La cocenza dell’ amore

 

” Era la primavera, secondo le favole antiche, la stagione de’ rinnovati o comincianti amori: e anche questa è leggenda. Gli uomini, più insaziabili delle bestie, non hanno più, e forse non hanno mai avuto, una sola stagione per la cocenza dell’amore. E semmai l’hanno trasferita all’incandescente estate: già l’antichissimo Esiodo aveva notato che nell’agosto son più lascive le donne. Ma tutti i mesi, per l’uomo, sono ugualmente propizi, tanto più che l’amore entusiasmo, l’amore passione, l’amore pazzia, ai quali si riferivano i poeti e i trattati di Eros, vanno velocemente scomparendo dagli animi e dai costumi dei nostri popoli inciviliti fino all’imbecillità e oltre. “

 

Giovanni Papini, da “La spia del mondo”

 

 

 

 

 

Un’ infinita varietà di blu

 

” Dal cielo al mare, era un’infinita varietà di blu. Per il turista, quello che viene dal nord, dall’est o dall’ovest, il blu è sempre blu. Solo dopo, quando ci si sofferma a guardare il cielo e il mare, ad accarezzare con gli occhi il paesaggio, se ne scoprono altre tonalità: il blu grigio, il blu notte e il blu mare, il blu scuro, il blu lavanda. O il blu melanzana, nelle sere di temporale. Il blu verde. Il blu rame del tramonto, prima del mistral. O quel blu così pallido, quasi bianco. “

 

Jean-Claude Izzo, da “Chourmo. Il cuore di Marsiglia”

 

 

 

 

 

Il deserto e il pozzo nascosto

 

” Era stanco. Si sedette. Mi sedetti accanto a lui. E dopo un silenzio disse ancora: ” Le stelle sono belle per un fiore che non si vede…” Risposi: “Già,” e guardai, senza parlare, le pieghe della sabbia sotto la luna. “Il deserto è bello,” soggiunse. Ed era vero. Mi è sempre piaciuto il deserto. Ci si siede su una duna di sabbia. Non si vede nulla. Non si sente nulla. E tuttavia qualche cosa risplende in silenzio…”Ciò che abbellisce il deserto,” disse il piccolo principe, “è che nasconde un pozzo in qualche luogo…” Fui sorpreso di capire d’un tratto quella misteriosa irradiazione della sabbia. Quando ero piccolo abitavo in una casa antica, e la leggenda raccontava che c’era un tesoro nascosto. Naturalmente nessuno ha mai potuto scoprirlo, ne forse l’ha mai cercato. Eppure incantava tutta la casa. La mia casa nascondeva un segreto nel fondo del suo cuore… “Sì, ” dissi al piccolo principe, “che si tratti di una casa, delle stelle o del deserto, quello che fa la loro bellezza è invisibile.” “Sono contento,” disse il piccolo principe, “che tu sia d’accordo con la mia volpe.” Incominciava ad addormentarsi, io lo presi tra le braccia e mi rimisi in cammino. Ero commosso. Mi sembrava di portare un fragile tesoro. (…) E siccome le sue labbra semiaperte abbozzavano un mezzo sorriso mi dissi ancora: ” Ecco ciò che mi commuove di più in questo piccolo principe addormentato: è la sua fedeltà a un fiore, è l’immagine di una rosa che risplende in lui come la fiamma di una lampada, anche quando dorme…” E lo pensavo ancora più fragile. Bisogna ben proteggere le lampade: un colpo di vento le può spegnere…E così, camminando, scoprii il pozzo al levar del sole. “

 

Antoine de Saint-Exupéry, da “Il Piccolo Principe”

 

 

 

 

La bella estate

 

” A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e traversare la strada, per diventare come matte, e tutto era cosí bello, specialmente di notte, che tornando stanche morte speravamo ancora che qualcosa succedesse, che scoppiasse un incendio, che in casa nascesse un bambino, e magari venisse giorno all’improvviso e tutta la gente uscisse in strada e si potesse continuare a camminare fino ai prati e fin dietro le colline. – Siete sane, siete giovani, – dicevano, – siete ragazze, non avete pensieri, si capisce –. Eppure una di loro, quella Tina che era uscita zoppa dall’ospedale e in casa non aveva da mangiare, anche lei rideva per niente, e una sera, trottando dietro gli altri, si era fermata e si era messa a piangere perché dormire era una stupidaggine e rubava tempo all’allegria. “

