Cantare il Maggio: i maggerini e i loro canti rituali

 

Con il 1 Maggio ritorna la tradizione agreste dei “canti del Maggio”, diffusi prevalentemente in regioni come le Marche, l’Umbria, la Toscana, l’Emilia Romagna, la Liguria, il Piemonte e alcune aree della Lombardia. I cantori, detti “maggerini” o “maggianti”, danno il via ai loro canti di questua nella notte del 30 Aprile e li concludono la sera successiva. Sono canti gioiosi, stornelli accompagnati dal suono dei violini, delle fisarmoniche, dei cembali e degli organetti; i termini e le espressioni dialettali la fanno da padrone, rendendo ancor più genuino il saluto alla Primavera che i maggerini intonano di porta in porta, inoltrandosi nei villaggi e percorrendo i sentieri campestri. Nelle Marche, la mia regione, i canti di questua si chiudono immancabilmente con un “saltarello” vivacissimo che sottolinea le richieste che i cantori rivolgono al “vergaro” e alla “vergara” (i proprietari della casa colonica). La tradizione, infatti, vuole che i maggerini ricevano una lauta ricompensa: di solito si tratta di salumi, uova, formaggi e pollame vario affiancati al classico bicchiere di vino. E’ molto raro, d’altronde, che le famiglie non soddisfino la questua; si dice che i doni elargiti ai cantori attirino la buona sorte, favoriscano il benessere fisico e garantiscano un abbondante raccolto.

 

 

Il numero dei maggerini può variare dai tre ai dieci, anche se gruppi così nutriti sono comuni più che altro nel fabrianese. Il Cantamaggio, come vi ho già accennato, inneggia alla Primavera e alla lietezza (ma anche all’ebbrezza) che si associa alla rinascita. L’allegria predomina, mescolata ad accenti dionisiaci e a una malizia scanzonata. Non mancano le odi alla fertilità di buon auspicio per il nuovo ciclo agricolo: è questo, sostanzialmente, l’augurio che i maggianti portano di casa in casa. Il Cantamaggio, non a caso, trae le sue origini dai riti di fecondità che i pagani eseguivano in epoche molto antiche.

 

 

I profondi mutamenti della società hanno fatto sì che, fino a qualche anno fa, la tradizione di “cantare il Maggio” si smarrisse nei meandri del tempo. L’omologazione ha a poco a poco distrutto la cultura agreste; le campagne si spopolano e solo un esiguo numero di famiglie potrebbe offrire ai maggianti salumi, formaggi e uova fresche. Negli anni ’80, eppure, come per miracolo qualcosa è cambiato. Mi riferisco sempre alle Marche: il Cantamaggio di Morro d’Alba festeggia questo mese la sua 42esima edizione, e anche in paesi come Montecarotto e Monsano è stata ripristinata l’antica usanza dei canti di questua. Nel fabrianese, poi, il rito del Cantamaggio ha ripreso gradualmente vigore. L’appuntamento con i maggerini è ormai immancabile sia nelle frazioni che per le strade di Fabriano, dove non è raro avvistarli mentre intonano i loro canti rituali.

 

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Le uova colorate: un’antica tradizione pasquale tra leggenda, simbologia e sacralità

 

L’uovo è il simbolo pasquale per eccellenza. Sin da tempi remotissimi ha rappresentato la vita, il cardine dei quattro elementi, la fertilità, la rinascita. Regalare uova in occasione dell’arrivo della Primavera era una tradizione diffusa tra molti antichi popoli pagani. I Persiani, così come gli Egizi, i Greci e i Cinesi solevano scambiarsi uova di gallina per festeggiare la rinascita della natura, e non era raro che si trattasse di uova decorate manualmente. Con l’avvento del Cristianesimo, questa simbologia venne sostituita da quella prettamente associata alla Resurrezione: in Mesopotamia, tra i cristiani era d’uso donarsi uova tinte di rosso per rievocare il sangue di Cristo Crocifisso. La Chiesa Cattolica considerava l’uovo un emblema perfetto del Cristo che risorge. Esternamente, infatti, l’uovo somiglia alla pietra di un sepolcro, è freddo e inanimato; al suo interno, invece, germoglia la vita. Con questo significato, nel Medioevo, le uova si tramutarono in un tradizionale dono pasquale. Ma come ebbe inizio l’usanza di colorarle? Per tingerle delle tonalità più svariate, era comune farle bollire avvolte in delle foglie o insieme ai petali di certi fiori.

