. In particolare, pare che apprezzasse le vitamine e le virtù energizzanti delle amarene: le fece quindi includere nel rancio dell’ esercito romano per rinvigorire i soldati. Secondo vari scritti dell’ epoca, Lucullo si impossessò di un esemplare di amareno a Cerasunte, colonia greca affacciata sul Mar Nero, e dopo averlo portato con sè a Roma lo trapiantò in uno dei suoi sontuosissimi giardini. Era il 65 a.C. circa. Attualmente non è raro che il Prunus cerasus cresca spontaneamente nella boscaglia; può farlo fino a 1000 metri di altezza. Una curiosità: il suo legno supera quello del ciliegio in quanto a pregiatezza e longevità.

 

 

Foto del gelato all’ amarena: Dirk Vorderstraße, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, via Wikimedia Commons

Preludio di Primavera (A Cottagecore Tale)

 

” L’inverno è nella mia testa ma una eterna primavera è nel mio cuore. “
(Victor Hugo)

 

Una donna, alcune donne, immortalate durante l’affascinante transizione tra Inverno e Primavera. La location? Nel cuore della natura, che esalta con la dovuta meraviglia la metamorfosi stagionale: dal candore della neve al verde dell’erba tenera, dalle distese di ghiaccio ai colori sorprendenti dei primi fiori. Sullo sfondo, un tipico cottage inglese. E’ l’ emblema dello stile “Cottagecore” (leggi questo post per saperne di più), che fa da fil rouge all’ intero racconto. Perchè di racconto si tratta, sebbene sia un racconto per immagini: una photostory suggestiva e coinvolgente. Ammirate ogni singolo scatto, godetevela dal primo fino all’ ultimo, e sappiate che ritroverete questa formula sempre più spesso su VALIUM: rappresenta una novità, una rubrica che ho deciso di inaugurare con il nuovo anno. Un anno che conferisce alle immagini un’ importanza cruciale e che concepisce il lifestyle come un perno attorno al quale ruota la quasi totalità dei settori. Buona visione!

 

Photo credits: Svetlana, Jasmin Chew, Yaroslav Shuraev, Anastasia Shuraeva, Nida, Gary Barnes, Saliha, via Pexels

Ella de Kross via Unsplash

La calza della Befana

 

” Ecco l’origine dell’uso di esporre le scarpe sulle finestre, la sera dell’Epifania, uso tradizionale nei bimbi. E’ certo che i signori Re magi, per venire da noi, hanno fatto un lunghissimo viaggio – e i viaggi sciupano le scarpe – quindi, è pur certo, che la migliore offerta che noi possiamo far loro, allorché passano da casa nostra, sia quella,… delle scarpe. Essi poi gentilmente contraccambiano l’offerta con qualche loro mercanzietta, dolci, giochi ecc…. e di ciò i bimbi li ringraziano cordialmente. “

Carlo Dossi, da “Note Azzurre”

 

Buona Epifania. Il termine, derivante dal greco antico, è composto da un incrocio tra il verbo “epifàino” e il sostantivo “epifàneia” (che significano rispettivamente “mi rendo manifesto” e “apparizione divina”), ed indica il momento in cui la divinità di Gesù Cristo si è palesata all’ umanità. La Cometa, con la sua luce suprema, l’ha annunciata al mondo: il suo splendore era tale che un trio di sapienti astrologi e sovrani, i Re Magi, decise di recarsi a Betlemme seguendo quella scia luminosa. I Magi provenivano da tre diversi continenti, l’Asia, l’Europa e l’Africa, e desideravano rendere omaggio a Gesù Bambino. Si chiamavano Gaspare, Melchiorre e Baldassarre. Avevano tratti somatici e colore della pelle tipici delle loro terre, tre età differenti: dettagli che simbolizzavano la gioia per la nascita del bambinello da parte di tutti i popoli e di ogni generazione. I Re Magi portavano con sè dei doni destinati a Gesù Cristo. Gaspare gli offrì l’incenso per celebrare la sua divinità, Baldassarre la mirra (utilizzata per i riti di imbalsamazione) poichè era un essere mortale, Melchiorre l’ oro, che inneggiava alla regalità e alla luce del Re dei Re.

