Quando intervistai Milo De Angelis

(Foto di Viviana Nicodemo)

 

Ieri pomeriggio, al Museo della Carta e della Filigrana di Fabriano, si è tenuto un incontro con il poeta milanese Milo De Angelis. L’evento faceva parte del ricco programma di “La punta della Lingua”, il festival internazionale della poesia totale giunto alla sua 18ma edizione. Avendo avuto la splendida opportunità di intervistare De Angelis nel 2015 per il settimanale fabrianese L’Azione, ho deciso di rivivere le emozioni che a suo tempo mi regalò quella conversazione: il post di oggi la riporta pari pari. Il tema approfondito nell’ intervista è l’attività di insegnante che il grande poeta ha svolto per anni all’ interno della Casa di Reclusione di Milano-Opera.

 

Milo De Angelis presentato dal poeta, scrittore e critico letterario Alessandro Moscè al Museo della Carta di Fabriano

 

Milo De Angelis, milanese, classe 1951, poeta tra i più autorevoli e rappresentativi della scena italiana contemporanea, ha all’attivo – dopo l’esordio con “Somiglianze” (1976) – una produzione di liriche assai apprezzata, intervallata da incursioni nella saggistica e nella narrativa. All’ attività di direttore della rivista “Niebo” (di poesia e letteratura) ha alternato le traduzioni dal francese e dal greco dei più prestigiosi autori alle partecipazioni, in qualità di giurato, a svariati Premi Letterari. Ma da quasi vent’anni, il vincitore dei premi Viareggio e Stephen Dedalus (rispettivamente nel 2005, con “Tema dell’ addio”, e nel 2011, con “Quell’ andarsene nel buio dei cortili”) si dedica parallelamente all’ insegnamento in una Casa di Reclusione. Lo abbiamo incontrato per saperne di più.

 In quale carcere svolge la sua attività di insegnante?

Dal 1996 insegno Lettere nel carcere di Opera, alla periferia sud di Milano (Istituto Tecnico Commerciale) e in questo carcere continuerò a insegnare fino a quando mi sarà consentito. Dopo tanti anni di vita penitenziaria, penso che sia la mia vocazione e il mio destino.

Come è maturata, in lei, l’idea di intraprendere questo percorso professionale?

Il mondo del carcere mi è sempre stato vicino. Dapprima l’ho “sentito” in modo romantico come memoria del sottosuolo, dei demoni, degli offesi, dei maledetti. Poi l’ho conosciuto di persona nelle sue dinamiche storiche ed esistenziali. E ho deciso di restare.

Che tipo di rapporto si è instaurato con i suoi allievi?

Fin dal primo giorno sono entrato in classe convinto di un compito essenziale, quello di insegnare l’amore per la poesia, per la disciplina della poesia. Spero di essere riuscito, nel corso degli anni,  a trasmettere questa convinzione e a mostrare come l’esperienza poetica sia qualcosa che scende a picco nel cuore dell’uomo e s’inabissa nella sua necessità profonda e nella sua quotidiana salvezza.

Ha dichiarato che la poesia “vive del tragico, mai del chiaroscuro.” Esiste una poesia intrinseca, recondita, nella sofferenza del recluso?

Esiste la sofferenza del recluso, certamente. Ma in lui esistono anche la curiosità, l’entusiasmo, il desiderio di sapere e il richiamo dell’ignoto, come in qualunque altro alunno. Inoltre, nei più sensibili, c’è una nostalgia legata all’esilio: il ricordo di profumi e colori perduti, un corpo o un sentiero amato, un’infanzia remota che gli anni imprigionati hanno reso ancora più leggendaria. Tutto questo fa del carcere un luogo propizio all’ascolto della parola poetica, che spesso è parola della memoria, tempo perduto e ritrovato.

Le sue liriche evocano i paesaggi delle grandi periferie urbane: le lamiere abbandonate e gli agglomerati industriali, l’ asfalto rovente delle tangenziali. Quali tragicità comuni è possibile rinvenire tra questi spazi immensi e quelli angusti, circoscritti, delle celle e dei cortili carcerari?

Non esiste, in poesia, una questione spaziale. Gli spazi infiniti si restringono nella punta di una matita e invece gli spazi più angusti si aprono in uno squarcio siderale: è il famoso filo d’erba del Pascoli, dove ruotano i pianeti! Così anche il campetto di calcio di Opera ogni domenica diventa l’intero universo: sinfonia di affetti e di esultanze, cilindro magico da cui ogni giocatore estrae le creature più sorprendenti e meravigliose.

Cosa pensa dei problemi attualmente associati al mondo della reclusione?

I problemi associati al mondo della reclusione sono innumerevoli, ma   in questi anni mi sto occupando soprattutto della detenzione “ostativa”, che è frequente nel carcere di Opera e costituisce un importante nodo etico e giuridico. L’ ergastolo ostativo ha carattere di perpetuità inderogabile e nega che il detenuto possa accedere a pene alternative, “osta” a ogni possibile beneficio di legge. Si tratta di una questione controversa – che personalmente seguo da vicino a livello di convegni e comitati – poiché tale forma di ergastolo contrasta con l’articolo 27 della Costituzione sulle finalità rieducative della pena. Inoltre, cancellando ogni speranza di ritorno alla cittadinanza, sancisce di fatto la morte del detenuto tra le mura carcerarie.

Cosa lo ha colpito maggiormente del carcere, durante la sua lunga attività didattica?

