Eve La Plume, eterea diva

Photo by Bostjan Tacol

Di lei colpiscono immediatamente l’ allure sofisticata, l’ incarnato diafano a contrasto con la chioma color rame. I fiori intrecciati tra i capelli pettinati a ondine richiamano la nuance vibrante del suo lipstick: lo stile è anni ’30 DOC, con incursioni ad ampio spettro nel rétro enfatizzate da abiti scenografici e preziosi. Eterea, fascinosa, garbatamente seduttiva, Eve La Plume è una Burlesque performer che si distanzia in toto dallo stereotipo della pin up. Al Summer Jamboree – dove, per il secondo anno consecutivo, è stata confermata conduttrice – ha sfoggiato creazioni di Luisa Beccaria con una grazia innata, donando risalto ad evening dress che erano un trionfo di pizzo e tulle. Fotografatissima, al Festival senigalliese Eve è ormai una diva. Ma non perde mai di vista l’ ironia, né un entusiasmo genuino, nel raccontarsi e nel raccontare passioni, tappe e progetti che tracciano il percorso della sua poliedrica carriera.

Sei al bis come presentatrice del Summer Jamboree. Qual è il tuo bilancio di queste due edizioni?

Rimango sempre sbalordita da questo Festival, organizzato da due persone che su un grande amore personale per gli anni ’50 hanno imbastito un evento meraviglioso che attira pubblico da tutto il mondo. Venire qui è per me, ogni volta, un’ iniezione di felicità. E’ davvero impressionante! Non si può essere tristi, al Summer Jamboree. Il mio bilancio, quindi, è superpositivo.

Puoi raccontarci qualche aneddoto relativo alla kermesse?

Al Summer Jamboree girano moltissimi fotografi, ufficiali e non. Il risultato è che si è fotografati a qualsiasi ora del giorno e della notte. Ci ho fatto l’abitudine, ma è impegnativo! Un giorno al mio fidanzato ho detto “Basta, oggi ci prendiamo una giornata liberatoria lontani dalle macchine fotografiche e dalle telecamere”, e siamo andati in spiaggia vicino alla Rotonda. Mi sono tolta il copricostume, mi sono slegata i capelli, sono entrata in acqua e ho sentito una signora che mi diceva ‘”Mi scusi signorina, la stanno chiamando da lassù!”: mi sono girata, ho guardato la Rotonda e ho visto tre teleobiettivi giganteschi, quattro macchine fotografiche, tutta l’organizzazione del Summer Jamboree  – che si trovava lì per caso, in realtà, ma vista Eve in acqua senza tutti i suoi artifici…Sono impazzita dal ridere, mi sentivo come le dive anni ‘50 paparazzate ovunque! E’ stato davvero comico. E gli scatti che ne son venuti fuori sono molto belli perché spontanei. Incredibile: persino in mezzo al mare sono riusciti a trovarmi!

Perché hai scelto di chiamarti Eve La Plume?

È una storia un po’ complicata, però posso semplificarla. Adoro il nome Eve perché è palindromo, cioè si legge anche al contrario. Ha tre lettere e a me piacciono i nomi brevi, e poi è il nome di una primadonna come Eva. “La Plume” perché fin da ragazzina mi hanno associata al concetto di leggerezza, quindi volevo un nome che contenesse un elemento leggero, delicato. In più, quando si pensa alla piuma, si pensa sempre alla piuma bianca, che svolazza. Nell’ immaginario collettivo la piuma è leggera e bianca. Dunque, Eve La Plume: un nome che è come una piccola poesia, molto fonetico.

Photo by Bostjan Tacol

Il tuo sofisticato stile d’antan è inconfondibile. Quali sono le tue epoche preferite?

Sono appassionata del periodo che va dalla fine dell’800 agli anni ’30 e ’40 del ‘900: il periodo della Belle Epoque, del Liberty, dell’ Art Déco. Di quell’ epoca amo l’estetica in toto: architettura, arredamento, abbigliamento…

Hai icone di riferimento a cui ti ispiri?

La Marchesa Luisa Casati è stata per me un innamoramento a prima vista, una folgorazione: era una donna coraggiosa, molto moderna, una performer di inizio ‘900. Con la cura, con lo studio, ha fatto di sé un’opera d’arte. Per un periodo mi è piaciuta Kiki de Montparnasse, una sorta di groupie di fine ‘800, e poi tante altre…Ammiro le donne audaci e “fuori dal loro tempo”, che hanno condotto una vita ben diversa rispetto a quella, costrittiva, delle donne dell’epoca.

Il Burlesque inneggia al glamour e all’ arte della seduzione. Che cos’è, per te, la femminilità?

Io non associo il Burlesque all’ arte della seduzione: per me è una ricerca estetica. Anche se, in generale, è sempre collegato alla sensualità femminile. Di sicuro la bellezza ha un suo lato sensuale. Il Burlesque va comunque alla ricerca di una bellezza del passato, dell’immagine di una donna che fu. Per me femminilità è la cura di sé, una cura estetica a 360° che comprende l’atteggiamento, la parola, il modo di muoversi, il modo di porsi…E’ questo che mi interessa. Perché oggi si guarda spesso a una bellezza molto più immediata e non alla cura che si costruisce nel tempo con i gesti, le parole, l’educazione.

Photo by Bostjan Tacol

Una domanda a bruciapelo: cosa voleva fare, da grande, Eve La Plume?

Da ragazzina, intorno agli 11 anni, volevo fare l’insegnante di pattinaggio artistico. Pattinavo tutti i giorni, era la mia missione di vita, e poi l’ ho fatto. Quando sono diventata più grande insegnavo pattinaggio artistico e mi sono resa conto che faceva così freddo, ma così freddo, che ho abbandonato l’ idea dopo 2- 3 anni! Poi volevo fare la stilista e quindi ho aperto un laboratorio di sartoria in cui si facevano abiti ed accessori per i negozi, per gli artisti che calcavano i palchi. E’ durata 10 anni. Infine, volevo diventare la regina del Burlesque! Ed è andata abbastanza bene, devo dire. Quando mi metto in testa di fare qualcosa, in qualche modo ci riesco. Non sempre con lo stesso successo, però i miei sogni li concretizzo. E riesco a non avere rimpianti.

