Andy Warhol e Jean-Michel Basquiat in mostra al Mantova Outlet Village

©Anton Perich, Warhol e Bianca Jagger

Andy Warhol e Jean-Michel Basquiat – Dalla Pop Art alla Street Art è il titolo della mostra che ONO Arte inaugurerà con la storica dell’ Arte Daniela Sogliani, l’ 8 Gennaio, nella consolidata location del Mantova Outlet Village: un percorso fotografico mirato a evidenziare, attraverso 36 scatti, un sodalizio ed un periodo di transizione cruciali per tutta l’arte del ‘900. Protagonisti sono Andy Warhol e Jean-Michel Basquiat, fautori di una vera e propria “rivoluzione” che traspone l’ arte dalle sale dei Musei ad una realtà massmediatica, popolare e urbana. L’ incontro tra i due avviene in un ristorante di SoHo, nel 1978, nello scenario di una Grande Mela in pieno fermento: Warhol rimane colpito dalle cartoline illustrate che il giovanissimo Basquiat realizza e vende per guadagnarsi da vivere. Ne compra alcune ed intravede l’ espressione di un talento raro, che decide immediatamente di prendere sotto la sua ala protettiva. Sono gli anni del Club 57 e del Mudd Club, la Factory è al suo massimo apogeo: è proprio alla Factory che il duo intreccia un connubio artistico sfociato nella produzione di svariate opere a quattro mani, dove all’ istintività primitiva, agli slogan ed alle scritte di Basquiat si affianca la serialità “serigrafica” tipicamente Warholiana. E’ un incontro tra due visioni estetiche, tra due culture che si alimentano a vicenda. La Pop Art di cui Andy Warhol si fa principale interprete, con la sua campionatura di icone e prodotti cult dell’ immaginario di massa, evolve in una direzione urban, prettamente Street Art, che ha come protagonista Jean-Michel Basquiat e la sua attività di graffitista. Basquiat ha solo 17 anni quando, con l’ amico Al Diaz, inizia a “graffitare” sui muri di New York adottando l’ acronimo SAMO (da “SAMe Old shit”) come firma. Con Warhol intesse un legame simbiotico, controverso, nel tempo corroso dallo scontro tra due personalità dominanti. Rimane molto turbato dalla sua morte; gli sopravviverà però solo un anno, stroncato – il 12 Agosto del 1988 – da una overdose. La Street Art,  di cui Jean-Michel Basquiat viene considerato padre fondatore, è allora nel pieno del suo fulgore. Ma all’ orizzonte si va già profilando una svolta: quegli anni ’90 che trasferiranno l’ epicentro artistico da New York a Londra.

ANDY WARHOL E JEAN-MICHEL BASQUIAT – Dalla Pop Art alla Street Art

Dall’ 8 Gennaio al 5 Marzo 2017

c/o Mantova Outlet Village

Via Marco Biagi

Bagnolo San Vito (MN)

Per info e orari: 0376/25041

info@mantovaoutlet.it

www.mantovaoutlet.it

 

©2016 by Lee Jaffe, LWArchives, All Rights Reserved, Basquiat

 

©Bart van Leeuween, Andy Warhol NYC 1983

 

©Anton Perich, Basquiat

 

Photo courtesy of ONO Arte Contemporanea

Schield SS 2017: una ad campaign tra il sacro e il profano

Sorprendente, graffiante, provocatorio: tutti aggettivi che calzano a pennello a Diego Diaz Marin, fashion photographer dalle mille risorse e dai mille progetti.  Tra questi – oltre al recente lancio del visual book Doubleview a livello internazionale – rientra la sua attività di art director per Schield, il brand di luxury jewels fondato da Roberto Ferlito. E proprio con Schield è in procinto di lanciare una nuova, incisiva advertising campaign che presenta la collezione Primavera/Estate 2017 in una delle sue tipiche photostory. Mancano i cieli turchesi, stavolta, i colori vibranti a fare da leitmotiv; il photo shoot è interamente ambientato nello spazio ristretto di un confessionale e affianca poche nuance basilari: l’ argento, il nero, il marrone. Il focus è tra il sacro e il profano, la “vanità” dei gioielli si sposa alle sobrie atmosfere della confessione. Un rito a cui la protagonista – e qui riappare l’ inconfondibile donna di Diego, affascinante ma nevrotica – si sottopone con una devozione che rivela, scatto dopo scatto, differenti sfaccettature.

Accanto alle splendide creazioni di Roberto Ferlito – grappoli di fiori, collier, orecchini pendenti di una ricercatezza avantgarde – risaltano tre elementi chiave: la donna, una corona di filo spinato, la grata del confessionale. E’ decisamente minimal il look della protagonista, che tiene i capelli raccolti in uno chignon. E la corona di spine si fa metaforica, scegliendo un più contemporaneo filo spinato che, non a caso, con i jewels è in perfetto pendant argento.

Simbolo di espiazione oppure ironico dettaglio fashion? E ancora: la protagonista sarà davvero pentita dei suoi peccati o la confessione rappresenta piuttosto, per lei, l’ ennesima provocazione? Per chi segue ed ama l’arte di Diego Diaz Marin, l’ interpretazione si spoglia di ogni nota enigmatica.

biancobiancoSCHIELD Advertising Campaign SS 2017

Photographer: Diego Diaz Marin

Model: Reece Perkins

Hair and make up: Giovanna Fucciolo

biancoLeggi qui l’ ultima intervista di VALIUM a Diego Diaz Marin

Emilio Cavallini, la calza come cult: Pier Filippo Fioraso presenta ‘Ready to seduce’

“Quando ho aperto la mia azienda nel 1970 ero interessato a fare uscire i collant dall’anonimato, volevo trasformarli in un capo completo, fine a se stesso”, ha detto Emilio Cavallini. E bisogna dire che è perfettamente riuscito nel suo intento: oggi, le creazioni di calzetteria e l’ abbigliamento seamless che portano il suo nome incarnano uno stile inconfondibile ed altamente iconico amatissimo dalle celebs. Tutto è cominciato negli anni della Swingin’ London, quando il boom della minigonna tramutò le calze in elemento imprescindibile del look. Folgorato da quello spunto ispirativo, Cavallini iniziò a “vestire le gambe” con un’ inventiva che fondeva moda, arte e cultura pop in un prezioso connubio: i suoi collant divennero dei cult proposti nei pattern più incredibili ed in lavorazioni che alla rete declinata in molteplici versioni affiancavano – e affiancano tuttora – le stampe, il devoré, il crochet e il jacquard. Creatività e innovazione tecnologica sono ormai i leitmotiv di un brand che, per primo,  lanciò il seamless eliminando le cuciture grazie ad appositi macchinari e che Madonna, Beyoncé, Lady Gaga, Naomi Campbell, Gwyneth Paltrow, Gigi Hadid, Emma Stone e molte, molte altre star ancora scelgono per la daily life e per le loro performance. Con la nuova collezione Ready to seduce, il Direttore Creativo Pier Filippo Fioraso traduce l’ heritage più iconico del marchio in un mix di rete rock e fantasie floral che ridefinisce il gioco della seduzione: il risultato è iper-glam, straordinaramente sensuale. Ed è proprio Fioraso ad approfondire con noi i punti cardine della linea e dell’ universo Cavallini.