 

Cesare Pavese, da “La bella estate”

 

 

 

 

 

Acqua

 

” Una paziente attesa non ti si addice. Vedo che nella tua personalità c’è molta acqua. L’acqua non aspetta mai. Cambia forma e scorre attorno alle cose, trovando sentieri segreti a cui nessun altro ha pensato: un pertugio nel tetto o un piccolo buco in fondo a una scatola. Senza alcun dubbio è il più versatile dei cinque elementi. Può dilavare la terra, spegnere il fuoco, far arrugginire un pezzo di metallo e consumarlo. Persino il legno, che è il suo complemento naturale, non può sopravvivere se non viene nutrito dall’acqua. “

 

Arthur Golden, da “Memorie di una Geisha”

 

 

 

 

 

Adèle H.

 

” Come potrei spiegare cosa accade in me da qualche tempo? Talvolta ho delle violente aspirazioni verso il grande ideale, una morte pura e grandiosa, altre volte verso una vita dolcemente fastosa, dove ho solamente Auguste. Talvolta sono una vita bruciata, ardente, violenta, viva, nella quale via via Clésinger, Delacroix, Arnould si susseguono, come amanti, nella quale mi vedono come la figlia di Victor Hugo, giovane, bella, radiosa, alla moda, supremamente intelligente, supremamente bella, radiosa, supremamente civetta, che schiaccia con tutto il suo splendore le sue rivali, passate, presenti e future; intellettuale, grande musicista, applicando e facendo applicare i miei paradossi, vivendo tutte le vite, la vita dell’ amore, la vita del mondo. Ma ahimè altre volte rimpiango anche il passato, la mia purezza, la bellezza della mia anima, il mio primo amore, le mie prime emozioni, l’organo, Place-Royale, Villequier, il suo bel giardino al chiaro di luna nel 1846 (già sei anni fa), Auguste e l’estasi dei nostri primi baci, quando amante e grandiosa sacrificavo la mia serenità alla sua felicità. (…) L’ amore è Spirito e Materia. Non do il mio corpo senza la mia anima, né la mia anima senza il mio corpo. L’ uno è imprescindibile dall’ altra. “

 

Adèle Hugo

da “Pazza d’Amore”, a cura di Manuela Maddamma

     

Nella foto: Isabelle Adjani nel film “L’ Histoire d’Adèle H.” (1975) di François Truffaut. Immagine via deepskyobject from Flickr, CC BY-SA 2.0

 

Il fiabesco universo di Paolo Domeniconi

Gli Auguri di Buone Feste di Paolo Domeniconi

VALIUM ha celebrato molto spesso le atmosfere che impregnano le festività natalizie. La voglia di fiaba, di magia, di un ritorno all’ infanzia per riscoprire la meraviglia delle cose, sono il fil rouge di settimane che ogni anno si concludono con l’arrivo della Befana. E il tema della fiaba torna anche oggi, di certo senza risultare ridondante: le illustrazioni che vedete qui di seguito ne sono una prova. Si tratta di un bestiario incantato, dalle dimensioni enormi, calato in paesaggi onirici e fatati. Neve, stelle, fitti boschi, ninfee galleggianti predominano, facendo da sfondo a quei giganteschi animali e ai bambini che li affiancano di frequente. E’ questo, il poetico universo di Paolo Domeniconi. Un universo fatto di immagini che tutto il mondo conosce e apprezza: basta osservare il numero delle loro condivisioni sui social. Sono gli anni ’90 quando Domeniconi debutta nella pubblicità: si occupa di campagne, packaging e grafica. Successivamente, rimane conquistato dalla letteratura per l’ infanzia e comincia ad illustrare le fiabe più celebri. A tutt’oggi oltre 40 libri – senza contare le raccolte di fiabe, i volumi scolastici e le copertine – includono le sue iconiche illustrazioni; vanta collaborazioni con case editrici del calibro di Grimm Press, Mondadori, Houghton Mifflin Harcourt, The Creative Company (solo per citarne alcune), e i suoi lavori sono presenti, oltre che in Italia, in paesi come  gli Stati Uniti, la Spagna, il Regno Unito, la Cina, la Corea e Taiwan. Per saperne di più sull’ immaginario sognante e fantastico di Paolo Domeniconi, ho pensato di rivolgergli alcune domande.

Cominciamo dai suoi studi. Si è focalizzato sin dall’ inizio sul mondo della grafica e dell’illustrazione?