 

 

Fu durante il viaggio dei Magi a Betlemme che, secondo una leggenda, entrò in scena la Befana. I tre Re chiesero informazioni sul tragitto a una vecchietta che incontrarono strada facendo, dopodichè la invitarono a unirsi a loro per far visita a Gesù Bambino. La donna rifiutò, ma se ne pentì subito dopo. Prese dunque un gran cesto e lo riempì di dolci, poi si avviò verso Betlemme in cerca dei Magi. Non riuscì a raggiungerli, così vagò di casa in casa regalando i suoi dolciumi ai bimbi con la segreta speranza di imbattersi nel piccolo Gesù. Ecco come nacque la figura della Befana, una vecchina che ogni 6 Gennaio dispensa doni ai bambini buoni. La classica calza che quella notte si appende al cammino, possiede un significato simbolico ben preciso. Alcuni la riconducono a una leggenda che vede protagonisti Numa Pompilio, secondo re di Roma, e la ninfa Egeria: quando arrivava il Solstizio d’Inverno, Numa Pompilio era solito far penzolare una calza dal tetto della grotta abitata da Egeria. Il giorno dopo gioiva nel trovarla ricolma di cibi e dolci, insieme alle profezie che la ninfa gli annunciava. Tra le usanze del 6 Gennaio, la calza è senz’altro la più celebre. Di solito veniva realizzata a maglia dalle mamme o dalle nonne per unire l’ utile al dilettevole, una buona protezione contro il freddo e un contenitore duttile che potesse riempirsi del maggior numero di regali possibile. I bambini appendevano le calze della Befana sotto la cappa del camino, poichè si pensava che la bonaria vecchina si calasse nelle case attraverso il comignoli (per saperne di più sulle origini della Befana, rileggi qui l’ articolo che ho pubblicato su Frau Holle, Berchta e Frigg). All’ alba del 6 Gennaio, la calza era piena di primizie tipicamente stagionali: arance, mele, frutta secca e mandarini inneggiavano al nuovo ciclo naturale ed avevano una valenza propiziatoria. Persino il carbone era un importante componente della calza, dato che richiamava i tradizionali falò del Solstizio d’Inverno. Con il tempo, tuttavia, il carbone si tramutò nel regalo che ricevevano i bambini cattivi, una sorta di castigo per il loro comportamento. Qualche decina di anni orsono, era comune trovare nelle calze – oltre alla frutta – torroncini, dolciumi, cioccolato a forma di moneta rivestito di carta stagnola. Il carbone, diventando carbon dolce, ammoniva scherzosamente i fanciulli più “scavezzacollo”.

 

 

Non tutti i bambini, però, avevano l’abitudine di appendere la calza al camino. La Befana viene rappresentata da sempre come un’ anziana signora non esattamente attenta al proprio look: calza scarpe logore, indossa abiti stracciati e i suoi capelli bianchi vedono il pettine molto di rado. Da qui l’ usanza di mettere un paio di scarpe nuove nel caminetto; la Befana le avrebbe prese con sè prima di lasciare i suoi doni, oppure le avrebbe riempite di regali e dolci. Calze o scarpe che fossero, l’atmosfera che aleggiava nelle notti d’Epifania della nostra infanzia è indimenticabile. Si restava svegli fino all’ alba cercando di “cogliere in flagrante” la Befana, e alle prime ore del mattino ci si precipitava a controllare i pacchi e i pacchetti ammucchiati nel camino. Ricordo che ero solita far trovare alla Befana un bicchiere di vino e un sacchetto di biscotti, cosicchè potesse rifocillarsi durante il suo peregrinare sui tetti. Cerchiamo di vivere appieno questa giornata e di ripristinarne la magia, perchè, come dice un proverbio, “L’ Epifania tutte le feste porta via”: è una triste realtà.