Com’è iniziata la sua avventura come Direttore Creativo di Emilio Cavallini?

Vengo da una tradizione familiare nel campo della moda, fin da piccolo sono stato motivato a seguire le mie passioni, i miei sogni, ad esprimermi liberamente. Da qui ho sviluppato un grande interesse per l’arte, nelle sue svariate forme ed espressioni. Fra tutte la moda è quella che mi ha attratto di più. Dopo gli studi artistici mi sono trasferito a Brescia e Milano per approfondire la mia formazione nel campo del fashion design e della maglieria. Da lì l’interesse per le infinite possibilità della “maglia” intesa come punto di partenza su cui sperimentare ed innovare. Successivamente, dal 2007 è iniziata una solida e continuativa collaborazione con Emilio Cavallini.

Calze a rete avantgarde”, fantasie optical e floral, calze che si tramutano in un vero e proprio capo di vestiario: quale elemento sente più suo, dello stile Cavallini?

Dello stile Cavallini sento mia la filosofia che anima il brand sin dalla sua fondazione: ideare outfit per donne reali, che cercano proposte ricche di personalità e che non vogliono passare inosservate.

 Quale valore aggiunto possiede la calza, in un outfit?

Penso che la calza sia uno degli accessori più versatili del guardaroba femminile, capace di trasformare e impreziosire anche il più semplice dei look. Abbinarla nel modo giusto più trasformare una donna nella regina della serata… o del supermercato!

Beyoncé

La nuova collezione ha il nome di Ready to Seduce”:che  cos’è, per lei, la seduzione?

Con Ready to Seduce ho cercato di dare corpo ad un’idea. Di definire una donna capace di esprimere la propria sensualità con consapevolezza di sé. Gli stessi scatti della collezione non sono stati pensati per rendere il corpo “esplicito” quanto, piuttosto, per vestirlo di allure. Ready to seduce è ricca di dettagli, anche di trame recuperate dall’archivio del brand e attualizzate, proprio per dare ad ogni tipo di femminilità la possibilità di trovare quello che è più adatto al personale gioco della seduzione che decide di condurre. E questo è per me “seduzione”, un gioco in cui ciascuno definisce le proprie regole.

Il black and white è un po’ il leitmotiv della linea. Perché?

Il bianco e nero rappresenta uno dei tratti distintivi della Collezione Timeless, il “continuativo” di Cavallini. Se per molti brand questo termine rappresenta il basico, da noi è invece iconico. Bianco e nero sono l’essenza della calza, il pieno e il vuoto su cui plasmare arte per le gambe.

Emilio Cavallini è un brand che le celebrities adorano. Quali sono i modelli preferiti dalle dive dello show-biz?

Celebrities come Madonna, Beyoncé, Lady Gaga, sono consapevoli di essere icone di irriverenza e seduzione, oltre che dive del pop. Sono comunicatrici e quando scelgono le creazioni di Cavallini sanno esattamente cosa vogliono. Di recente anche Petite Meller e Bebe Rexha sono letteralmente impazzite per i bodysuit. Di tutti gli articoli della collezione sono sicuramente i migliori per enfatizzare il corpo e sottolinearne le curve; hanno la forza impattante di un nudo integrale pur coprendo completamente la figura.

Se dovesse indicare un pezzo iconico della nuova collezione, su quale punterebbe?

Direi sicuramente i tre modelli a rete. Facendo ricerca negli archivi, me ne sono innamorato! Erano stati disegnati per una collezione del 1976. Li ho rivisitati in chiave contemporanea e in poco tempo sono stati tra i più utilizzati in moltissimi editoriali, oltre che scelti da numerose star.

Da dove ha attinto ispirazione per il sensualissimo bodysuit in rete?

In genere è la quotidianità ad ispirarmi, trovo che in ciò che ci circonda ci siano spesso veri momenti, o dettagli, capaci di sorprenderci. Altre volte mi ispiro al mondo dell’arte, soprattutto di quella contemporanea e al lavoro di artisti come Joana Vasconcelos o Magda Sayeg. In particolare questo bodysuit è nato dopo un viaggio in Sicilia dove sono rimasto colpito dei preziosissimi pizzi e crochet realizzati a mano secondo l’antica tradizione locale.

Madonna

biancoSe dovesse tracciare un breve ritratto della donna Cavallini, come la descriverebbe?

Una donna libera e sicura di sé, capace di definire ogni giorno la propria personalità.

Tra i suoi progetti futuri ce n’è qualcuno di cui vorrebbe parlare?

In questi anni ho collaborato con stilisti e brand di diverso calibro, come Alexander McQueen, Balenciaga, Paco Rabanne e Missoni, oltre ad aver sviluppato progetti speciali come quello per Opening Ceremony e sono sempre aperto a svilupparne di nuovi. Per il mondo Cavallini, vorrei sviluppare maggiormente l’universo Uomo, la cui proposta di calzini ed intimo è limitata ai motivi iconici in bianco e nero e, solo di recente, si è arricchita dei tanto discussi mantyhose (comodissimi collant da uomo). Vorrei inoltre focalizzarmi di più su nuove proposte di outwear e maglieria da abbinare ai motivi optical Cavallini.

Gigi Hadid

Bebe Rexha

https://www.emiliocavallini.com

biancoREADY TO SEDUCE  credits photo shoot:

Photographer: Marco Barbaro
Creative Director: Pier Fioraso
Stylist & Editor: Manuele Menconi
Video: Tommaso Cappelletti
Hair & Make-up: Rosanna Campisi @RockandRose, Melissa Alaimo
Models: Gaia and Federica @ Nur Model Mgt, Edoardo @ Mandarine Models

Location: special thanks to Soprarno Suites – Florence

Photo courtesy of Pier Filippo Fioraso

New icons: Petite Meller

L’ hanno paragonata di volta in volta a una Lolita, ad un folletto, a una bambolina: quel che è certo, è che nel panorama pop contemporaneo la figura di Petite Meller è talmente unica e irripetibile da non avere eguali. Incarnato color latte, capelli biondissimi e il tipico fard rosa steso in una chiazza che ricopre naso, guance e zigomi in modo uniforme, Petite ha saputo tramutare il suo look in materiale iconico imitato da migliaia di fans. Dopo il boom dell’ estate 2015 con il singolo Baby Love, un’ esplosione gioiosa di note mandata quasi “in loop” per tutta la stagione ed oltre, nel Settembre scorso è uscito Lil Empire, il suo primo album, scritto e prodotto da un team di big names che include Jocke Ahlund, Peter Mayes, Shamir, Nick Littlemore e Craigie Dodds, già producer di Amy Winehouse. Petite, nata in Francia ma vissuta a lungo in Israele, vanta un CV di tutto rispetto che spazia dagli studi di Filosofia alla Sorbona all’ attività di modella in un caleidoscopio di suggestioni ispirative: un elemento fondante del suo stile “jazzy pop” – come le piace definirlo – che mixa irresistibilmente le sonorità di Dizzy Gillespie, Charles Aznavour e Duke Ellington al pop melodico più tradizionale.