Quando mi sono trovato a dover scegliere un indirizzo di studi non ero ancora in grado di fare la scelta giusta. Ho passato un anno piuttosto spaesato in un istituto tecnico. Non ci ho messo tanto a rendermi conto di essere fuori strada e sono quindi ripartito da zero in un istituto d’arte.

 

Paolo Domeniconi circondato da alcuni dei libri che ha illustrato

Com’è nata questa sua passione?

Inizia nell’infanzia, è un approccio alle cose che mi ha sempre portato a fare stranezze rispetto alla maggior parte dei miei coetanei, a vivere in un mondo a parte, in un certo senso. A 10 anni passavo ore a fare disegni animati e stop-motion col vecchio 8mm, hackeravo cineprese, pellicole, organi elettronici, un armamentario di strumenti creativi che oggi un bambino può trovare in un tablet. Col tempo mi sono sempre più focalizzato sul disegno cominciando a vagheggiare, chissà in che modo, che un giorno potesse diventare il mio lavoro.

 

 

Nei primi anni ’90 si è dedicato alla pubblicità e al visual merchandising, occupandosi anche di stampe e di packaging. Quanto è determinante, a suo parere, la comunicazione visiva di un prodotto e in che percentuale riesce ad orientare i gusti del pubblico?

L’immagine è tutto. Il “pubblico” mi sembra piuttosto acritico nei confronti della comunicazione ma devo ammettere che ormai questi temi mi appassionano poco.

 

 

Esistono dei motivi grafici che a quell’ epoca prediligeva utilizzare?

Il mio era comunque un lavoro da illustratore o da visualizer. Si lavorava tanto sul packaging di prodotti alimentari e si trattava di rendere accattivanti le immagini del prodotto, la fragranza di una merendina come la freschezza di uno yogurt alle fragole. Photoshop era ancora poco usato e toccava a noi illustratori trovare il lato glamour in un mazzo di spinaci. Fortunatamente qualche volta l’immagine aveva una funzione più evocativa o addirittura metaforica, erano i tempi in cui giravano le immagini di Folon e di alcuni illustratori americani che hanno caratterizzato fortemente la comunicazione istituzionale, Brad Holland, per esempio.

Com’è avvenuto il suo passaggio all’illustrazione di libri per bambini come le fiabe?

Per tanti motivi mi sentivo sempre più fuori posto in quell’ambiente e in generale la pubblicità non mi interessava più. In quegli anni mi ero riappassionato alla lettura e un po’ per gioco inventavo copertine immaginarie, studiandomi tecniche e stili diversi. Alla Children’s Book Fair di Bologna ho toccato con mano le meraviglie che si pubblicavano all’estero e alla fine ho deciso di rimettermi in gioco. Ho seguito quattro corsi brevi ma intensi nelle due migliori scuole di illustrazione e nell’arco di qualche anno sono passato gradualmente dalla pubblicità all’editoria.

 

 

In questo settore ha lavorato per case editrici di tutto il mondo. Da quanto ha potuto riscontrare, è un universo che conosce diverse sfumature a seconda della latitudine e delle culture o piuttosto omogeneo nell’ intero pianeta?

Il linguaggio del libro illustrato può essere molto diverso da un paese all’altro. Cambiano i contenuti, lo stile grafico, la scelta di un certo tipo di illustrazione piuttosto che altri. Ciononostante, alcuni libri particolarmente riusciti vengono tradotti in tante lingue e fanno il giro del mondo. Un dato positivo per gli editori italiani è che le vendite dei diritti per la pubblicazione all’estero sono in aumento.

Cosa la affascina, del mondo delle fiabe?

Forse il fatto stesso che raccontandoci le fiabe siamo vicini, ci riconosciamo. Contengono elementi così universali e archetipici che creano un grande momento di empatia tra le persone, adulti o bambini che siano.

 

 

Uno dei leitmotiv delle sue illustrazioni sono gli animali umanizzati, i bambini e soprattutto la notte, intesa – credo – come parentesi magica e del sogno…Potrebbe approfondire per noi questi temi?