 

Immagini via Rawpixel

 

La colazione di oggi: il torrone, tra storia e leggenda

 

 

Il torrone è un altro cult natalizio che va tassativamente approfondito. Anche perchè pare che il suo consumo, durante le feste, raggiunga la ragguardevole proporzione del 74% rispetto agli altri dolci del periodo. Parlando di torrone, tuttavia, in molti tendono a soffermarsi solo sul suo alto contenuto calorico; ma questo alimento è anche estremamente ricco di proprietà e benefici. Innanzitutto, il torrone è una vera e propria miniera di proteine: basti pensare alle mandorle e alle uova che include tra i suoi ingredienti. Le mandorle sono dei potenti energizzanti e abbondano di minerali quali il potassio, il ferro e il magnesio. Ma non solo. Contribuiscono a diminuire i livelli del colesterolo LDL (il cosiddetto “colesterolo cattivo”) incrementando quelli degli antiossidanti, fondamentali nei contrastare i danni dei radicali liberi. La presenza dei carboidrati, degli acidi grassi essenziali e di sette amminoacidi essenziali costituisce un ulteriore punto di forza del torrone. Un gran numero di benefici si associa a tutte le versioni del dolce. Il torrone alle noci o alle nocciole, ad esempio, protegge dalle patologie cardiovascolari; il torrone al cioccolato, grazie alla massiccia presenza di polifenoli antiossidanti, svolge la stessa funzione limitando l’ ossidazione del colesterolo “cattivo”.

 

 

Va ricordato che il torrone viene preparato con uno squisito impasto di mandorle tostate, zucchero, miele e albume d’uovo; le differenti tipologie del dolce includono l’aggiunta di frutta secca come le noci, i pistacchi, le nocciole…Due, invece, sono le sue versioni classiche: il torrone bianco alle mandorle, friabile o duro, e quello alle nocciole, a base di cioccolato o cioccolato gianduia, solitamente dalla consistenza morbida. Esiste poi anche un mix dei due, il torrone bianco completamente ricoperto di cioccolato fondente. Il tasso di golosità, insomma, rimane inviariato. Non variano neppure i due strati di ostia applicati sopra e sotto il prodotto, un’ altra caratteristica di questo amatissimo dolce. Per godere appieno delle sue proprietà, l’ ideale sarebbe gustare un buon torrone artigianale: gli ingredienti naturali e l’assenza di prodotti chimici sono le sue principali virtù, un binomio che esalta le doti nutrienti dell’ alimento senza alterarne il gusto e mantenendolo salutare. Consumare il torrone a colazione è un ottimo modo per affrontare la giornata con una sferzata di energia, ma non esagerare nelle porzioni (una regola applicabile a tutti i dolci) rimane un must fondamentale. 

 

 