Quali sono i tuoi progetti più immediati?

Tra i miei progetti più immediati di sicuro c’è “Ultimo Spettacolo”, uno spettacolo teatrale che gira l’ Italia da un paio d’anni e il 12 novembre prossimo sarà a Bologna: spero che decolli perché ne sono molto orgogliosa. E poi ci sarà Venezia, perché sono già 6-7 anni che faccio parte del cast del Ballo del Doge e di altri eventi del Carnevale Veneziano. In più,ho in programma tante date e feste private in giro per l’ Italia.

Photo by Bostjan Tacol (https://www.facebook.com/PhotobillyPhotography/)

L’ abito blu e l’ abito in pizzo bianco che Eve indossa sono firmati Luisa Beccaria

“Franca: chaos and creation”: a Venezia il docufilm che racconta il direttore di Vogue Italia

E’ la “Signora della Moda” per eccellenza: Franca Sozzani, dal 1988 al timone di VOGUE Italia,  ricopre anche i prestigiosi incarichi di direttore di L’ Uomo Vogue e direttore editoriale della Casa Editrice Condé Nast. Ma al di là delle vette professionali raggiunte (che la vedono, inoltre, alla guida di tutte le testate italiane “griffate” VOGUE), il suo ruolo di influencer si è affermato grazie ad un intuito sopraffino, al coinvolgimento in importanti topic sociali, ad una straordinaria  visionarietà. La rimessa in discussione dei canoni di bellezza, la lotta contro i disturbi alimentari, i celeberrimi Plastic Surgery e Black Issue hanno rivelato le doti pioneristiche ed il talento sovversivo di colei che ha saputo imporsi, a titolo definitivo, come la figura più iconica ed autorevole del fashion system. A “raccontarla”, oggi, è un docufilm d’eccezione: diretto dal figlio Francesco Carrozzini, in 78 minuti delinea un ritratto di Franca Sozzani accurato e disinvolto al tempo stesso. Frammenti di girato, superotto che immortalano squarci della sua infanzia e adolescenza, il tributo delle celebrities intervistate – tra cui appaiono Karl Lagerfeld, Baz Luhrmann, Naomi Campbell, Courtney Love e Bruce Weber solo per citarne alcune – compongono i tasselli di un puzzle che descrive a tutto tondo il direttore di VOGUE Italia. Nella pellicola, che sarà presentata in anteprima stasera, alla Mostra del Cinema di Venezia,  il fotografo e regista Francesco Carrozzini traccia un excursus che, oltre a rivelare Franca Sozzani come business woman e donna,  si addentra nella relazione madre-figlio evidenziandone la quintessenza. Il “Sozzani-pensiero” appare in tutto il suo fulgore: volitiva e votata al controllo, ma non per questo priva di una leggerezza che sdrammatizza la vita con rinfrescante ironia, Franca crede fermamente nella potenza dei sogni e attende un Principe Azzurro non ancora pervenuto. Anche se – con ogni probabilità – al suo arrivo sarà già proiettata verso nuove idee e nuovi lidi, incontro a quel futuro che persegue costantemente, capace di stravolgere, con la sua ingegnosità creativa, persino il fluir del tempo. Sempre intenta a creare, a scoprire, a lanciare, in perenne movimento: se come diceva Nietzsche “Bisogna avere un caos dentro di sè, per generare una stella danzante”, non poteva esistere titolo migliore (Franca. Chaos and creation) per descriverla in un docufilm che rappresenta, simultaneamente, un omaggio e un lascito. La dichiarazione d’amore da parte di un figlio che ha voluto regalare a sua madre il dono più bello: una testimonianza che celebra l’ audacia, l’ estro, la marcia in più di una “Signora della Moda” davvero speciale.

Photo by Studio NYC (Opera propria) [CC BY-SA 4.0 (http://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)], attraverso Wikimedia Commons

“MemoryCard” di Rita Vitali Rosati: quando il vissuto visivo si fa racconto

 

Rita Vitali Rosati

Dissacrante, visionaria, ironica, eclettica, acuta e sensibile osservatrice del suo tempo: una manciata di aggettivi che non basta a definire Rita Vitali Rosati, ma che tenta di condensarne la quintessenza. Nata a Milano, fabrianese di adozione, Rita è un’ artista che traduce in opere giocosamente trasgressive il suo personale “inventario” del reale. Pittura, fotografia e performance sono solo alcune delle modalità espressive di cui si avvale. A fare da leitmotiv, immagini che con attitude destabilizzante, ma pervasa di poesia intrinseca, riflettono lo sguardo dell’ artista sul mondo e sui suoi tic:  Rita si fa interprete in prima persona dei concetti che esplora, amplifica e ribalta continuamente le coordinate della propria visionarietà. “Mette una lente di ingrandimento sul formicolio sociale” – come recita la sua biografia ufficiale – scrutandolo con occhio ironico, a tratti con crudezza. Ma soprattutto, è sempre in grado di sorprenderci con la sua travolgente inventiva: stavolta lo fa con MemoryCard, progetto che racchiude in un inedito packaging in latta 50 cartoline associate ad altrettante immagini, 25 delle quali ospitano un breve racconto d’autore. Estrapolate dal vasto repertorio che l’ artista ha realizzato nel tempo, le foto condensano un vero e proprio vissuto visivo. Ho incontrato Rita per saperne di più su questo innovativo, singolarissimo photo-book.

MemoryCard è un mix eclettico di fotografia, design e scrittura dal forte impatto visivo. Come “racconteresti” quest’ opera?

Il raccontare dell’opera si evince scoprendo il fil rouge  che lega i testi alle immagini. Seguendo il proprio istinto che indica una corsia privilegiata unendo in una sintesi l’input dato dalle immagini, (che sono le domande) a quello dei testi, (che sono le risposte). O rovesciando il tutto, sorpresi dalla natura vicendevole dei soggetti.

Perché la scelta di un titolo ispirato alla scheda informatica che mantiene i dati in memoria?