Le favole ci hanno abituati alla presenza degli animali antropomorfi nelle illustrazioni. Maestri come Wolf Erlbruch li hanno introdotti anche in contesti più contemporanei e nelle storie del quotidiano, io copio un po’ da lì. L’effetto è di spaesamento surreale, a volte divertente perché vediamo nell’animale aspetti caricaturali dell’umano. In un altro tipo di illustrazione (e di narrazione) più vicina al “fiabesco”, mi interessa l’animale come portatore di mistero, contatto con una natura inconoscibile. Detesto il magico della letteratura fantasy e allo stesso tempo il documentarismo che si interessa solo alla meccanica dei comportamenti animali. Cerco lo stupore di chi ancora sta scoprendo il mondo, per questo i miei bambini si ritrovano spesso in atmosfere notturne, tra sogno e realtà.

 

 

I suoi progetti più imminenti sono top secret o potrebbe darci qualche anticipazione al riguardo?

Posso dire che sto lavorando per un editore russo su un albo illustrato molto impegnativo. Si tratta di una fiaba classica molto nota in Russia ma praticamente sconosciuta da noi. Qualche copertina di romanzi per ragazzi e a seguire tornerò finalmente a pubblicare in Italia con tre titoli di autori contemporanei.

 

 

Qual è il sogno più grande che – professionalmente parlando – vorrebbe ancora realizzare o che ha già realizzato?

Ho tante cose da imparare ancora. Ogni nuovo libro è per me quasi un ripartire da capo e costituisce la più grande sfida in quel particolare momento.

 

 

 

 

 

 

 

 

Giulia Pivetta: la moda tra fenomenologia e cultura giovanile

 

La osservi, e pensi che Giulia Pivetta sia una perfetta incarnazione del tipo di donna che più spesso descrive: l’ età è indefinibile, l’ aspetto a metà tra la donna adulta e un’ adolescente in via di sboccio, il look vagamente rétro. In realtà Giulia ha 33 anni, cinque libri e numerosi articoli già all’ attivo ed è impegnata su più fronti, ad esempio come docente alla Domus Academy di Milano. Ma quel che salta all’ attenzione è la sua ricerca, da sempre incentrata sulla moda come fenomeno sociale e sulle culture giovanili. La moda che Giulia racconta si interseca con la “strada”, con il fermento adolescenziale, con le evoluzioni del costume, e viaggia di pari passo con il mutare delle epoche e dei loro iter di stile.  Il suo studio approfondisce il punto d’ incontro tra estetica e cultura: Lolita, il dandy, il “Pink Feminism” delle Millennials sono solo alcuni dei temi inerenti al suo universo. Su tutti, risalta un’ indagine a 360° – o sarebbe meglio dire “una passione smisurata” – che ruota attorno agli anni ’60. E’ Giulia stessa a spiegarci da dove nasce, e molto altro ancora.

Cosa mi racconti di te e del tuo percorso?

Ho sempre avuto una grandissima propensione verso tutto ciò che è visivo, che riguarda l’immagine. Non so se è una questione generazionale o più personale, del modo in cui cresci…Però sono sempre stata molto attaccata alle immagini, soprattutto alle immagini degli abiti: quello che gli abiti rappresentavano per me nella mia vita, nella mia infanzia, anche in modo inconscio. Da lì mi è venuto il desiderio di fare la stilista. Questo è stato il mio primo input, per cui i miei studi dopo le superiori sono stati orientati al Fashion and Textile Design. Mi sono diplomata al NABA, ma non ho concretizzato il mio sogno perché, in quel momento, non sentivo l’ambiente canonico della moda particolarmente adatto a me. Avevo un’idea molto romantica, molto “rétro” se vuoi, della figura dello stilista, che non combaciava con la realtà dei fatti. Nel contempo mi sono avvicinata ai temi delle avanguardie storiche, delle culture, dello stile, tutto quello che lontano dalle passerelle accadeva e che alle passerelle, poi, in realtà parlava. Per cui mi sono specializzata in modo molto naturale in quello che ora è il mio mestiere: raccontare immagini e abiti che per me hanno rappresentato la felicità per tanti anni e anche tuttora. Ho iniziato a raccontare non tanto la situazione delle passerelle, ma come gli abiti e la moda fanno parte della vita quotidiana della gente, come dalle passerelle si vada a parlare di persone vere. Della moda, cioè, intesa come qualcuno che crea ma anche come qualcosa che ha a che fare con la vita delle persone. Le subculture e le avanguardie sono state un po’ un pretesto, perché non ti parlano di fashion design ma ti parlano di ragazzi. La cultura giovanile, l’adolescenza con la sua ribellione sono gli elementi fondamentali della mia ricerca.  ll mio è un cercare di raccontare con parole facili, ma non superficiali, che cos’ è la moda reale. E poi ci sono queste benedette immagini a guidarmi, questi vestiti che sono essenzialmente immagini. La scrittura per me è un veicolo, uno strumento, non il fine principale: non voglio fare la scrittrice.