Ma qual è la storia del torrone? A quali leggende rimandano le sue origini? Tanto per cominciare, il nome “torrone” proviene dal latino “torrēre”, ovvero “abbrustolire”; questo verbo, com’è facilmente intuibile, si riferisce alla tostatura della frutta secca che troviamo tra i suoi ingredienti. Alcuni ipotizzano anche una derivazione dallo spagnolo “turròn”, da “turrar” che significa “arrostire”. Quel che è certo è che il torrone ha radici antichissime e che molte regioni italiane se lo contendono in qualità di “dolce tipico”. Il fatto che fosse diffuso in tutta la penisola ha dato adito alla tesi secondo cui gli antichi romani ne avessero divulgato la ricetta: in effetti, Marco Terenzio Varrone detto “Il Reatino” citò il “cuppedo” in uno dei suoi scritti  (e “cupeto” è il nome dato al torrone nella zona tra Benevento e Avellino) già nel 116 a.C.. Il letterato sosteneva che i creatori del dolce fossero i Sanniti, e che i Romani avessero appreso proprio durante le guerre sannitiche della sua esistenza; quella leccornia a base di miele, albume e semi oleosi li conquistò immediatamente. Il gastronomo Apicio, non a caso, descrisse un dolce romano chiamato “nucatum” poco tempo dopo. I suoi ingredienti? Miele, albume d’uovo e noci, una delle tipiche ricette del torrone odierno. Ma c’è chi sostiene che il torrone, in realtà, abbia radici arabe. A Baghdad e nella Spagna Islamica medievale, illustri studiosi solevano menzionare un dolce di frutta secca molto simile al torrone. Il celebre torrone siciliano potrebbe derivare da quel tipo di dolce, che senza dubbio approdò sull’ isola ai tempi del dominio arabo. Nei primi anni del 1100, Gherardo da Cremona tradusse il libro “De medicinis et cibis semplicibus” di Abenguefith Abdul Mutarrif, medico e farmacista ismaelita residente a Cordova. Nel libro si parlava del “turun”, un prelibato dessert arabo, e venivano lodate le proprietà del miele da cui era composto. In molti attribuiscono a Gherardo da Cremona il merito di aver reso celebre il torrone nell’ Italia del Nord, mentre secondo altri fu Giambonino da Cremona a scrivere per primo del dolce: quest’ ultimo era infatti descritto in due testi bagadesi che stava traducendo. Verosimilmente, però, colui che divulgò la ricetta del torrone nel settentrione fu Federico II di Svevia. L’ Imperatore aveva assimilato la cultura araba nella sua corte palermitana, e durante le lotte contro i Comuni dell’ Italia del Nord aveva stabilito il suo quartier generale a Cremona. La leggenda, invece, narra che il torrone giunse a Cremona in occasione delle nozze tra Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti. Era il 25 Ottobre del 1441, e i cuochi pensarono di omaggiare gli sposi con un delizioso dolce a base di mandorle, albume e miele che raffigurava il Torrazzo cremonese. Il dessert riscosse un successo tale da diventare una tipicità di Cremona; veniva impastato durante le feste e offerto in dono alle autorità che arrivavano in città. Testimonianze varie, tuttavia, fissano la nascita del torrone a una data anteriore al XV secolo: è quasi certo, quindi, che fu Federico II di Svevia a diffondere la ricetta. Tra i torroni più famosi d’Italia rientrano, oltre a quello di Cremona, la “cubbaita” di Caltanisetta, il torrone sardo di Tonara, il torrone prodotto tra Avellino e Benevento, il torrone tenero aquilano, il torrone di Bagnara Calabra IGP e il mandorlato di Cologna Veneta.

 

 

La colazione di oggi: il panettone, ghiottoneria natalizia da Milano al mondo

 

Latte, uova, burro, zucchero, vaniglia, canditi, uva sultanina…Il solo menzionare i suoi ingredienti evoca sentori di pura delizia: non è un caso che il panettone sia il dolce del Natale per eccellenza. Includerlo nella prima colazione è un’ idea perfetta, dato l’ alto apporto calorico che fornisce. Eh già, questo non si può negare: il panettone è una vera e propria bomba di calorie (circa 350 in 100 grammi). Ecco perchè è molto meglio gustarlo di mattina, piuttosto che a fine pasto. Affondare i denti nel suo impasto morbido, assaporando la dolcezza dei canditi e delle uvette, è un piacere che non conosce eguali. Un Natale senza panettone non può considerarsi veramente Natale: i due, insieme, compongono un binomio inscindibile. Ma quali sono le proprietà del tipico dolce milanese? Consumarlo comporta più benefici o controindicazioni? Cominciamo subito con gli alert, che riguardano soprattutto chi soffre di determinate patologie. Il panettone abbonda di lipidi, carboidrati, grassi saturi, peptidi, colesterolo. Di conseguenza, dovrebbe evitarlo chi è affetto da diabete o da ipercolesterolemia. A suo favore va invece detto che è ricco di proteine e di fibre, un elemento nutritivo importantissimo per il nostro organismo. La lunga lievitazione a cui viene sottoposto il dolce determina la presenza del glutine, mentre il burro e le creme che a volte lo farciscono contengono lattosio in quantità. Un altro punto di forza del panettone è costituito dalle vitamine: le molecole idrosolubili del gruppo B prevalgono, seguite dalla vitamina A e dalla vitamina D. Riguardo i sali minerali, il ferro trionfa grazie al tuorlo d’ uovo contenuto nel prodotto. Lo seguono a ruota il calcio e il fosforo.