 

 

Tra i ceti aristocratici, nello stesso periodo storico, era molto in voga regalare uova interamente costruite in oro, platino o argento, oppure rivestite di questi metalli preziosi. Il popolo, tuttavia, adottò l’abitudine di colorare le uova anche per ragioni pratiche: durante la Quaresima, infatti, quando era proibito mangiare carne e prodotti di origine animale, le famiglie usavano bollire le uova per conservarle fino alla fine del digiuno; tingerle di vari colori si rivelava utile ai fini di distinguerle dalle uova crude. Tornando alla tradizione pasquale, le tonalità tipiche erano il giallo, il rosso, il marrone, il verde e il nero, che era possibile ottenere tramite coloranti naturali. Nei paesi dei Balcani e ortodossi, la millenaria usanza delle uova colorate è giunta fino ad oggi. Le uova, bollite, sono rosse a simboleggiare la Passione, ma di recente sono state introdotte anche altre cromie. Il pasto viene poi consumato a Pasqua e Pasquetta. Parlando di uova rosse, è interessante sapere che in Primavera, nella Roma antica, era abitudine sotterrarle nei campi affinchè fossero di buon auspicio per il raccolto. Esiste anche una leggenda, riguardante le uova tinte di questo colore.

 

 

Si narra che Maria Maddalena, quando scoprì che Cristo era risorto, corse a dare la bella notizia a tutti i suoi discepoli. Nessuno di loro, però, prestò fede alle parole della donna, e Pietro le disse che l’avrebbe creduta solo se le uova che portava con sè in un cestello si sarebbero tinte di rosso. Così avvenne: come per miracolo, tutte le uova di Maria Maddalena diventarono rosse in un batter d’occhio.

 

 

Oggigiorno, con la supremazia delle uova di cioccolato, la tradizione delle uova di gallina colorate è sempre viva, anche se un po’ in ribasso. Negli stati di fede ortodossa, tuttavia, permane in tutto il suo fulgore originario: le uova sode, tinte con coloranti alimentari, in questi paesi rappresentano un po’ una risposta al boom dell’uovo di cioccolato, che viene generalmente associato a connotazioni più consumistiche.

 

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Solstizio d’Estate, il trionfo del Sole

 

Nullo sensibile in tutto lo mondo è più degno di farsi essemplo di Dio che ‘l sole.
(Dante Alighieri)

 

Mancano solo 13 minuti all’ arrivo dell’ Estate. Il Sole, oggi, sancisce il suo trionfo: è il giorno più lungo dell’ anno, le ore di luce prevalgono nettamente su quelle di buio. In Italia, considerando le differenze tra le varie latitudini, il Sole splenderà per circa 15 ore di fila. Ritorna la magia del Solstizio, da “Solstat”, in latino “il sole si ferma”. La potenza dell’ “astro infuocato” raggiunge l’apice, connettendo cielo e terra attraverso una straordinaria energia cosmica. Le piante acquisiscono virtù portentose, quelle aromatiche si bruciano nei tipici falò serali. I Druidi solevano raccogliere i ramoscelli di vischio (sempreverde sacro ai Celti) con una piccola falce dorata, simbolizzando l’unione tra la luna (la forma del falcetto) e il sole (lo splendore del metallo); la verbena era foriera di future ricchezze, la felce possedeva una valenza duplice: rivelava tesori occulti tramite i suoi semi e donava l’invisibilità a chiunque si impadronisse del suo fiore (un fiore che in realtà non è mai esistito). L’ artemisia proteggeva dalla negatività, mentre l’ iperico e la calendula racchiudevano l’ energia dei raggi solari. Poste sotto il cuscino, inoltre, le erbe del Solstizio permettevano di divinare il futuro per mezzo dei sogni. Il 21 Giugno, l’ anno arriva alla sua esatta metà. Il Cosmo inaugura un nuovo corso in cui predominano il Fuoco e l’ Acqua, il Sole e la Luna, il Maschile e il Femminile, elementi e principi opposti ma complementari. L’acqua, non a caso, rimane uno degli emblemi della notte di San Giovanni (il 24 Giugno), quando assume proprietà miracolose sotto forma di guazza: propizia la fertilità e conferisce benefici immensi alla pelle e ai capelli delle giovani donne. Il fuoco, la notte del Solstizio, ricorre nella tradizione dei falò: ognuno di essi simboleggia il vigore solare, lo celebra e sostiene a un tempo. Non dimentichiamo, infatti, che il progressivo declino dell’ astro inizia già a partire dal 22 Giugno. Gli antichi popoli europei erano soliti accendere i falò, ma non solo: nel buio risplendevano le fiaccole delle processioni, ruote di legno infuocate venivano fatte rotolare lungo le colline…Il fuoco possedeva anche una valenza purificatrice; teneva lontani i malanni così come gli spiriti maligni, che la notte del Solstizio accedevano liberamente al varco tra mondo visibile e invisibile. Le danze rituali attorno al fuoco e i salti sulle fiamme – se non ci si inceneriva gli abiti, la fortuna era garantita tutto l’ anno – proliferavano. Per sigillare il loro amore, gli amanti intrecciavano le mani su un falò. Il rimando all’ amore non era casuale: durante il Solstizio d’Estate, quando la natura è all’ apice della sua abbondanza, temi quali l’ accoppiamento e la fecondità diventavano pregnanti.