 

Il titolo e il logo della copertina di “Ladies Haircult” (2016, ed. 24 Ore Cultura)

Docente, autrice, fine conoscitrice dei fenomeni di moda e di costume. Come ti sintetizzeresti in una definizione?

A volte vivo molto male, altre molto bene il fatto di non sentirmi racchiusa in una definizione. Per sintetizzare potrei dire che sono un’autrice giornalista, poi però bisognerebbe specificare “di moda e di costume”…Non amo le definizioni strette perché secondo me semplificano, e le semplificazioni banalizzano.

 

La copertina di “Dreamers & Dissenters” (2012, ed. Vololibero)

Nei tuoi libri volgi spesso lo sguardo allo stile e alla cultura pop anni ’60: cosa ti affascina di più, di quel periodo?

Sono stati un po’ il motivo scatenante che mi ha fatto aprire il vaso di Pandora: quando li ho scoperti, mi si è aperto davanti tutto un mondo. E’ facile capire cosa affascina degli anni ’60. Negli anni ‘60 c’è stata la sintesi e allo stesso tempo l’esplosione di un’estetica, di tante estetiche…Ho scritto un libro che è, appunto, una lode spassionata a questo decennio. Si intitola “Dreamers and dissenters” ed è illustrato da Matteo Guarnaccia. Nel libro prendo in analisi un’ epoca che definisco “di dissenzienti e sognatori” e racconto tutti gli stili nati allora. Ne abbiamo inseriti forse una trentina, ma ci siamo dovuti limitare! In soli dieci anni è nata una serie di input, al di là delle passerelle, su cui ci sarebbe stato da scrivere tanto altro ancora. E’ stato un decennio davvero ipercarico, con un’energia che si è concentrata come poche volte è capitato nella storia. Un fermento che ha coinvolto le gerarchie sociali, le estetiche, l’arte, la musica…

 

 

Le copertine di “Ladies’haircult” (2016) e “Barber Couture” (2014), ed. 24 Ore Cultura

La moda è, da sempre, legata a doppio filo all’ evoluzione del costume. Qual è il rapporto che le unisce e quale delle due influenza l’ altra per prima?

Diciamo che la moda non è fatta altro che di persone che guardano quello che succede, che sentono quello che sta per succedere e lo trasferiscono negli abiti. Per cui, c’è un po’ questo: la moda ruba dalla strada, dalle subculture ma anche dalle persone, prende ispirazione da quelle che sono espressioni autentiche di stile, poi le rilegge e le fa diventare una cosa poetica anche quando non c’è poesia. Ma questo è solo un aspetto. Dall’ altro lato è anche vero che lo stilista fa un lavoro di sintesi, di input, crea qualcosa di nuovo che diventa qualcos’altro e addosso alla gente diventa un’altra cosa ancora. Quindi, secondo me, è un continuo dare e ricevere tra una parte e l’altra. Anche perché il punto di contatto è rappresentato dagli stilisti, che sono uomini nel mondo…E oltretutto, sempre di più. Oggi il fashion designer lavora con un team di persone, è come se nel suo studio avesse una microcollettività, gli input vanno e vengono. E’ una cosa normalissima, un motivo di grande orgoglio per i designer di tutti i marchi più famosi: avere un team con cui lavorare attraverso uno scambio continuo.

 

La copertina di “Lolita. Icona di stile” (2016, ed. 24 Ore Cultura)

Nel 2016 hai analizzato in un libro il fenomeno di Lolita e delle “ninfette”, su Marie Claire è uscito un tuo articolo sul “Pink Feminism” delle Millennials. Come è cambiata l’affermazione del femminile, da Lolita in poi?