Iniziare la giornata con una fetta di panettone e un buon caffè è una coccola che facciamo a noi stessi. La consistenza, il profumo, il sapore del “dolce del Natale” sono unici: la presenza del burro li esalta, favorendo inoltre una buona conservazione. Il panettone, se ci fate caso, rimane soffice e invitante per molti giorni. Ovviamente, va consumato con parsimonia. Ma le eccezioni alla regola sono previste, specie durante le feste natalizie. Anche perchè in altri periodi dell’ anno sarebbe improbabile farne incetta!

Le tradizioni e le leggende sul panettone hanno un denominatore comune: la matrice milanese. Tra le leggende che lo circondano, molte risalgono al Medioevo. Una di queste, ambientata a Milano, narra che il falconiere Messer Ulivo degli Atellani fosse innamorato della figlia di un fornaio, la bella Algisa. Per corteggiarla organizzò uno stratagemma: iniziò a lavorare come garzone nella bottega del padre e, con l’ intento di non passare inosservato, si inventò un dolce mai visto prima. L’ impasto era composto da burro, miele, uova e uva sultanina, un’ autentica squisitezza. Il dolce piacque talmente che il forno si affollò di nuovi clienti. Messer Ulivo ottenne la mano di Algisa e potè così coronare il suo sogno. Un’ altra leggenda viene associata alla corte di Ludovico il Moro. Il giorno di Natale, il Duca diede un pranzo a cui invitò numerosi ospiti. Ma dopo aver messo a cuocere il dolce, il cuoco disgraziatamente lo dimenticò nel forno. Quando lo tirò fuori era pressochè carbonizzato. Fu allora che a Toni, un giovane inserviente di cucina, balenò un’ idea: mostrò al cuoco un dessert che aveva preparato con degli ingredienti trovati in dispensa, e gli propose di servirlo in tavola. Il dolce a base di burro, uova, farina, scorza di cedro e uvette riscosse un successo incredibile tra i nobili ospiti di Ludovico Il Moro. Quando questi chiese al cuoco come si chiamasse quella leccornia, costui rispose “L’è ‘l pan del Toni”. Pare che il nome “panettone” derivi proprio da questa frase.

Secondo Pietro Verri, la nascita del panettone sarebbe datata addirittura al IX secolo: in “Storia di Milano” racconta che il giorno di Natale, nella città meneghina,  vigeva l’ usanza di consumare dei “pani grandi”. Al Natale veniva associata un’ ulteriore tradizione, stavolta risalente al XV secolo. I fornai, quel giorno, vendevano al popolo e agli aristocratici lo stesso tipo di pane. Durante l’ anno, infatti, esistevano un “pane dei poveri” e un “pane dei ricchi”. Il pane del Natale, detto “pan de ton” (da notare la somiglianza con il termine “panettone”), conteneva miele, burro e zibibbo, una pregiata varietà di uva. Nel 1599, “grandi pani” preparati con burro, spezie e uvetta comparivano nell’ archivio spese del Collegio Borromeo di Pavia. Il loro consumo era previsto per il pranzo di Natale. Tra il ‘700 e l‘800, a Milano venne incrementata l’ apertura dei forni e delle pasticcerie; nel XIX secolo il panettone era già un dolce pregiato e conosciutissimo. Con l’avvento dell’ industrializzazione, nel 1900 cominciò ad essere prodotto su vasta scala. Tuttavia, a Milano, la tradizione del panettone artigianale non venne mai meno. Fornai e pasticceri hanno sempre utilizzato la ricetta originale del dolce e a tutt’oggi continuano a prenderla come riferimento. Negli anni ’50 del XX secolo il panettone divenne uno dei prodotti di punta dell’ industria dolciaria. Esportato in tutto il mondo, nel 2005 la sua produzione è stata disciplinata da un decreto che determina le caratteristiche di un panettone affinchè possa essere definito tale.