Una miscela non nata a caso, influenzata da un’ infanzia parigina che al sottofondo di chansonnier come Charles Aznavour e Serge Gainsbourg alternava i ritmi made in Africa di Fela Kuti. E’ all’ università che Petite scrive le prime lyrics, ma solo a New York il suo imprinting musicale riaffiora appieno: le note dell’ hot jazz la contagiano, tramutandosi in mood ispirativo da cui scaturiscono suoni e immagini. Potenti entrambi, preziosi in parti uguali nel definire un sound che fa del video il suo irrinunciabile supporto base. Il primo, NYC Time, Petite lo gira a New York e lo carica su You Tube: proprio grazie a quel video viene notata per caso da un manager inglese che, folgorato, la invita immediatamente a Londra.  Ha così inizio la sua avventura, una carriera all’ insegna di un jazzy pop travolgente associato a sequenze di forte impatto visivo. Un esempio su tutti? Il coloratissimo video di Baby Love, dove Petite esorcizza il mal d’amore in un tripudio di danze. Girata a Nairobi, in Kenya, la clip la vede ballare scatenata con i locali e posare tra giraffe e fenicotteri rosa.

L’ ispirazione è nata dalla famosa scena del mambo di BB in E Dio creò la donna, ma le citazioni cinematografiche riappaiono in quasi ogni video di Petite Meller, così come le terre lontane ed i paesaggi esotici: le Vergini suicide di Sofia Coppola, le colline mongole, il lago Rosa del Senegal fanno da leitmotiv all’ immaginario sconfinato della bionda popstar, suggestivi fotogrammi di un viaggio a ritroso nell’ infanzia.

Ed è proprio da un ricordo infantile che provengono le sue guance in total look rosa. Nulla a che fare con un trademark di stile, piuttosto – come ha spiegato a Panorama – lo strumento terapeutico per il superamento di un trauma, quando un’ ustione durante le vacanze sulla neve tinse il suo volto di un fiammeggiante rosso ciliegia: un aneddoto che la dice lunga sul “think pink” interiore e sulla straordinaria propositività di Petite.

Photo courtesy of Petite Meller

Amanda Toy: tattoo da fiaba e un nuovo e-shop

 

Bambole dagli occhioni languidi, matrioske, unicorni, arcobaleni fatati e dettagli che strizzano l’ occhio ad un’ epoca a cavallo tra la Belle Epoque e i Ruggenti Anni ’20: tutto questo – e molto altro ancora – fa parte dell’ inconfondibile iconografia di Amanda Toy, tatuatrice cult del panorama italiano ed internazionale. Il suo cognome d’arte, “toy”, evoca un immaginario in cui il fiabesco si intreccia al ludico traducendosi in un tripudio di forme naif e tinte pop in modalità sfumata. Iconico e al tempo stesso unico, lo stile di Amanda risalta per forza espressiva: il suo universo creativo riflette nelle immagini, accompagnate a volte da brevi claim, una magica valenza concettuale. Non è un caso che i bijoux e la tela siano gli ulteriori supporti delle sue creazioni, celebrate come veri e propri fetiches. Oggi, Amanda Toy festeggia i primi 20 anni di carriera ed ha in serbo una sorpresa che farà la gioia degli aficionados del suo studio di Milano e di tutti i suoi fan: un e-shop in cui sarà possibile acquistare prodotti che riproducono le oniriche effigi dei suoi tattoo. L’ ho incontrata per saperne di più.

 

Per quando è previsto il lancio del tuo e-shop esclusivo?

Per il 22 novembre.

Attualmente, nel tuo sito web è già possibile acquistare bijoux e stampe ispirate ai tuoi tattoo. Quando e come hai deciso di ampliare il tuo “raggio d’azione”?

Oltre al lancio dell’e-shop è in previsione un nuovo sito Internet ad esso collegato. Ho deciso di ampliare il raggio d’azione circa 12 anni fa, in quanto ho sempre cercato di essere il più trasversale possibile e quindi di collegare i tatuaggi delle mie bamboline ad un filo conduttore non solo concettuale ma anche reale, che le potesse far viaggiare non solo sulla pelle ma anche su altri supporti. Per questo inizialmente ho deciso di creare una collezione di bijoux proseguendo con borse, maglie ed altre cose.

Amanda Toy

 

Come hai iniziato, come tatuatrice?

Ho iniziato nel 1996: eh sì, sono vent’anni … Quello dei tatuaggi era un mondo magico e molto di nicchia ed è stato amore a prima vista, qualcosa che potesse permettere alla mia energia di incanalarsi in una direzione che per me aveva un senso.

L’uso del colore sfumato in un arcobaleno di gradazioni è uno dei tuoi punti di forza. Come nasce questa tecnica?

Lo amo, mi viene spontaneo. Questa tecnica nasce con la consapevolezza di riuscire a mixare i colori tra di loro con sofficità. E quando dico “tecnica” intendo la conoscenza dello strumento, cioè la macchinetta per fare i tatuaggi, con tutti i suoi annessi e connessi.

Da dove trai ispirazione?

Semplicemente da me stessa e ovviamente da tutto ciò che mi circonda e mi contagia in senso positivo: immagini, ma soprattutto emozioni. Si può davvero dire che traggo ispirazione dalle mie emozioni.

Se dovessi definire il tuo stile con un aggettivo, quale sceglieresti?

Un aggettivo solo?…E’ un po’ difficile, perché io stessa non sono mai una cosa sola quindi neanche un solo aggettivo penso che definirebbe il mio stile. Se vuoi che te lo descriva con una parola direi stile TOY, cioè me stessa…Se invece mi dai la possibilità di definirlo con più aggettivi, sarebbero sicuramente “immaginativo”, “surreale”, “onirico”, “infantile”, “simbolico”, “giocoso”, “concettuale”.

Quali sono i tatuaggi più richiesti?

Lavoro molto con i racconti e le storie delle persone, a cui chiedo di definirmi che tipo di tatuaggio vogliono dal punto di vista degli aggettivi e delle loro emozioni in maniera che io possa trasferirli su pelle. Ovviamente un soggetto ricorrente è la donna, le mie bambole con occhi grandi. Il messaggio, molto spesso, è nei dettagli.

La tua è una carriera internazionale: che ci racconti al riguardo?

Ho una lista d’attesa molto lunga qua a Milano. Cerco di viaggiare il più spesso possibile, ma non sempre riesco a viaggiare come vorrei in quanto sono molto presente nel mio studio milanese. Ho in previsione, comunque, viaggi in Giappone e in America.