E’ un titolo che parla dell’attualità, per vivere la contemporaneità.

Le “contaminazioni artistiche” sono oggi molto in voga. Su quali criteri ti sei basata per la scelta degli autori?

Non mi piace il termine “contaminazione”, nasconde una qualche patologia in atto. Prediligo l’espressione “duettare”, si anima di passione, di complicità, di armonie in divenire.

Qual è il link che fa da leitmotiv ai 50 scatti?

Il tema dell’assenza è l’idea trainante dell’intero progetto adottato per dare l’agio allo scrittore di colmare, senza eccessiva premeditazione, il vuoto indicato dalle immagini che, nelle sue declinazioni, sono lo scenario per le diverse interpretazioni degli autori che ne hanno fatto, così, un racconto.

Se dovessi descrivere il connubio tra immagine e racconto con un aggettivo, quale utilizzeresti?

Ho una particolare predilezione per gli ossimori, perciò le definirei “silenziosamente eloquenti”.

Come nasce l’ intuizione del pack in latta?

L’input creativo nasce da una sinergia: una corrente carica positivamente di indizi, di impulsi che hanno sede in un’area astratta, altra, quindi metafisica, si incontra con un ricevente che è già sintonizzato, perché istruito a plasmarlo  secondo il proprio istinto e la propria sensibilità. E la propria cultura.  Per deformarlo. Ecco, la mia scatola è una deformazione di un vuoto che è stato riempito.

“Che cos’è, detto sottovoce, la memoria?” si chiede Gordon Splash in un passaggio del suo racconto. Cosa gli risponderesti?

Ci deve essere un fantasma che riscrive i ricordi a volte al contrario percorrendo il vissuto con una luce particolare per darsi come testimonianza.

Calvino scrisse: “La fantasia è il burro, ma perchè sia produttiva bisogna spalmarla su una fetta di pane.” Qual è la tua “fetta di pane”?

Preferisco il Panettone (!).

 

 

 

Gli scrittori presenti nell’ opera sono: Laura Bosio, Enrico Capodaglio, Alessandro Catà, Filippo Davoli, Paolo Di Paolo, Angelo Ferracuti, Chicca Gagliardo, Bianca Garavelli, Roberta Lepri, Giuseppe Lupo, Gian Ruggero Manzoni, Angelo Mastrandrea, Marco Missiroli, Alessandro Moscè, Feliciano Paoli, Laura Pariani, Aurelio Picca, Silvio Ramat, Francesca Scotti, Fabio Scotto, Gordon Splash, Paolo Valesio, Gian Mario Villalta, Piergiorgio Viti, Alessandro Zaccuri.

MemoryCard, prodotto in esemplari di 500 pezzi editi da Hacca Edizioni, contiene inoltre alcuni gadget più un piccolo catalogo e gli interventi critici di Maria Letizia Paiato, Paola Paleari e Marcello Sparaventi.

Photo courtesy of Rita Vitali Rosati

Schield Jewels: a tu per tu con Roberto Ferlito

In questi giorni la stampa internazionale, sempre molto attenta ai look di Letizia Ortiz,  è rimasta letteralmente conquistata dagli orecchini che la Regina di Spagna ha sfoggiato durante la cerimonia di premiazione della Fondacion Consejo Espana-India: un grappolo di fiori smaltati di bianco e cosparsi di Swarovski che pende dal lobo sfiorando delicatamente il collo. Gli orecchini in questione sono firmati Schield, un brand che i lettori di VALIUM conoscono ormai bene. Direttore creativo del marchio fondato a Firenze nel 2012 è Roberto Ferlito, classe 1981, nato in Sicilia ma fiorentino d’adozione. Dopo il diploma al liceo artistico, Roberto prosegue gli studi a Milano prima di stabilirsi definitivamente nel capoluogo toscano,  dove esordisce come designer di accessori per brand del calibro di Vivienne Westwood e Roberto Cavalli. E’ durante il periodo trascorso alla corte del “Re dell’ Animalier” che ha il suo primo approccio con il gioiello: un coup de foudre sfociato, in breve tempo, nella creazione di una griffe che ingloba la luxury jewellery in un vero e proprio progetto con focus sul design, sulla fotografia e sul lifestyle. L’ incontro e il connubio con il fotografo Diego Diaz Marin sono stati, in questo senso, fondamentali. Insieme, Ferlito e Diaz Marin hanno dotato l’ universo Schield di un’ identità inconfondibile e dal forte impatto visivo: il design avantgarde di Roberto mixa originalità e inventiva con piglio graffiante, a tratti ironico, declinando il proprio estro visionario in creazioni ad alto tasso di savoir faire artigianale. La destinataria è una donna audace, priva di censure, eccentrica e sofisticata al tempo stesso: una donna che le advertising campaign di Diego Diaz Marin per Schield “raccontano” in immagini d’effetto.

Il successo riscosso da questo brand già divenuto iconico era inevitabile, rafforzato dal visual magazine Doubleview che ne diffonde il progetto a livello internazionale.  La nomina tra i finalisti della categoria “Accessori e Gioielli” di Who’s Next, l’ iniziativa di fashion scouting  lanciata da Altaroma e Vogue Italia, ha rappresentato un ulteriore, prestigioso step nella carriera di Roberto Ferlito: l’ ho incontrato per approfondire con lui l’ appassionante avventura di Schield.

Come nasce il tuo percorso di designer di gioielli?

Mi avvicino al mondo del gioiello quasi per caso, quando cominciai a lavorare per Roberto Cavalli 14 anni fa. Da lì una grande sorpresa mi porta ad appassionarmi fino a creare Schield.

A Firenze vivi, ma hai anche fissato il tuo headquarter. Quali sono i pro e i contro dell’ aver privilegiato una location che, pur prestigiosa,  si distanzia dal circuito delle capitali internazionali della moda?

Firenze è da sempre una città che mi ha dato molto, sia nel personale che nel lavoro. La distanza non mi spaventa anche perché è in un punto strategico, che ti permette di arrivare un po’ dappertutto. Il mio studio, creato insieme a Diego, è un luogo dover poter seguire serenamente i nostri progetti e il fatto di essere un po’ distanti dalle capitali della moda ci permette di creare senza nessun tipo di influenze.