Sono due argomenti molto connessi, e non solo per via del rosa! L’ affermazione del femminile con Lolita si veste di un linguaggio, diciamo, “antico”, nel senso che è qualcosa che c’era già: Lolita incarna una tipologia di femminilità ancestrale, che però tramite lei inizia a parlare un linguaggio pop. Se vuoi anche grazie al film, perché nel momento in cui qualcosa di scritto prende una forma estetica e si fa immagine, diventa veicolabile a tutti. Questo è stato il grande apporto di Lolita. E poi, il nome: un nome che fosse attuale, moderno, e lo è tuttora. Un nome che fosse unico, perfetto per il momento in cui è uscito, per la persona che stava a rappresentarlo e per il tipo di femminilità che rappresentava. Da allora è cambiato il fatto che l’infanzia, o anche il lato bambino, giocoso, è diventata un valore, qualcosa da difendere e che non va buttata via insieme al primo paio di scarpe col tacco e al primo filo di rossetto. Ed è un valore che va preservato, mentre prima si lasciava alle spalle nel momento in cui si entrava nell’ età adulta.  “Pink Feminism” perché il rosa è il colore della donna, ma è anche un colore che rimanda molto all’ infanzia, quindi ha una doppia valenza. Poi ovviamente viene chiamato così anche per via del “Millennial Pink” e del successo pazzesco che ha avuto questo colore. Ma è un tipo di messaggio, quello che passano le femministe di oggi, che – e si vede anche nelle foto dell’articolo – non fa finta di essere qualcos’altro. Si rifà all’ infanzia, a uno spirito ancora molto presente in tutte le ragazze che hanno 18, 16 anni: non è che da un momento all’ altro ti dimentichi delle penne colorate che fino a due settimane prima avevi usato per scrivere nel tuo diario.

Nell’ articolo sottolinei che il “sistema lo combatti meglio se ne fai parte integrante”. Non pensi che, essendo l’arte una delle più alte forme di espressione umana, le artiste che citi operino da un punto di vista privilegiato?

Oggi tutto è molto più connesso, non esiste un milieu intellettuale che vive lontano dalle dinamiche del mondo e che quindi può permettersi certe cose perché tanto, poi, alla fine rimane immune da tutto. C’è sempre una ricerca personale, secondo me. Un percorso di indagine condotta anche sulla base della sensibilità individuale. Il sistema lo combatti meglio dal di dentro, se sei parte di esso: queste ragazze sono delle artiste, ma al tempo stesso lavorano come fotografe, registe…Fanno tante cose. Certo, si tratta   sempre di lavori che hanno una componente creativa molto alta. Ma è una scelta personale il fatto di fare un lavoro artistico a mille livelli, dove c’è una tua espressione propria o meno. E vale anche per tutte coloro che producono lavori che possono far parte del commercio, del sistema. Non noto divisioni così nette.

Dalla celebre t-shirt che recitava “We all should be feminists” ideata da M.Grazia Chiuri a molti altri esempi attuali, anche il mondo della moda è stato contagiato dalla vena femminista: tendenza o potente elemento amplificatore?

Dipende da quale espressione della moda si tratta. Parlando ad esempio di Dior, Maria Grazia Chiuri è una donna e quindi ha molto senso che voglia far arrivare a tutte, anche a livello di mainstream, quella frase.  Io non trovo che se il femminismo passa a più livelli, attraverso cioè un capo di abbigliamento, attraverso la moda, sia negativo. Gli abiti veicolano sempre dei messaggi, e piuttosto che un messaggio di distruzione preferisco che portino un messaggio di coscienza e di autocoscienza. Penso che è nella natura della moda trasmettere messaggi. Poi, che la gente sia conscia o meno del messaggio che sta portando addosso, è un altro discorso.

 

Luca Rubinacci. Foto © Mattia Balsamini tratta dal libro “Dandy. Lo stile italiano” (2017, ed. 24 Ore Cultura)

In “Dandy. Lo stile italiano”, il tuo ultimo libro, ti occupi di questa storica figura maschile e del suo universo. Qual è l’identikit di un dandy italiano del nuovo millennio?

Nel libro esistono dei caratteri che accomunano tutti, poi ovviamente ognuno li declina a proprio modo e si vede. Ognuno ha la sua identità. A livello stilistico è il fatto di conoscere quello che si indossa, cioè sapere che alla base di un abito o alla base dell’abbigliamento c’è la cultura, e soprattutto arrivare all’ abbigliamento attraverso la cultura. Che non vuol dire una mera ricerca estetica dal punto di vista delle forme, ma è tutto quel compete la cultura tessile, la cultura della manifattura, la cultura dell’artigianalità, la storia…Questo, a mio avviso, è il leitmotiv presente nell’ identikit di un dandy italiano. Poi è ovvio che se mi chiedi dei dettagli estetici tipo “ha la pochette” piuttosto che “le scarpe verdi”, fatico a dirlo. I protagonisti del mio libro sono molto diversi tra loro ed una cosa che, a mio parere, li accomuna, è quella di riuscire a amalgamare molti mondi, di non rimanere ancorati alla sartoria artigianale. Mescolare un abito fatto a mano con qualcosa, magari, di origine militare o che arriva dagli anni ’60. Secondo me è fondamentale.