Esiste un tuo cliente tipo?

Il mio cliente tipo rientra in una vasta lista di persone che si tatua da me da moltissimi anni, e devo dirti che il 50% dei miei clienti sono tutti clienti che ho tatuato più volte. Da me si sono fatti braccia intere o comunque molti tatuaggi, e di questo ne sono molto felice. Il mio cliente tipo è colui che conoscendomi e fidandosi mi lascia ampio spazio di azione. Tatuo più ragazze per scelta, in quanto i miei tatuaggi spesso hanno colori molto femminili. Ma quando iniziai, nel ’96, tatuavo più maschi: anche i tatuaggi con tanto nero e molto potenti fanno parte di me.

Photo courtesy of Amanda Toy

La notte, l’arte, la “contaminazione”: incontro con il Principe Maurice

All’ anagrafe il suo nome completo è Maurizio Agosti Montenaro Durazzo, ma è unanimemente conosciuto come Principe Maurice. E un principe, Maurizio Agosti, lo è davvero: discende da una casata d’ illustre lignaggio che affonda le origini nel Veneto della Serenissima, e da vent’anni a questa parte ha scelto proprio Venezia come sua dimora.  Eclettico, visionario, eccentrico, nel suo CV alterna studi di Marketing Bancario al Conservatorio ma in lui, a prevalere, è stata decisamente la vena artistica. Dire “Principe Maurice” equivale ad evocare un’ incontrastata icona dei cultori della nightlife: colui che, con magnetismo straordinario, ha movimentato le notti della Piramide del Cocoricò di Riccione durante la “favolosa” decade dei ’90, ma non solo. Star del cosiddetto teatro notturno, il Principe Maurice si muove tra Djset e performance, esibizioni musicali e prove di canto, ballo e recitazione, party esclusivi e spettacolari eventi di cui è regista e autore. La città della laguna lo vede protagonista indiscusso: Direttore Artistico dell’ Associazione Internazionale del Carnevale di Venezia, è Gran Cerimoniere oltre che figura ormai emblematica della kermesse. Oggi, la sua carriera sfaccettata ed esplosiva viene celebrata in un docufilm, Principe Maurice #Tribute, diretto da Daniele Sartori. E’ un’ alternanza di interviste e footage a raccontare questo sommo artista “della notte” in tutto il suo carisma: con il Principe Maurice ho parlato dell’ omaggio che Sartori gli ha dedicato e di molto altro ancora.

 

Icona della nightlife, performer, artista a 360°: quale definizione ti calza più a pennello?

Penso che “performer” sia la più adeguata poiché mi consente di non definirmi esattamente. Icona lo sono diventato grazie ai miei tanti estimatori e penso anche per l’originalità del mio personaggio. Artista a 360° mi piace vista la mia passione ed applicazione in varie discipline… insomma, di tutto un po’.

Come nasce il Principe Maurice?

Il Principe Maurice è nato dall’esigenza di sovrapporre alla mia vita reale una dimensione surreale ma sempre personale. E’ stata la naturale evoluzione di una personalità composita e curiosa. Il mondo della notte è stato mio complice con le sue atmosfere rarefatte e a volte morbose.

Il Principe Maurice nei panni di Giacomo Casanova – Foto di Marco Bertin

Discendi da un’antica famiglia dell’ aristocrazia veneto-napoletana. Qual è il tratto più nobile presente in te?

La mia famiglia mi ha trasmesso valori fondamentali quali la libertà, la dignità e l’amore. Non ho avuto un’educazione “borghese” legata al patrimonio e all’ostentazione. Credo che il tratto più riconoscibile sia una naturale eleganza del gesto e del linguaggio e la grande sensibilità verso la Bellezza.

Da bancario a star del “Night Theater Show”. Perché hai scelto la notte e cosa rappresenta, la notte, per te?

Fin da bambino la notte per me significava magia. Non ho mai avuto paura del buio e in vacanza mi si lasciava sveglio a fantasticare. Leggere e suonare di notte ha un altro sapore. Quando crei atmosfere oniriche hai bisogno dell’oscurità. Con le luci di scena hai uno strumento in più per suggestionare e caratterizzare ciò che fai. La notte è complice, è libera e libertina, è una sfida tra eros e thanatos che mi ha sempre intrigato. Infine, è la mia dimensione ideale.

Il Principe Maurice (in total look Issey Miyake e gorgera Swarovski Jorge Santos) e Daniel Didonè immortalati da Daniele Cipriani

Un diploma al Conservatorio con il massimo dei voti, studi di canto, danza e recitazione, mentori prestigiosi come Lindsay Kemp: come si inserisce questo background nel tuo ruolo di anfitrione delle più note discoteche italiane ed internazionali?

La mia preparazione e continua ricerca mi consentono di esprimermi in maniera intensa ed emozionale in un contesto piuttosto tecnologico e impersonale. E’ questa la differenza tra “animazione” e “teatro notturno”. Il mio modo di intervenire è fortemente contaminante e solo con strumenti artisticamente e tecnicamente affinati è possibile elaborare linguaggi che pur molto alternativi e sperimentali riescono a toccare le corde sensibili di un pubblico non abituato a queste atmosfere. La possibilità di avere Maestri straordinari è stata una grande fortuna.

Hai dichiarato di essere stato fortemente ispirato da Klaus Nomi. Che tipo di influenza ha esercitato sulla tua traiettoria artistica?

Klaus Nomi, con la sua voce incredibile e la sua presenza scenica drammatica e grottesca al tempo stesso, è per me un punto di riferimento proprio per quella sua unicità nel proporre, in particolare, la musica barocca in modo nuovo e godibile anche dal mondo “pop”. E’ esattamente quello che cerco di fare io nell’ambiente “techno”. Non l’ho mai incontrato personalmente ma quando l’ho scoperto è diventato il mio modello assoluto. L’altro mio grande mentore è stato Lindsay Kemp, con lui ho studiato e praticato la magica arte della pantomima moderna.

Il Principe Maurice con Grace Jones al Gran Ballo della Cavalchina del Teatro La Fenice (Carnevale di Venezia 2009)

Il Carnevale di Venezia ti ha visto, per anni, nei panni di un Giacomo Casanova poi proclamato maschera ufficiale della kermesse. Cosa ti affascina, del grande seduttore veneziano?

Giacomo Casanova è il testimone più autentico del modus vivendi del suo secolo, il mio preferito, il ‘700. Ha creato il mito di se stesso con la sua esistenza fatta di avventure di ogni genere e di grande curiosità intellettuale. In lui riconosco i miei tre valori fondamentali: la libertà, la dignità e l’amore. Non è tanto il celeberrimo libertino che mi intriga quanto il temerario, iperbolico, adorabile cialtrone ma anche autentico e libero “illuminato” che vive in maniera così intensa e libera una vita esaltante e tribolata a cavallo di cambiamenti radicali che lo vedono rifugiarsi nelle sue memorie per non soccombere. Ho perorato personalmente la sua “elezione” a nuova Maschera (“Il Casanova”) della Commedia dell’Arte codificando il personaggio e dandogli un cliché di immagine con il noto costumista Stefano Nicolao. Un modo per renderlo immortale attraverso il Teatro.