Schield è un progetto che incorpora un mix esplosivo di estro e trasgressione. Quali input ha apportato, in questo senso, il tuo connubio creativo con Diego Diaz Marin?

Quando ho conosciuto Diego è scattata, da subito, una sintonia creativa molto simile che ci ha permesso di tracciare senza alcun dubbio la nostra strada creativa. In poco tempo ha permesso sia a Schield, che a Diego come fotografo, un forte impatto nel mondo della moda, dell’arte e delle celebrities.

Quanto è importante l’ aspetto visuale, oggi, al fine di veicolare l’ identità e il mood di un prodotto?

Soprattutto per Schield è importante perché con i nostri scatti, oltre a mostrare i gioielli siamo riusciti a creare un mondo che ha dato una personalità al brand.

Nei tuoi jewels risaltano il design innovativo, scintillanti Swarovski e colori vibranti che si sposano con l’ artigianalità più minuziosa. A quali spunti attinge la tua ispirazione?

E’ tutto casuale, qualunque cosa guardo può diventare un gioiello Schield.

Se dovessi tracciare un ritratto della “donna Schield”, come la descriveresti?

Decisa!

Esistono creazioni a cui sei particolarmente legato o contraddistinte da una speciale traiettoria creativa?

Uno dei pezzi che preferisco è la Fluide Necklace, un choker che viene realizzato come se il metallo stesse per sciogliersi.

Doubleview è il magazine che “racconta” il progetto Schield nella sua interezza. Posso chiederti qualche anticipazione sul prossimo numero della rivista?  

Doubleview è un progetto a sé, anche se viene realizzato nel nostro studio. Ha una propria personalità. L’ unica anticipazione che posso darti è che il prossimo numero uscirà a fine settembre e sarà un numero provocatorio molto più vicino all’ arte visiva che alla moda.

Cos’ ha rappresentato, per te, il traguardo di Who’s Next?

Una grande soddisfazione, sono contento di aver fatto parte di questo progetto!

 

 

Photo courtesy of Schield

Michael Putland, il fotografo delle leggende del Rock

Il libro-catalogo THE ROLLING STONES BY PUTLAND (ed. LullaBit)

 

Dalla A degli Abba alla Z di (Frank) Zappa: difficile individuare chi non sia stato immortalato da Michael Putland, in un ipotetico “alfabeto del Rock”. Classe 1947, inglese, Putland debutta come assistente fotografo quando è appena un teen. Apre il suo primo studio fotografico nel 1969, anno di transizione che vede sfumare gli Swingin’ Sixties nell’ era hippy e delle più graffianti Rock band. E’ allora che il link tra Michael Putland e la music scene si salda, indistruttibile, per tutti gli anni a venire. Il ruolo di fotografo ufficiale che ricopre per Disc & Music Echo, un magazine di musica britannico, è in questo senso fondamentale: proprio grazie alla rivista ha un primo approccio con Mick Jagger, che nel 1973 segue in tour inaugurando un pluriennale sodalizio con i Rolling Stones. Nel frattempo, prosegue indefessa la sua collaborazione con la stampa musicale e con major discografiche come CBS, Columbia Records, Warner, Polydor e EMI, per le quali ritrae le star di un’epoca straordinaria in quanto a innovazione e a fermento creativo. Nel 1977 si trasferisce a New York dove fonda Retna, agenzia fotografica rimasta attiva per quasi trent’anni. I soggetti principali del suo portfolio sono gli eroi della music scene: dagli Stones a Bowie passando per Prince, Eric Clapton, Tina Turner, Joni Mitchell e Marc Bolan – solo per citarne alcuni – Putland immortala personaggi annoverati nella music history per carisma e genialità. Ai suoi scatti vengono dedicate mostre, come l’ importante retrospettiva che la Getty Gallery di Londra ha organizzato per il suo 50mo di carriera o quelle, tutte italiane, con cui ONO Arte ha reso omaggio al suo archivio su David Bowie e sui Rolling Stones. Ed è proprio in occasione di It’s only rock’n roll (but I like it), la mostra che fino al 23 Luglio sarà visitabile nella galleria d’arte bolognese, che ho avuto il privilegio e l’ onore di scambiare quattro chiacchiere con Putland. Il libro-catalogo THE ROLLING STONES BY PUTLAND rappresenta una chicca aggiuntiva dell’ esposizione: edito da LullaBit, raccoglie oltre 200 scatti in cui il grande fotografo ha immortalato i Rolling on e off stage. Una splendida opportunità per approfondire l’ opera di Putland e per immergersi nel mood che animava (e che anima) una vera e propria leggenda del Rock.

Ha scattato la prima foto a soli 9 anni. Quale ‘molla’ ha innescato il colpo di fulmine con la fotografia?

Sì, è stato davvero un colpo di fulmine tra me e la fotografia. Ma la mia influenza principale è stato mio zio, che vedeva che questa passione stava nascendo in me e mi aiutò molto a coltivarla. Lui aveva un macchina fotografica tedesca, una Voigtländer 35 mm, e da lì partì tutto. Ho ancora una collezione di macchine fotografiche appartenute alla mia famiglia, quella di mia nonna ad esempio, con cui di fatto scattai la mia prima fotografia! Mia nonna, in seguito, mi regalò una delle prime macchine con rullino: una Kodak Crystal.

Si dice che lei abbia fotografato tutte le rockstar al top dagli anni ’70 in poi. Ha mai coltivato velleità musicali?

In realtà mi sarebbe piaciuto ma non ero per nulla portato, nonostante mia nonna – quella della macchina fotografica – fosse una pianista abbastanza famosa ai suoi tempi.

Michael Putland

Tra gli innumerevoli artisti che ha immortalato spicca David Bowie. Che ricordo ha di lui e quali atout, a suo parere, lo hanno tramutato in un’icona?