Forse ciò che più mi ha colpito in questi anni è il funzionamento del “ricordo”, parola che già nella sua etimologia indica il cuore. Il carcere è naturalmente un luogo di scavo interiore e di memoria. Ma si tratta di una memoria spezzata in due parti. Da un lato gli anni trascorsi tra le sbarre tendono a impastarsi in un’unica e monotona entità, sempre eguale a se stessa, una litania di colloqui, controlli, ore d’aria. Dall’altro invece ciò che è avvenuto prima dell’arresto assume i contorni favolosi della giovinezza:  tempo interamente perduto e dunque eterno. Nasce così, nei detenuti più poetici, una memoria prodigiosa, capace di fermarsi su un giorno lontano e di abitarlo, una memoria che si fa moviola, ingrandisce i dettagli e rallenta l’azione, opera un fermo-immagine, impone allo sguardo quella scena e non consente di uscire dalla visione. L’esilio insomma, insieme alle offese del trauma, può offrire la rara e preziosa bellezza di un  ricordo ineccepibile.

E’ mai stato ispirato dalla realtà carceraria nella composizione dei suoi versi?

Proseguo la risposta precedente. E aggiungo che F. (alunno a me particolarmente caro) è stato anche un formidabile specialista della memoria, un vero e proprio maestro del ricordo. E questo alunno è diventato – con il suo straziato racconto di amore e di sangue – il protagonista dell’ultima sezione del mio libro appena uscito, Incontri e agguati, dove per la prima volta il carcere entra direttamente in ciò che scrivo e lo nutre con la sua voce ferita e trepidante.

(Courtesy of L’Azione Fabriano)

 

“Dumbo” da oggi nelle sale: Tim Burton fa rivivere la fiaba dell’ elefantino volante Disney

 

Torna l’elefantino più amato del mondo: l’uscita nelle sale di “Dumbo”, remake del celebre classico Disney del 1941, è prevista proprio per oggi 28 Marzo. A farlo rivivere sul grande schermo sarà un regista d’eccezione, il visionario Tim Burton, che ha diretto una pellicola interamente in “live action” valorizzata da un cast di prima grandezza. Tra i protagonisti appaiono star del calibro di Colin Farrell, Danny De Vito, Eva Green, Michael Keaton, e possiamo esser certi che apporteranno un vortice di emozioni aggiuntive ad un film già di per sè commovente: chi non conosce la storia di Dumbo, l’ elefantino volante? Tim Burton la impregna di magia, raccontandola con il suo stile fiabesco e fortemente onirico. E’ così che ritroviamo personaggi come Holt Farrier (Colin Farrell), che dopo la guerra torna al suo ruolo di artista circense. Il direttore del circo di cui fa parte, Max Medici (Danny De Vito), lo incarica di accudire un baby elefante nato con una strana particolarità: ha delle orecchie smisurate. A causa di ciò, Dumbo (questo il nome del piccolo) viene continuamente schernito; almeno fino a quando Joe e Milly, i figli di Holt, scoprono che è in grado di volare grazie ad una piuma incantata. Da quel momento il circo, allora in crisi, vede risollevate le sue sorti. Il numero del volo di Dumbo riscuote un successo tale che lo scaltro imprenditore V.A.Vandevere (Michael Keaton) porta l’elefantino con sé a Dreamland, il parco di divertimenti che ha appena inaugurato, dove lo fa esibire insieme alla trapezista Colette Marchant (Eva Green). Ma non è tutto oro quel che luccica, e Holt ben presto scopre che il mondo scintillante di Dreamland nasconde un lato oscuro. Quando viene allontanata la mamma di Dumbo se ne ha un esempio eloquente: il cucciolo è devastato, le sue abilità sembrano svanire. Senza fare spoiler, posso solo dirvi che sopraggiungerà un lieto fine e che il nostro eroe ritroverà la felicità. Tim Burton tramuta il cartoon Disney in una fiaba perfettamente incastonata nella sua poetica, dove il valore della diversità viene affiancato a quelli della famiglia e dei sogni. Con le sue enormi orecchie, Dumbo rientra nella “gallery” dei freak che fanno da leitmotiv alla filmografia del regista, ma è in buona compagnia: quasi tutto lo staff di Max Medici, in fondo, dà vita a una sorta di Circo Barnum. Quel che conta sono complicità, la solidarietà,  il senso di “l’unione fa la forza” che si instaurano tra questi fenomeni, la capacità di saper essere famiglia. La purezza del sogno viene distrutta dal marciume che si cela dietro una facciata fuorviante, però alla fine trionferà e sancirà la vittoria dell’ amore autentico, incondizionato, che va al di là di ogni “mostruosità”: quell’ essere “diversi” che in realtà ci rende unici e speciali, come le immense orecchie che permettono a Dumbo di volare…Fisicamente, certo, ma soprattutto metaforicamente. Trasformando un presunto difetto nel suo punto di forza. Per ricreare la storia dell’ elefantino, Burton si avvale di un team sfavillante e premiatissimo che include, tra gli altri, lo scenografo Rick Heinrichs, il direttore della fotografia Ben Davis, lo sceneggiatore Ehren Kruger, la costumista Colleen Atwood, il make up artist Paul Gooch e l’ editor Chris Lebenzon (i terzultimi collaborarono con Burton anche in “Alice in Wonderland”). La produzione del film porta invece la firma di Katterli Frauenfelder, Ehren Kruger, Derek Frey e Justin Springer.

 

Immagine: Dumbo, Public Domain via Wikimedia Commons