A Grace Jones ti lega una collaborazione di lunga data. Com’è scattata l’ alchimia tra di voi?

Conosco Grace da 35 anni. Ero ragazzino la prima volta che l’ho incontrata a Milano in una festa per la Settimana della Moda. E’ stato un colpo di fulmine e in lei ho subito intuito la personalità straordinaria oltre a subirne il fascino totale. Anche lei si è sentita immediatamente in sintonia con me intuendo qualità che nemmeno io conoscevo e che ho scoperto e migliorato proprio grazie alla nostra frequentazione. Per un periodo siamo stati anche “fidanzati”, ma sapevamo bene che l’Amicizia ha più durata e quindi il nostro rapporto si è tarato in quel senso. Godere della sua fiducia al punto da invitarmi sul palco della Royal Albert Hall in concerto all’improvviso per ballare “Libertango” chiamandomi dal pubblico dà il senso della confidenza e della complicità che nel tempo si è creata tra di noi. La considero come una componente della mia famiglia e la cosa è ricambiata. Basti pensare che quando si è esibita al Giubileo di Diamante della Regina Elisabetta II d’Inghilterra, avendo a disposizione pochi e preziosi inviti ufficiali e personali, mi ha fatto recapitare da Buckingham Palace il mio facendomi un regalo indimenticabile. Abbiamo troppo poco spazio qui per poter spiegare cosa significa per me questo rapporto così speciale e completo.

La locandina di “Principe Maurice #Tribute” di Daniele Sartori

“Principe Maurice #Tribute” è il titolo del docufilm che ti ha dedicato il regista Daniele Sartori: ce ne vuoi parlare?

Daniele Sartori, amico veneziano che ho conosciuto quando da ragazzo frequentava il Cocoricò ed era già mio fan, è un regista di grande talento che ha ricevuto riconoscimenti internazionali per i suoi corti rivolti in particolare alla cultura Queer. Mi chiese tempo fa di fare un cameo in un suo lavoro importante e ne scoprii l’originalità e bravura. Quando mi ha proposto di seguirmi per un certo periodo in modo da realizzare un docufilm su di me ne sono rimasto colpito e ho risposto subito si. In lui riconosco la capacità di esprimersi con diverse tecniche mantenendo il filo del racconto, un po’ come Kubrick, quindi il più adatto a rappresentare le mie tante personalità. Così è stato: Principe Maurice # Tribute è un insieme di corti, tre di video arte e altri di reportage, molto diversi tra loro e  legati da un’intervista in cui spiego il mio percorso artistico ed esistenziale entrando anche nell’intimo… c’è un omaggio a Klaus Nomi ed uno a Lindsay Kemp. Il mediometraggio che dura circa 50 minuti ed ha una colonna sonora originale elaborata da me con i mitici Datura, ha già fatto il giro di Festival di Cinema quali Firenze, Torino, Milano, Venezia e l’ultima proiezione prima della distribuzione è al Cinepalace di Riccione, dove tutto è nato, ad inaugurare una rassegna di Cinema d’Essai (3 ottobre) voluta dal patron Massimiliano Gometti in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura.

Le lenti bianche e la Piramide del Cocoricò sono gli emblemi a cui la mia generazione associa, da sempre, il Principe Maurice. Se ne dovessi indicare un terzo ai “posteri”, quale sarebbe?

La “contaminazione”, una parola che amo e che è stata anche il titolo della mia prima esperienza radiofonica su Radio Capital nel ’94.

Il Principe Maurice in un look di Vivienne Westwood

“Last, but not least”: in VALIUM il focus sul fashion è preponderante. Che rapporto hai con la moda o con lo stile in generale?

Lo stile è più importante della moda, me lo hanno insegnato Grace Jones e David Bowie, che pure ho avuto il privilegio di frequentare per un po’… Ci sono stilisti straordinari che nelle loro collezioni mettono capi, magari   poi nemmeno in produzione, che se riesco ad accaparrarmi (quasi sempre) entrano nel mio repertorio di costumi. Tra questi, oltre ad outfit fatti apposta per me dal mio compagno (scomparso prematuramente 8 anni fa ma sempre nel mio cuore) Pierluigi Voltolina ho parecchi pezzi di Issey Miyake, Jean Paul Gaultier, Thierry Mugler, Martin Margiela, Vivienne Westwood, Alexander McQueen, John Galliano e tanti abiti di scena autenticamente teatrali e anche antichi che “contamino”, appunto, con accessori particolari spesso fatti su mio disegno. In ogni caso la Moda è sempre più Teatro e segno dei tempi, quindi a modo suo Arte.

Photo courtesy of Maurizio Agosti

A colloquio con Greta La Medica, poliedrica icona

Photo by Oskar Cecere

Dai giorni dell’ ultima Fashion Week milanese, non si fa che parlare di lei: passare inosservata non si addice a Greta La Medica, icona glamour che ha stregato il parterre della sfilata Primavera/Estate 2017 di Fausto Puglisi. VOGUE Italia la definirebbe #untaggable, impossibile da incasellare in catalogazioni standard o in categorie ben precise. Stylist, dj, esteta, musa di designer quali Fausto Puglisi e Riccardo Tisci, Greta è una creatura ammaliante e poliedrica, colta e sofisticata ma al tempo stesso profondamente estrosa, notturna, trasgressiva. Persino i suoi “colori” rivelano un mix di contrasti: bionda come una scandinava benchè sia nata nel profondo Sud, emana una allure che coniuga al fascino una buona dose di mistero dark. Non è un caso che, sulla passerella di Puglisi, abbia calamitato tutti gli sguardi mentre incendeva tra statue di Madonne barocche e croci al neon con l’ aplomb di una modella consumata. Per Greta è stato subito boom: richiestissima, la femme fatale milanese d’adozione ha moltiplicato il numero dei suoi fan in modo esponenziale. Ed è una vera e propria star  – a Milano, i suoi dj set del venerdì sera al Blanco sono un must – di un universo che costantemente intreccia lo sfavillio della nightlife a quello del fashion world.

Com’è stato sfilare per un designer del calibro di Fausto Puglisi?

Io e Fausto ci conosciamo da tanto tempo, entrambi abbiamo le nostre radici in Sicilia. Poche settimane fa, mi ha chiesto di incontrarlo per parlare di un “progetto speciale”. Facendo la stylist, ed essendo sempre stata dall’altra parte della passerella,  non mi sarei mai aspettata che volesse propormi di fare da modella per il suo show, mi ha letteralmente spiazzata. I giorni prima dell’evento mi sono sembrati quasi irreali e carichi di forti emozioni in cui una grande eccitazione si alternava a momenti di forte insicurezza: io con il  mio  metro e 67 e diciamo non esattamente giovanissima, fra tante ragazze appena maggiorenni e bellissime. Ero molto emozionata, quasi terrorizzata. Il giorno dello show l’ho vissuto come un sogno bellissimo,  avevo l’adrenalina a mille e non mi sono quasi accorta di quanto la giornata fosse stata lunga ed intensa; l’appuntamento per le prove era di primo mattino e durante il giorno ho sfilato 2 volte, anzi 3 se penso anche alla presentazione privata fatta nel backstage per Anna Wintour! E’ stato davvero un sogno oltre che un grande onore, e ora che rotto il ghiaccio lo rifarei altre mille volte.