 

Luigi Presicce nella copertina di “Dandy. Lo stile italiano”. Foto © Jacopo Menzani e Tommaso Majonchi.

Chi rappresenta maggiormente, oggi, la quintessenza del dandy del Bel Paese?

In realtà lo fanno tutti. Io i “miei dandy” li ho scelti proprio perché per me tutti rappresentano – per un motivo o per l’altro – quella figura, per cui non ho preferenze. Potrebbe essere Alessio Berto come Gerardo Cavaliere, i fratelli Guardì…Oppure Luigi Presicce, l’artista in copertina. Dandy lo sono un po’ tutti, li ho selezionati con cura! Ognuno di loro è esemplificativo di un carattere ben preciso.

 

Rodolfo Valentino. Foto © Ullstein Bild / Alinari

Hai qualche progetto in serbo di cui mi vorresti parlare?

Assolutamente sì: è un progetto che si sta chiudendo in questi giorni, ma fino a un nuovo ordine non posso pronunciarmi. Ti aggiornerò appena posso!

 

Sergio. Foto © Giulia Gasparini

Barnaba Fornasetti. Foto © Mattia Balsamini

Tavolo del Maestro Liverano. Foto courtesy Liverano & Liverano

 

 

Michael Putland, il fotografo delle leggende del Rock

Il libro-catalogo THE ROLLING STONES BY PUTLAND (ed. LullaBit)

 

Dalla A degli Abba alla Z di (Frank) Zappa: difficile individuare chi non sia stato immortalato da Michael Putland, in un ipotetico “alfabeto del Rock”. Classe 1947, inglese, Putland debutta come assistente fotografo quando è appena un teen. Apre il suo primo studio fotografico nel 1969, anno di transizione che vede sfumare gli Swingin’ Sixties nell’ era hippy e delle più graffianti Rock band. E’ allora che il link tra Michael Putland e la music scene si salda, indistruttibile, per tutti gli anni a venire. Il ruolo di fotografo ufficiale che ricopre per Disc & Music Echo, un magazine di musica britannico, è in questo senso fondamentale: proprio grazie alla rivista ha un primo approccio con Mick Jagger, che nel 1973 segue in tour inaugurando un pluriennale sodalizio con i Rolling Stones. Nel frattempo, prosegue indefessa la sua collaborazione con la stampa musicale e con major discografiche come CBS, Columbia Records, Warner, Polydor e EMI, per le quali ritrae le star di un’epoca straordinaria in quanto a innovazione e a fermento creativo. Nel 1977 si trasferisce a New York dove fonda Retna, agenzia fotografica rimasta attiva per quasi trent’anni. I soggetti principali del suo portfolio sono gli eroi della music scene: dagli Stones a Bowie passando per Prince, Eric Clapton, Tina Turner, Joni Mitchell e Marc Bolan – solo per citarne alcuni – Putland immortala personaggi annoverati nella music history per carisma e genialità. Ai suoi scatti vengono dedicate mostre, come l’ importante retrospettiva che la Getty Gallery di Londra ha organizzato per il suo 50mo di carriera o quelle, tutte italiane, con cui ONO Arte ha reso omaggio al suo archivio su David Bowie e sui Rolling Stones. Ed è proprio in occasione di It’s only rock’n roll (but I like it), la mostra che fino al 23 Luglio sarà visitabile nella galleria d’arte bolognese, che ho avuto il privilegio e l’ onore di scambiare quattro chiacchiere con Putland. Il libro-catalogo THE ROLLING STONES BY PUTLAND rappresenta una chicca aggiuntiva dell’ esposizione: edito da LullaBit, raccoglie oltre 200 scatti in cui il grande fotografo ha immortalato i Rolling on e off stage. Una splendida opportunità per approfondire l’ opera di Putland e per immergersi nel mood che animava (e che anima) una vera e propria leggenda del Rock.

Ha scattato la prima foto a soli 9 anni. Quale ‘molla’ ha innescato il colpo di fulmine con la fotografia?