La prima volta che vidi Ziggy pensai che fosse eccezionale e diverso. Tutto quel periodo era straordinario, e l’aspetto androgino di Bowie era qualcosa che non si era mai visto. Credo che quello che lo abbia davvero reso un’icona – a parte la sua musica incredibile, perché non scordiamoci che la musica era incredibile – sia stata la sua capacità di reinventarsi costantemente. Anche il suo ultimo lavoro prima di morire, Lazarus, è stato davvero un capolavoro di citazioni e innovazioni al tempo stesso.

Il bianco e nero è un leit-motiv di tutta la sua opera. Perché?

Ovviamente sono cresciuto con il bianco e nero, e anche quando le pellicole a colori divennero disponibili, nessuno se le poteva davvero permettere – e a pensarci bene non ho mai conosciuto nessuno che ai tempi le usasse! Il mio occhio è abituato a leggere il mondo a due colori, anche quando scatto ora.

┬®Michael Putland, Mick & Keith live, Wembley 1973

La sua collaborazione con i Rolling Stones ha avuto inizio nei primissimi anni ’70. Che tipo di feeling si è instaurato tra lei e la band?

Quello che posso dire è che ci trattavamo con estremo rispetto reciproco e fiducia, ognuno del lavoro dell’altro. Il nostro rapporto era più che altro professionale, fatto di gesti e pose più che di parole, soprattutto in confronto al rapporto che avevo con altri artisti. E forse questa è sempre stata una delle cose che ho amato di più.

Nei suoi scatti, la quintessenza degli Stones si esprime al meglio nella dimensione del tour. Come se lo spiega?

Uno dei talenti che ho in assoluto come fotografo, se posso dirlo, è quello di stabilire un rapporto con il soggetto che ritraggo. La band si sentiva a proprio agio  con me e quindi ero in grado di cogliere la loro vera essenza – non un’immagine posata – che sul palco, ovviamente, era all’ennesima potenza. Oggi quando scatto in digitale ho ancora questa capacità, infatti edito pochissimo le mie foto. In realtà, se devo essere onesto, preferisco fotografare chiunque non sul palco: le restrizioni e le difficoltà tecniche sono folli. Ma con gli Stones era una simbiosi di musica e performance che sapeva trascinarti via. Per quello, essere con loro on stage era incredibile.

Bowie, 1976. The Thin White Duke

Esistono foto, tra quelle in mostra, che associa a ricordi o ad aneddoti particolari?

Senza ombra di dubbio la foto che scattai a Bob Marley, Peter Tosh e Mick Jagger al Palladium Theatre di New York. Il contrasto tra il viso di Mick esausto dalla performance sul palco è così bianco e quello di Peter Tosh così sorridente e scuro, al contempo: mi  hanno regalato uno dei miei scatti di maggior successo.

Il libro fotografico ROLLING STONES by PUTLAND è presentato in una doppia copertina raffigurante Mick Jagger e Keith Richards. Chi dei due subisce maggiormente il fascino dell’obiettivo?

Mick è sicuramente più naturale davanti all’obiettivo, ma al tempo stesso se Keith sorridesse e fosse a suo agio non sarebbe più lui. In realtà in questi ultimi anni è sempre più sorridente, lui stesso non si riconosce più – dice. In fondo, è un nonno anche lui!

Photo courtesy ONO Arte

“It’s only Rock’n Roll (but I like it)”: a Bologna una mostra dedicata ai Rolling Stones

©Iconic Images/Terry O’Neill

 

It’s only Rock’n Roll (but I like it): la celeberrima hit-manifesto dei Rolling Stones da oggi è anche il titolo di una mostra fotografica con cui, dal 16 giugno, ONO Arte Contemporanea omaggerà la leggendaria band. In esposizione, gli scatti di due prestigiosi fotografi della music scene come Terry O’ Neill e Michael Putland, che immortalano una carriera consolidata in piena Swingin’ London ed esplosa definitivamente nel decennio dei Settanta. E’ trascorso mezzo secolo da quando il TIME coniò l’ aggettivo che descriveva una Londra “dondolante”, frizzante, capitale assoluta dello “youthquake” citato da Diana Vreeland, quella stessa Swingin’ London che vede Terry O’ Neill muovere i primi passi come fotografo: nato nell’ East End, O’ Neill è un batterista jazz che sogna di volare negli USA e di unirsi alle più famose band. Per mantenersi scatta per la British Airways e diventa un fotoreporter, ma la sua passione per la musica non tarda a emergere ed è il primo a immortalare i Beatles nello studio di Abbey Road. Ben presto, però, la sua attenzione viene catturata da una band che in quegli anni inizia a spopolare, i Rolling Stones: il look del gruppo non è poi così diverso da quello dei Fab Four, ma musicalmente risalta un elemento “graffiante” e intriso di rimandi al rhythm and blues che li contraddistinguerà a titolo perenne. Le prime foto di O’Neill ritraggono la formazione di esordio della band – Mick Jagger, Keith Richards, Charlie Watts, Bill Wyman e l’ indimenticato Brian Jones – per le strade di Londra, ancora alla ricerca di uno stile estetico identificativo, anticipando l’ evoluzione che li tramuterà in trasgressive rockstar anche nel modo di mostrarsi al pubblico.

 

 

©Iconic Images/Terry O’Neill

 

Il nuovo status coincide con una mutazione nel look che Michael Putland immortala egregiamente, congelando su pellicola una vera e propria svolta storica del gruppo.

 

 

©Michael Putland

 

Putland, fotografo ufficiale della band dai primi anni Settanta, è presente sul set del video di It’s only Rock ‘n Roll (but I like it) e documenta costantemente le performance live degli Stones. Ed è proprio nella dimensione del tour che si alimenta e si consacra il loro mito, rendendoli a tutt’ oggi esplosive leggende del rock: il ruolo privilegiato di Michel Putland fa sì che ci fornisca un dettagliato resoconto fotografico che, oltre alle esibizioni sul palco, include i backstage, gli studio recordings e i party che hanno descritto a tutto tondo un’ era. Queste immagini – unitamente a quelle in mostra – appaiono nel libro che ONO Arte cura per LullaBit, ROLLING STONES by PUTLAND. Il volume sarà nelle librerie a Settembre, ma verrà presentato in anteprima in galleria: i fan dei Rolling e di Michael Putland, infatti, il 18 Giugno (dalle ore 16) potranno farsi autografare copie del libro dal grande fotografo in persona. Un save the date decisamente da non perdere. Perchè sarà anche “only Rock’n Roll”…But We like it!