Che rapporto hai con la moda?

Simbiotico: per me non è semplicemente un sostantivo bisillabico, spesso anche connotato in senso negativo per via della sua caducità. E’  l’insieme di fascinazioni che arrivano da un quadro, da un film, da un viaggio, un volto, da cui si cerca di estrarre l’essenza per renderla “eterna”, per non dimenticare. La moda è pura magia e se non incanta non si può definirla tale.

Greta sulla passerella di Fausto Puglisi

Nasci come truccatrice e stylist. Come ha avuto inizio la tua avventura da dj nei più celebri “templi della notte”?

Ho studiato Lettere Antiche a Milano, è stata una scelta meravigliosa, mi ha reso poliedrica, elastica… Qualsiasi  suggestione mi sia arrivata l’ho trasformata in lavoro. Nel mio DNA scorre sangue da vampiro, amo la notte, mi ispira molto più del giorno. Qualsiasi studio o lavoro io abbia intrapreso, ho sempre avuto un rapporto parallelo con i club come fossero “amanti”. Non potrei vivere senza musica e forse non ci sarebbe vita senza di essa. Persino le stelle pare la producano nel cosmo.

Rock e moda hanno sancito, ultimamente, un connubio del tutto speciale. Da dove sorge questo feeling, a tuo parere?

Non vorrei essere troppo oscura in questa risposta, ma credo che arrivi dalle tenebre: parliamoci chiaro, le rockstar raccontano poemi di anime tormentate, che non hanno pace. E’ un’eredità lontana che arriva dallo “Sturm und drang”, da Baudelaire. Quale designer non è stato ispirato dal rock? Oggi più che mai, forse perchè siamo in una fase dissacratoria e tormentata culturalmente. E’ un periodo di buio e la moda lo deve narrare.

Photo by Giampaolo Sgura

Il tuo è un look d’impatto, inconfondibile, lo definirei da “femme fatale pensante”. Qual è la playlist che meglio ti esprime?

In questa risposta vorrei mescolare insieme musica e cinema, sintetizzo una top five: 1) “Sinnerman” di Nina Simone. 2) “The Tenant” di Roman Polansky. 3) “Janitor of Lunacy” di Nico. 4) “Lo Zoo di Venere” di Peter Greenaway. 5) “Per una Bambola” di Patty Pravo. Ma il mio sogno sarebbe ascoltare Grace Jones che canta al piano con Michael Nyman.

La musica, lo stile, e…? Quali sono le tue altre passioni?

Ultimamente sto maturando una passione pericolosa per le pietre preziose, sto studiando il loro linguaggio energetico, mi rapisce il loro colore, la luce che emanano: come se avessero un’anima. Sono una grande appassionata di cinema, da come si è intuito, e in questo periodo sono letteralmente drogata di serie TV di cui sono in grado di divorarne un’intera stagione in una sola notte. E coltivo un amore immutato nel tempo per “La Recherche” di Marcel Proust: la porterei nell’Arca insieme a tutti gli animali, se dovessimo estinguerci…Ma non porterei l’uomo!

Con la moda hai intrecciato una liason fissa. A quali designer ti senti maggiormente affine?

Discorso complicato per non dire periglioso. Non sono vittima di un marchio preciso, non voglio banalizzare rispondendo con la classica frase “dipende dalle occasioni”, ma in una situazione tipo mi piacerebbe: bere un caffè in una collezione 2010/11 di Stefano Pilati per YSL ispirata alle Suore Nere, sposarmi in un abito bianco che Riccardo Tisci disegnò nella couture del 2007 per poi uccidere lo sposo in un abito tailleur di Thierry Mugler ispirato alle formiche e andare a ballare infine in un  look gladiatrice bondage, completamente ricamato di strass e firmato Fausto Puglisi, ovviamente!

Greta alla consolle

Cosa pensi del trend no gender?

Penso che se gli alieni invadessero la Terra un giorno non starebbero a guardare cosa conservi sotto le mutandine, per essere spiccioli… in questa prospettiva cerco di interpretare la mia esistenza: sono nata in un modo, mi sono evoluta in altra forma, cerco di stare bene con me stessa. La chiave sta nell’accettazione di ciò che si è in senso ontologico; dialogare con se stessi e trovarsi. Se poi la moda negli ultimi anni sta riuscendo a scardinare gli idola tribus ereditati dal cattolicesimo, credo sia un messaggio catartico rivolto alla Libertà, che è il valore più alto dell”uomo!

Una domanda che sembra rubata ad un colloquio di lavoro: come ti vedi tra 10 anni?

Mi vedo identica ad oggi, non so se farmi i capelli con riga al centro o laterale forse accorciarli, ma sicuramente sarò bionda!

Che ci racconti, invece, del tuo immediato futuro?

Ci sono diversi progetti molto allettanti artisticamente di cui non parlo per scaramanzia. Un giornale ha scritto: dj, stylist, trendsetter e musa. Ecco, direi che il ventaglio è abbastanza ampio. Continuerò a produrre ed  ispirare con quella consapevolezza ereditata dal classicismo che le sole Muse nacquero da Zeus e Mnemosine e quindi starò con i piedi per terra!

Greta con Fausto Puglisi

Greta La Medica profilo Instagram: greta_lamedica

Photo courtesy of Greta la Medica

 

 

Eve La Plume, eterea diva

Photo by Bostjan Tacol

Di lei colpiscono immediatamente l’ allure sofisticata, l’ incarnato diafano a contrasto con la chioma color rame. I fiori intrecciati tra i capelli pettinati a ondine richiamano la nuance vibrante del suo lipstick: lo stile è anni ’30 DOC, con incursioni ad ampio spettro nel rétro enfatizzate da abiti scenografici e preziosi. Eterea, fascinosa, garbatamente seduttiva, Eve La Plume è una Burlesque performer che si distanzia in toto dallo stereotipo della pin up. Al Summer Jamboree – dove, per il secondo anno consecutivo, è stata confermata conduttrice – ha sfoggiato creazioni di Luisa Beccaria con una grazia innata, donando risalto ad evening dress che erano un trionfo di pizzo e tulle. Fotografatissima, al Festival senigalliese Eve è ormai una diva. Ma non perde mai di vista l’ ironia, né un entusiasmo genuino, nel raccontarsi e nel raccontare passioni, tappe e progetti che tracciano il percorso della sua poliedrica carriera.