Sì, è stato davvero un colpo di fulmine tra me e la fotografia. Ma la mia influenza principale è stato mio zio, che vedeva che questa passione stava nascendo in me e mi aiutò molto a coltivarla. Lui aveva un macchina fotografica tedesca, una Voigtländer 35 mm, e da lì partì tutto. Ho ancora una collezione di macchine fotografiche appartenute alla mia famiglia, quella di mia nonna ad esempio, con cui di fatto scattai la mia prima fotografia! Mia nonna, in seguito, mi regalò una delle prime macchine con rullino: una Kodak Crystal.

Si dice che lei abbia fotografato tutte le rockstar al top dagli anni ’70 in poi. Ha mai coltivato velleità musicali?

In realtà mi sarebbe piaciuto ma non ero per nulla portato, nonostante mia nonna – quella della macchina fotografica – fosse una pianista abbastanza famosa ai suoi tempi.

Michael Putland

Tra gli innumerevoli artisti che ha immortalato spicca David Bowie. Che ricordo ha di lui e quali atout, a suo parere, lo hanno tramutato in un’icona?

La prima volta che vidi Ziggy pensai che fosse eccezionale e diverso. Tutto quel periodo era straordinario, e l’aspetto androgino di Bowie era qualcosa che non si era mai visto. Credo che quello che lo abbia davvero reso un’icona – a parte la sua musica incredibile, perché non scordiamoci che la musica era incredibile – sia stata la sua capacità di reinventarsi costantemente. Anche il suo ultimo lavoro prima di morire, Lazarus, è stato davvero un capolavoro di citazioni e innovazioni al tempo stesso.

Il bianco e nero è un leit-motiv di tutta la sua opera. Perché?

Ovviamente sono cresciuto con il bianco e nero, e anche quando le pellicole a colori divennero disponibili, nessuno se le poteva davvero permettere – e a pensarci bene non ho mai conosciuto nessuno che ai tempi le usasse! Il mio occhio è abituato a leggere il mondo a due colori, anche quando scatto ora.

┬®Michael Putland, Mick & Keith live, Wembley 1973

La sua collaborazione con i Rolling Stones ha avuto inizio nei primissimi anni ’70. Che tipo di feeling si è instaurato tra lei e la band?

Quello che posso dire è che ci trattavamo con estremo rispetto reciproco e fiducia, ognuno del lavoro dell’altro. Il nostro rapporto era più che altro professionale, fatto di gesti e pose più che di parole, soprattutto in confronto al rapporto che avevo con altri artisti. E forse questa è sempre stata una delle cose che ho amato di più.

Nei suoi scatti, la quintessenza degli Stones si esprime al meglio nella dimensione del tour. Come se lo spiega?

Uno dei talenti che ho in assoluto come fotografo, se posso dirlo, è quello di stabilire un rapporto con il soggetto che ritraggo. La band si sentiva a proprio agio  con me e quindi ero in grado di cogliere la loro vera essenza – non un’immagine posata – che sul palco, ovviamente, era all’ennesima potenza. Oggi quando scatto in digitale ho ancora questa capacità, infatti edito pochissimo le mie foto. In realtà, se devo essere onesto, preferisco fotografare chiunque non sul palco: le restrizioni e le difficoltà tecniche sono folli. Ma con gli Stones era una simbiosi di musica e performance che sapeva trascinarti via. Per quello, essere con loro on stage era incredibile.

Bowie, 1976. The Thin White Duke

Esistono foto, tra quelle in mostra, che associa a ricordi o ad aneddoti particolari?

Senza ombra di dubbio la foto che scattai a Bob Marley, Peter Tosh e Mick Jagger al Palladium Theatre di New York. Il contrasto tra il viso di Mick esausto dalla performance sul palco è così bianco e quello di Peter Tosh così sorridente e scuro, al contempo: mi  hanno regalato uno dei miei scatti di maggior successo.

Il libro fotografico ROLLING STONES by PUTLAND è presentato in una doppia copertina raffigurante Mick Jagger e Keith Richards. Chi dei due subisce maggiormente il fascino dell’obiettivo?

Mick è sicuramente più naturale davanti all’obiettivo, ma al tempo stesso se Keith sorridesse e fosse a suo agio non sarebbe più lui. In realtà in questi ultimi anni è sempre più sorridente, lui stesso non si riconosce più – dice. In fondo, è un nonno anche lui!

Photo courtesy ONO Arte