 

 

Per le popolazioni celtiche, il Solstizio era Litha: questo nome, ispirato alla dea sassone del grano, designa anche il sabbat della Ruota dell’ Anno celebrato tra il 19 e il 23 Giugno. Litha era l’equivalente di Demetra, la dea greca del raccolto e delle messi, e della divinità romana Cerere, che presiedeva alla fertilità. Con Litha, l’accento veniva posto sul ciclo perenne di morte e rinascita dei cereali. Una ballata quattrocentesca diffusa in Scozia e in Inghilterra, “John Barleycorn” (“Giovanni Chicco d’Orzo”), racconta proprio la storia dello “spirito dell’ orzo” che muore e poi rinasce come il dio Sole. Tornando ai Celti, un altro nome che diedero al Solstizio è Alban Heruin (“luce della spiaggia” o “della riva”). Collocato a metà dell’ anno, l’arrivo dell’ Estate era equiparato alla “terra di mezzo” generata dall’ incontro tra mare e terraferma: la spiaggia, appunto. E in ambito italiano, quali sono le figure più rappresentative del 21 Giugno? A San Giovanni Battista, la cui festa fu sovrapposta dalla Chiesa Cattolica alle celebrazioni pagane per il Solstizio, potremmo affiancare Giano, il dio Bifronte della tradizione romana. Giano è il simbolo per eccellenza delle Porte Solstiziali; significa “passaggio” il suo nome stesso e regna sui periodi di transizione, sui nuovi inizi esistenziali. I due volti del dio Bifronte sono rivolti uno al passato e uno al futuro. Nell’ antica Roma era veneratissimo, ma si suppone che il suo culto risalga a un’ età arcaica dove veniva inglobato a quello dei cicli naturali. Con il passar del tempo, Giano assunse una valenza sempre più importante: basti pensare che per i romani non aveva nè padre nè madre, era l’origine del tutto.

 

 

In questi tempi incerti, festeggiare il Solstizio d’Estate può rappresentare un punto fermo: un’ occasione per riconnettersi con la natura, per omaggiare il culmine della sua rigogliosità. Potremmo accendere un falò in giardino, o laddove ci è concesso (pare che i falò sulla spiaggia siano vietati in molte zone d’Italia), e arricchirlo di erbe aromatiche, rigorosamente nove, come la lavanda, l’artemisia, il timo, la ruta, il vischio, il finocchio, la verbena, la piantaggine e l’ iperico, la pianta che – secondo la leggenda – concentra in sè l’energia del sole. A proposito di iperico, le sue virtù fitoterapiche non vanno trascurate: rinforza il sistema immunitario, possiede spiccate proprietà antinfiammatorie e antidepressive. Ma se volete rimanere in ambito magico, raccoglietene in abbondanza per attirare la fortuna e per proteggervi dalle entità malvagie. Il giorno del Solstizio d’Estate, anticamente, veniva appeso sui portoni proprio per mantenerle a distanza.

 

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