Sei al bis come presentatrice del Summer Jamboree. Qual è il tuo bilancio di queste due edizioni?

Rimango sempre sbalordita da questo Festival, organizzato da due persone che su un grande amore personale per gli anni ’50 hanno imbastito un evento meraviglioso che attira pubblico da tutto il mondo. Venire qui è per me, ogni volta, un’ iniezione di felicità. E’ davvero impressionante! Non si può essere tristi, al Summer Jamboree. Il mio bilancio, quindi, è superpositivo.

Puoi raccontarci qualche aneddoto relativo alla kermesse?

Al Summer Jamboree girano moltissimi fotografi, ufficiali e non. Il risultato è che si è fotografati a qualsiasi ora del giorno e della notte. Ci ho fatto l’abitudine, ma è impegnativo! Un giorno al mio fidanzato ho detto “Basta, oggi ci prendiamo una giornata liberatoria lontani dalle macchine fotografiche e dalle telecamere”, e siamo andati in spiaggia vicino alla Rotonda. Mi sono tolta il copricostume, mi sono slegata i capelli, sono entrata in acqua e ho sentito una signora che mi diceva ‘”Mi scusi signorina, la stanno chiamando da lassù!”: mi sono girata, ho guardato la Rotonda e ho visto tre teleobiettivi giganteschi, quattro macchine fotografiche, tutta l’organizzazione del Summer Jamboree  – che si trovava lì per caso, in realtà, ma vista Eve in acqua senza tutti i suoi artifici…Sono impazzita dal ridere, mi sentivo come le dive anni ‘50 paparazzate ovunque! E’ stato davvero comico. E gli scatti che ne son venuti fuori sono molto belli perché spontanei. Incredibile: persino in mezzo al mare sono riusciti a trovarmi!

Perché hai scelto di chiamarti Eve La Plume?

È una storia un po’ complicata, però posso semplificarla. Adoro il nome Eve perché è palindromo, cioè si legge anche al contrario. Ha tre lettere e a me piacciono i nomi brevi, e poi è il nome di una primadonna come Eva. “La Plume” perché fin da ragazzina mi hanno associata al concetto di leggerezza, quindi volevo un nome che contenesse un elemento leggero, delicato. In più, quando si pensa alla piuma, si pensa sempre alla piuma bianca, che svolazza. Nell’ immaginario collettivo la piuma è leggera e bianca. Dunque, Eve La Plume: un nome che è come una piccola poesia, molto fonetico.

Photo by Bostjan Tacol

Il tuo sofisticato stile d’antan è inconfondibile. Quali sono le tue epoche preferite?

Sono appassionata del periodo che va dalla fine dell’800 agli anni ’30 e ’40 del ‘900: il periodo della Belle Epoque, del Liberty, dell’ Art Déco. Di quell’ epoca amo l’estetica in toto: architettura, arredamento, abbigliamento…

Hai icone di riferimento a cui ti ispiri?

La Marchesa Luisa Casati è stata per me un innamoramento a prima vista, una folgorazione: era una donna coraggiosa, molto moderna, una performer di inizio ‘900. Con la cura, con lo studio, ha fatto di sé un’opera d’arte. Per un periodo mi è piaciuta Kiki de Montparnasse, una sorta di groupie di fine ‘800, e poi tante altre…Ammiro le donne audaci e “fuori dal loro tempo”, che hanno condotto una vita ben diversa rispetto a quella, costrittiva, delle donne dell’epoca.

Il Burlesque inneggia al glamour e all’ arte della seduzione. Che cos’è, per te, la femminilità?

Io non associo il Burlesque all’ arte della seduzione: per me è una ricerca estetica. Anche se, in generale, è sempre collegato alla sensualità femminile. Di sicuro la bellezza ha un suo lato sensuale. Il Burlesque va comunque alla ricerca di una bellezza del passato, dell’immagine di una donna che fu. Per me femminilità è la cura di sé, una cura estetica a 360° che comprende l’atteggiamento, la parola, il modo di muoversi, il modo di porsi…E’ questo che mi interessa. Perché oggi si guarda spesso a una bellezza molto più immediata e non alla cura che si costruisce nel tempo con i gesti, le parole, l’educazione.

Photo by Bostjan Tacol

Una domanda a bruciapelo: cosa voleva fare, da grande, Eve La Plume?

Da ragazzina, intorno agli 11 anni, volevo fare l’insegnante di pattinaggio artistico. Pattinavo tutti i giorni, era la mia missione di vita, e poi l’ ho fatto. Quando sono diventata più grande insegnavo pattinaggio artistico e mi sono resa conto che faceva così freddo, ma così freddo, che ho abbandonato l’ idea dopo 2- 3 anni! Poi volevo fare la stilista e quindi ho aperto un laboratorio di sartoria in cui si facevano abiti ed accessori per i negozi, per gli artisti che calcavano i palchi. E’ durata 10 anni. Infine, volevo diventare la regina del Burlesque! Ed è andata abbastanza bene, devo dire. Quando mi metto in testa di fare qualcosa, in qualche modo ci riesco. Non sempre con lo stesso successo, però i miei sogni li concretizzo. E riesco a non avere rimpianti.

Quali sono i tuoi progetti più immediati?

Tra i miei progetti più immediati di sicuro c’è “Ultimo Spettacolo”, uno spettacolo teatrale che gira l’ Italia da un paio d’anni e il 12 novembre prossimo sarà a Bologna: spero che decolli perché ne sono molto orgogliosa. E poi ci sarà Venezia, perché sono già 6-7 anni che faccio parte del cast del Ballo del Doge e di altri eventi del Carnevale Veneziano. In più,ho in programma tante date e feste private in giro per l’ Italia.

Photo by Bostjan Tacol (https://www.facebook.com/PhotobillyPhotography/)

L’ abito blu e l’ abito in pizzo bianco che Eve indossa sono firmati Luisa Beccaria

“Franca: chaos and creation”: a Venezia il docufilm che racconta il direttore di Vogue Italia