©Michael Putland

La mostra (16 Giugno – 23 Luglio), allestita a Bologna presso ONO Arte Contemporanea in via S. Margherita 10, è patrocinata dal Comune di Bologna ed è composta da circa 50 immagini in diversi formati.

Il catalogo ROLLING STONES by PUTLAND, edito da LullaBit, è il secondo titolo della collana realizzata in collaborazione con ONO Arte.

Rolling Stones cover

Photo courtesy of ONO Arte

“David Bowie. Il mito da Ziggy Stardust a Let’s dance” in mostra al Mantova Outlet Village

©Michael Putland

 

La collaborazione tra Mantova Outlet Village e ONO Arte Contemporanea prosegue con successo. Dopo il boom di presenze registrato dalla mostra Frida Kahlo. Fotografie di Leo Matitz, l’ Outlet Village di proprietà del Gruppo Blackstone e la galleria d’arte bolognese hanno in programma un nuovo, entusiasmante evento: l’ esposizione David Bowie. Il mito da Ziggy Stardust a Let’s Dance riassume infatti, in un percorso di 30 scatti, l’ ascesa di un artista divenuto una vera e propria icona globale. Saranno le foto di Michael Putland e il lavoro grafico di Terry Pastor ad illustrare la carriera di Bowie in quattro sezioni cruciali. La prima sezione, incentrata su un servizio realizzato nel 1972 da Putland nella residenza bowiana di Haddon Hall, racconta il periodo antecedente al clamoroso exploit di Ziggy Stardust e all’ uscita dell’ album The rise and fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars. Non a caso sono proprio le opere di Terry Pastor, autore dell’ artwork del disco e di Honky Dory, a completare questa tranche iniziale. La seconda sezione si concentra sulla “metamorfosi” di Bowie in The Thin White Duke. E’ è il 1976 e Station to station ha appena visto la luce, seguito da un lungo tour promozionale in Europa e negli Stati Uniti: Michael Putland ne immortala le tappe europee in una serie di celebri scatti live. Gli anni ’80 coincidono per Bowie con il successo commerciale di Let’s Dance, un momento di enorme popolarità che la terza sezione celebra attraverso i ritratti sorridenti scattati da Putland al divo del rock tra palco e backstage. A concludere la mostra, una quarta sezione dedicata alle foto del concerto-tributo a Freddie Mercury del 1992. Bowie viene ritratto on stage al Wembley Stadium, mentre omaggia il leader dei Queen in una storica performance insieme ad Annie Lennox: istanti memorabili che l’ obiettivo di Michael Putland coglie con un’ intensità senza pari, realizzando primi piani che annovera tra i suoi scatti più riusciti.

L’ esposizione, curata da ONO Arte Contemporanea, sarà introdotta da Daniela Sogliani del Centro Internazionale d’Arte e di Cultura di Palazzo Te domenica 29 Maggio alle 17.30.

©Michael Putland

Michael Putland ha iniziato la sua carriera fotografica alla fine degli anni ’60. Fotografo ufficiale dei Rolling Stones dal 1973, da allora ad oggi ha ritratto l’ élite musicale e culturale della scena anglosassone: John Lennon, Bob Marley, Madonna e Tony Blair sono solo alcuni dei personaggi immortalati dal suo obiettivo. Suoi scatti sono esposti nella grande mostra Exhibitionism che la Galleria Saatchi di Londra dedica ai Rolling Stones. Ed è sempre con gli Stones che Putland è attualmente impegnato nella realizzazione di un libro che racconterà, per immagini, l’ intera carriera della band.

©Michael Putland

 ©Michael Putland

©Michael Putland

David Bowie. Il mito da Ziggy Stardust a Let’s Dance.

Dal 29 Maggio al 17 Luglio 2016

c/o Mantova Outlet Village

Via Marco Biagi

Bagnolo San Vito (MN)

Per info e orari: 0376/25041

info@mantovaoutlet.it

www.mantovaoutlet.it

 

Photo courtesy of ONO Arte

Bet She Can: un nuovo concetto di empowerment pre-teen

I Barbie Awards hanno prepotentemente portato alla ribalta la sua progettualità innovativa: Bet She Can, fondazione che mira a sostenere tramite percorsi motivazionali e di empowerment le pre-adolescenti provenienti da qualsiasi contesto economico, religioso e sociale, si è subito imposta tra le più interessanti realtà legate al non profit. La fondatrice Marie-Madeleine Gianni approfondisce con noi gli input, i punti cardine e gli obiettivi di un’ iniziativa che si propone, come fine ultimo, che “le bambine sboccino in donne serene, coraggiose e soprattutto libere.”

Come e quando nasce Bet She Can?

Nel gennaio 2015. E’ una start up non profit fondata da me e dalle due consigliere che mi supportano in questa avventura, Giovanna Leto di Priolo e Laura Arena: ho sempre voluto fare qualcosa per provare a cambiare questa nostra società e ho pensato che le giuste referenti fossero le bambine tra gli 8 e i 12 anni. La fondazione è unica nel suo genere perché il fatto di approcciare con una logica di puro investimento, non di prevenzione né di risoluzione di problemi, un pubblico così giovane, è una cosa nuova per il nostro Paese.  12 anni è un età massima perché poi si entra nelle turbe dell’adolescenza e il rapporto con l’ esterno, in particolare con il mondo adulto, si fa meno diretto e trasparente.

Quanto incidono, sulle giovanissime, gli stereotipi che ruotano attorno alla figura femminile?

Viviamo in una società che, anche se si rende conto che siamo immersi negli stereotipi, li subisce ogni giorno. Facciamo fatica a decodificarli e a far filtro, soprattutto i bambini e le bambine che non hanno gli strumenti per cogliere le distorsioni veicolate da certi messaggi dei media, delle famiglie, delle scuole, della società in generale. Il nostro intento è cercare di far sì che le bambine siano fondamentalmente libere di fare le proprie scelte e di mettere in discussione queste imposizioni stereotipate.