E’ la “Signora della Moda” per eccellenza: Franca Sozzani, dal 1988 al timone di VOGUE Italia,  ricopre anche i prestigiosi incarichi di direttore di L’ Uomo Vogue e direttore editoriale della Casa Editrice Condé Nast. Ma al di là delle vette professionali raggiunte (che la vedono, inoltre, alla guida di tutte le testate italiane “griffate” VOGUE), il suo ruolo di influencer si è affermato grazie ad un intuito sopraffino, al coinvolgimento in importanti topic sociali, ad una straordinaria  visionarietà. La rimessa in discussione dei canoni di bellezza, la lotta contro i disturbi alimentari, i celeberrimi Plastic Surgery e Black Issue hanno rivelato le doti pioneristiche ed il talento sovversivo di colei che ha saputo imporsi, a titolo definitivo, come la figura più iconica ed autorevole del fashion system. A “raccontarla”, oggi, è un docufilm d’eccezione: diretto dal figlio Francesco Carrozzini, in 78 minuti delinea un ritratto di Franca Sozzani accurato e disinvolto al tempo stesso. Frammenti di girato, superotto che immortalano squarci della sua infanzia e adolescenza, il tributo delle celebrities intervistate – tra cui appaiono Karl Lagerfeld, Baz Luhrmann, Naomi Campbell, Courtney Love e Bruce Weber solo per citarne alcune – compongono i tasselli di un puzzle che descrive a tutto tondo il direttore di VOGUE Italia. Nella pellicola, che sarà presentata in anteprima stasera, alla Mostra del Cinema di Venezia,  il fotografo e regista Francesco Carrozzini traccia un excursus che, oltre a rivelare Franca Sozzani come business woman e donna,  si addentra nella relazione madre-figlio evidenziandone la quintessenza. Il “Sozzani-pensiero” appare in tutto il suo fulgore: volitiva e votata al controllo, ma non per questo priva di una leggerezza che sdrammatizza la vita con rinfrescante ironia, Franca crede fermamente nella potenza dei sogni e attende un Principe Azzurro non ancora pervenuto. Anche se – con ogni probabilità – al suo arrivo sarà già proiettata verso nuove idee e nuovi lidi, incontro a quel futuro che persegue costantemente, capace di stravolgere, con la sua ingegnosità creativa, persino il fluir del tempo. Sempre intenta a creare, a scoprire, a lanciare, in perenne movimento: se come diceva Nietzsche “Bisogna avere un caos dentro di sè, per generare una stella danzante”, non poteva esistere titolo migliore (Franca. Chaos and creation) per descriverla in un docufilm che rappresenta, simultaneamente, un omaggio e un lascito. La dichiarazione d’amore da parte di un figlio che ha voluto regalare a sua madre il dono più bello: una testimonianza che celebra l’ audacia, l’ estro, la marcia in più di una “Signora della Moda” davvero speciale.

Photo by Studio NYC (Opera propria) [CC BY-SA 4.0 (http://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)], attraverso Wikimedia Commons

“MemoryCard” di Rita Vitali Rosati: quando il vissuto visivo si fa racconto

 

Rita Vitali Rosati

Dissacrante, visionaria, ironica, eclettica, acuta e sensibile osservatrice del suo tempo: una manciata di aggettivi che non basta a definire Rita Vitali Rosati, ma che tenta di condensarne la quintessenza. Nata a Milano, fabrianese di adozione, Rita è un’ artista che traduce in opere giocosamente trasgressive il suo personale “inventario” del reale. Pittura, fotografia e performance sono solo alcune delle modalità espressive di cui si avvale. A fare da leitmotiv, immagini che con attitude destabilizzante, ma pervasa di poesia intrinseca, riflettono lo sguardo dell’ artista sul mondo e sui suoi tic:  Rita si fa interprete in prima persona dei concetti che esplora, amplifica e ribalta continuamente le coordinate della propria visionarietà. “Mette una lente di ingrandimento sul formicolio sociale” – come recita la sua biografia ufficiale – scrutandolo con occhio ironico, a tratti con crudezza. Ma soprattutto, è sempre in grado di sorprenderci con la sua travolgente inventiva: stavolta lo fa con MemoryCard, progetto che racchiude in un inedito packaging in latta 50 cartoline associate ad altrettante immagini, 25 delle quali ospitano un breve racconto d’autore. Estrapolate dal vasto repertorio che l’ artista ha realizzato nel tempo, le foto condensano un vero e proprio vissuto visivo. Ho incontrato Rita per saperne di più su questo innovativo, singolarissimo photo-book.

MemoryCard è un mix eclettico di fotografia, design e scrittura dal forte impatto visivo. Come “racconteresti” quest’ opera?

Il raccontare dell’opera si evince scoprendo il fil rouge  che lega i testi alle immagini. Seguendo il proprio istinto che indica una corsia privilegiata unendo in una sintesi l’input dato dalle immagini, (che sono le domande) a quello dei testi, (che sono le risposte). O rovesciando il tutto, sorpresi dalla natura vicendevole dei soggetti.

Perché la scelta di un titolo ispirato alla scheda informatica che mantiene i dati in memoria?

E’ un titolo che parla dell’attualità, per vivere la contemporaneità.

Le “contaminazioni artistiche” sono oggi molto in voga. Su quali criteri ti sei basata per la scelta degli autori?

Non mi piace il termine “contaminazione”, nasconde una qualche patologia in atto. Prediligo l’espressione “duettare”, si anima di passione, di complicità, di armonie in divenire.

Qual è il link che fa da leitmotiv ai 50 scatti?

Il tema dell’assenza è l’idea trainante dell’intero progetto adottato per dare l’agio allo scrittore di colmare, senza eccessiva premeditazione, il vuoto indicato dalle immagini che, nelle sue declinazioni, sono lo scenario per le diverse interpretazioni degli autori che ne hanno fatto, così, un racconto.

Se dovessi descrivere il connubio tra immagine e racconto con un aggettivo, quale utilizzeresti?

Ho una particolare predilezione per gli ossimori, perciò le definirei “silenziosamente eloquenti”.

Come nasce l’ intuizione del pack in latta?

L’input creativo nasce da una sinergia: una corrente carica positivamente di indizi, di impulsi che hanno sede in un’area astratta, altra, quindi metafisica, si incontra con un ricevente che è già sintonizzato, perché istruito a plasmarlo  secondo il proprio istinto e la propria sensibilità. E la propria cultura.  Per deformarlo. Ecco, la mia scatola è una deformazione di un vuoto che è stato riempito.

“Che cos’è, detto sottovoce, la memoria?” si chiede Gordon Splash in un passaggio del suo racconto. Cosa gli risponderesti?

Ci deve essere un fantasma che riscrive i ricordi a volte al contrario percorrendo il vissuto con una luce particolare per darsi come testimonianza.

Calvino scrisse: “La fantasia è il burro, ma perchè sia produttiva bisogna spalmarla su una fetta di pane.” Qual è la tua “fetta di pane”?

Preferisco il Panettone (!).

 

 

 

Gli scrittori presenti nell’ opera sono: Laura Bosio, Enrico Capodaglio, Alessandro Catà, Filippo Davoli, Paolo Di Paolo, Angelo Ferracuti, Chicca Gagliardo, Bianca Garavelli, Roberta Lepri, Giuseppe Lupo, Gian Ruggero Manzoni, Angelo Mastrandrea, Marco Missiroli, Alessandro Moscè, Feliciano Paoli, Laura Pariani, Aurelio Picca, Silvio Ramat, Francesca Scotti, Fabio Scotto, Gordon Splash, Paolo Valesio, Gian Mario Villalta, Piergiorgio Viti, Alessandro Zaccuri.

MemoryCard, prodotto in esemplari di 500 pezzi editi da Hacca Edizioni, contiene inoltre alcuni gadget più un piccolo catalogo e gli interventi critici di Maria Letizia Paiato, Paola Paleari e Marcello Sparaventi.

Photo courtesy of Rita Vitali Rosati