Su quali basi poggia l’ empowerment delle nuove generazioni?

Sicuramente sulla consapevolezza di chi sono e chi posso diventare. Abbiamo suddiviso i nostri percorsi in 5 filoni- corpo, mente, contesto,  avvicinare le bambine alle tecnologie e ai mestieri etichettati come maschili –  che veicolano due concetti base: la conoscenza delle proprie potenzialità e il coraggio di tirarle fuori. E’ importante far capire a queste bambine che hanno una personalità e caratteristiche che permettono di fare tante cose, che il mondo è pieno di opportunità. Però bisogna tirar fuori la grinta, il coraggio e la determinazione. Gli errori fanno parte del percorso, mettersi in gioco è assolutamente essenziale.

Nell’ era dei social, le competenze tecnologiche delle native digitali possono contribuire ad azzerare gli standard legati al genere?

I mezzi sono sicuramente innovativi, ma comunicando sempre gli stessi modelli perdono il loro potenziale. Una frase di Michelangelo rende l’ idea: “Ho visto un angelo nel marmo ed ho scolpito fino a liberarlo”: devo avere un’ immagine di dove devo arrivare. Il fatto di avere di fronte una Samantha Cristoforetti, una Margherita Hack, una Rita Levi Montalcini fa sì che le bambine abbiano dei riferimenti in carne ed ossa in cui immedesimarsi. Ecco, mi piacerebbe che gli strumenti a loro disposizione comunicassero anche questi esempi.

Esiste una professione a cui oggi le bambine maggiormente ambiscono anche in virtù dei modelli proposti da media e web?

In questa fascia di età le risposte sono molto personali, legate a passioni e a interessi individuali che poi si perdono perché la pressione mediatica della società e dell’ entourage si fanno più forti. Non me la sento, quindi, di segnalare trend o macrocategorie: posso solo dire che le bambine non dovrebbero mai perdere la passione che le guida.

Attraverso i Barbie Awards, Bet She Can ha diffuso una nuova percezione della bambola Mattel: una donna volitiva che realizza i propri sogni di bambina.  Cosa pensi delle ultimissime Barbie “realistiche”?

Una Barbie, per ogni bambina, è sempre la possibilità di immedesimarsi in un personaggio e vivere straordinarie avventure con l’ immaginazione. Il fatto che fosse alta e bionda non l’ ho mai percepito come un limite: per la mia Barbie inventavo storie che duravano ore, era una specie di avatar. Se oggi è disponibile in varie forme, bene: ma non mi sembra essenziale.

Quali sono i progetti più immediati della vostra fondazione?

Abbiamo appena lanciato un bellissimo progetto a Roma, “Cambiamo gioco”, finanziato da Mattel Italy e in collaborazione con la cooperativa sociale Be Free. E’ partito oggi, il 16 aprile, e promuove l’ importanza della solidarietà e del confronto positivo con gli altri: un tema che riteniamo importantissimo in particolare per le bambine. Fino a novembre effettueremo 10 incontri su base quindicinale. Proprio perché il fil rouge è la solidarietà, prevediamo la possibilità di innestare piccoli percorsi in ciascun municipio con una bambina-ambasciatrice. È un progetto al quale tengo moltissimo, realizzato grazie alla concessione dal prefetto Tronca e con il patrocinio del Comune di Roma.

Nelle foto, Marie-Madeleine Gianni all’ evento dei Barbie Awards

Photo credits Magia2000

Photo courtesy of Marie-Madeleine Gianni/Bet She Can

“Doubleview” diventa internazionale

 

La sua è un’ impronta artistica inconfondibile: colori vibranti, netti, decisi, che mettono in risalto un mood irriverente e profuso di ironia. Il cielo azzurro del Mediterraneo riaffiora come un flashback, delineando il leitmotiv di scenari potentemente radicati nell’ immaginario. E poi, ancora, il rosso, il fucsia, il blu elettrico, il giallo, l’acquamarina, alternati in cromatismi vividi e di estremo impatto: spagnolo di Torre del Mar, il ventinovenne Diego Diaz Marin ha interiorizzato i panorami della sua infanzia traducendoli in assoluti input visivi. Come fashion photographer si impone in Italia, spaziando dalle advertising campaign per marchi del calibro di Roberto Cavalli, Aquazzura, Luisaviaroma, Liu Jo – solo per citarne alcuni – a shooting graffianti e sottilmente provocatori. Dal 2012 affianca il designer Roberto Ferlito nel concept di Schield, jewellery brand con base a Firenze per cui realizza campagne pubblicitarie ad alto tasso di originalità creativa. Le protagoniste sui generis fanno da fil rouge a tutta la sua fotografia: drama queen ossessionate dai sogni e da desideri di evasione, eccentriche eroine di una quotidianità che sconfina di continuo nel surrealismo onirico. Donne che sembrano appena uscite da una pellicola di Almodovar, “raccontate” da Diego nell’ incredibile contrasto tra le azioni improbabili e un’ eleganza innata. I suoi shooting sotto forma di photofilm si prestano molto, in tal senso: ogni singolo fotogramma è il tassello di una storia, parte integrante di un percorso che include un inizio e un culmine. Questo storytelling per immagini rappresenta anche il leitmotiv di Schield, progetto ad ampio spettro che cala la creazione di jewels in un effervescente mix di design, moda e fotografia rinsaldando il sodalizio creativo tra Ferlito e Diaz Marin. E’ da questa intuizione che è nato Doubleview, visual book  che si addentra nell’ universo artistico del fotografo andaluso esplorandolo nelle molteplici sfaccettature: prodotto da Finger Coast Studios, la società che il duo di Schield ha fondato a Firenze, Doubleview è un “compendium” in cui coté fashion e concettualità si intersecano con un risultato esplosivo, evidenziando il genio inventivo di Diaz Marin e degli special guest che di volta in volta appaiono nel magazine. A un esordio on line è seguita l’ edizione cartacea, appena lanciata a livello internazionale. Da ora in poi, Doubleview farà capolino nei newsstand di (quasi) tutto il mondo: dall’ America al Giappone. E’ proprio Diego Diaz Marin ad approfondire con noi questa nuova avventura.

 

Il lancio internazionale di Doubleview è appena partito. Su quali Paesi avete puntato, per il debutto?

Al momento Doubleview è appena uscito negli Stati Uniti, in Belgio, Gran Bretagna, Olanda, Francia, Spagna, Canada, Italia, Portogallo, GermaniaAustralia e Giappone.

Dove verrà distribuito esattamente?

Prevalentemente nei concept store, nelle edicole e nelle librerie specializzate.

Il visual book include contributi da parte di numerosi special guest. Cosa ci racconti, al riguardo?

Per questo primo numero abbiamo collaborato soprattutto con Schield e con Pamela Costantini, una grande amica che mi ha spinto a creare questo progetto ed è attualmente una shoe designer da Givenchy. Abbiamo realizzato un editoriale con Vivetta ed altri, diciamo così, più “indipendenti”. A cui tengo molto perché attraverso questi shooting posso esprimere la mia arte in modo “puro”, scattandoli nel mio Paese con persone che da sempre mi ispirano. Infatti, per la seconda uscita, il numero sarà scattato al 50% in Spagna. Per quanto riguarda le illustrazioni, Gianpaolo Infante ha contribuito con un editoriale ispirato alle televendite degli anni ‘80.

 

Lo spazio dedicato alla fotografia continuerà a rappresentare la quasi totalità della rivista o prevedi evoluzioni?

No, voglio che lo spazio sia totalmente visivo. Gli editoriali dei prossimi mesi racconteranno delle storie, ma solo per immagini. E’ questa la filosofia della rivista.

Come definiresti il tuo stile fotografico?

Non saprei definirlo: posso solo dirti che la fotografia è per me qualcosa di viscerale, mi esce “da dentro”. Il mio lavoro non è impostato, è intuitivo, nasce da sè. Se dovessi trovare una definizione, direi “cinematografico”. Ogni foto è come il fotogramma di un film.

 

Il fashion world ti appassiona sin da bambino. Com’ è nata questa fascinazione?

Da bambino, quando lavoravo nel campeggio dei miei genitori, vedevo la pubblicità di Roberto Cavalli e sognavo… Anni dopo, quando mi sono ritrovato a casa sua per una campagna pubblicitaria, appena ho finito mi sono messo a piangere perché avevo realizzato un sogno che mi sembrava irraggiungibile. Sono stato sempre molto attratto, come ipnotizzato dal mondo della moda. Da Cavalli, ho iniziato con la campagna accessori Psychotic love. Oggi, se devo essere sincero, dalla moda sono un po’ annoiato. Nel senso che preferisco mantenere la fotografia “pura”, infatti il secondo numero di Doubleview sarà molto più incentrato sul “concetto” e meno sulla “moda”. Ossia: la moda sarà presente perché il look delle modelle verrà accuratamente studiato, ma sarà molto più “anonima”. Perché secondo me oggi c’è tanto, troppo sfruttamento del marketing. Vorrei che la fotografia rimanesse qualcosa di più concettuale: che fosse l’ immagine ad essere protagonista, non un brand.

Photo courtesy of Diego Diaz Marin

 

 

 

“Frida Kahlo. Fotografie di Leo Matitz” inaugura al Mantova Outlet Village

©Eva Alejandra Matiz and “The Leo Matiz Foundation”

 

“Dipingo me stessa perchè passo molto tempo da sola e sono il soggetto che conosco meglio”: una frase che ben condensa un leitmotiv della sua produzione artistica. L’ autoritratto ha sempre rappresentato, per Frida Kahlo, uno strumento di connessione tra la propria interiorità e il mondo esterno. Dipingere se stessa davanti allo specchio, dapprima condizione obbligata a causa del grave incidente che la immobilizzò per anni a letto, si tramutò in un rituale che coadiuvava la pittrice messicana nella ricerca della sua essenza più profonda. L’ intensità del volto, le sopracciglia folte, le trecce e i fiori con cui adornava il capo l’ hanno resa iconica, associando gli indizi di una personalità fortissima ai colori sgargianti del folkore della sua terra natale. Un mix così potente che non poteva esimersi, a sua volta, dall’ essere immortalato: così fece Leo Matitz, fotoreporter colombiano legato a Frida da un’ amicizia pluriennale. Nato nell’ incantata Macondo descritta da Gabriel Garcìa Màrquez, Matitz ha ritratto la storica moglie di Diego Rivera in una serie di scatti realizzati a Coyoacan, il quartiere in cui la pittrice vide la luce a Città del Messico. E oltre ad una Frida penetrante è proprio quello stesso Messico a emergere in quelle foto, scenario assolato e in pieno fermento post-rivoluzione: prorompente per incisività figurativa, lo sguardo spesso rivolto lontano come a sondare nuovi orizzonti di speranza, l’ artista affronta l’ obiettivo con piglio vibrante. Oggi queste immagini sono raccolte in una mostra che Mantova Outlet Village, in collaborazione con ONO Arte e la Fondazione Leo Matitz, si accinge a inaugurare. A partire dal 28 Marzo e fino al 15 Maggio saranno visionabili, infatti, 25 foto di Matitz in diversi formati che hanno Frida Kahlo come protagonista: un tributo ad una vera e propria figura leggendaria del suo tempo, che di un talento vivido e di una vitalità combattiva ha fatto la propria bandiera.

“Frida Kahlo. Fotografie di Leo Matitz” – Opening ore 17,30

c/o MANTOVA OUTLET VILLAGE

Via Marco Biagi

Bagnolo San Vito (MN)

Per info e orari: (0736) 25041 – info@mantovaoutlet.it – www.mantovaoutlet.it

©Eva Alejandra Matiz and “The Leo Matiz Foundation”

©Eva Alejandra Matiz and “The Leo Matiz Foundation”

Photo courtesy ONO Arte