La promessa della Primavera

 

” E come nella vita l’attesa di un bene certo ci dà piú gioia che il raggiungerlo (ed è saggio non approfittarne subito, ma conviene assaporare quella meravigliosa specie di desiderio che è il desiderio sicuro di essere appagato ma non ancora praticamente soddisfatto, l’attesa insomma che non ha piú timori e dubbi e che rappresenta probabilmente l’unica forma di felicità concessa all’uomo), come la primavera, che è una promessa, rallegra gli uomini piú dell’estate che ne è il compimento sospirato, cosí il pregustare con la fantasia lo splendore del poema ignoto, equivale, anzi supera il godimento artistico della diretta e profonda conoscenza. Si dirà che questo è un gioco della immaginazione un po’ troppo disinvolto, che cosí si apre la porta alle mistificazioni e ai bluffs. Eppure, se ci si guarda indietro, constatiamo che le piú dolci e acute gioie non hanno mai avuto un piú solido costrutto. “

 

Dino Buzzati, da “Sessanta racconti”

Il viaggio

 

” Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione. Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto: “Non c’è altro da vedere”, sapeva che non era vero. La fine di un viaggio è solo l’inizio di un altro. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si è visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l’ombra che non c’era. Bisogna ritornare sui passi già fatti, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre. Il viaggiatore ritorna subito. “

José Saramago, da “Viaggio in Portogallo”

Vita, favola o mito

 

” Quante risate! Non hanno mai saputo cosa fare della mia data di nascita. E’ nata il 6 luglio 1907? Oppure il 7 luglio 1910? Mi sono proprio divertita a guardarli mentre se la sbrogliavano. Tutti, sedicenti biografi, universitari, giornalisti, studenti, amici, rimanevano confusi, si sentivano obbligati a dimostrare. Talvolta gli piaceva immaginare che la mia vita, raccontata o no per bocca mia, non potesse che essere favola o mito. Avevano continuamente bisogno di persuadersi che ogni mia azione, ogni avvenimento dovesse far parte del “personaggio Frida Kahlo”. Altri si angosciavano: la loro richiesta di onestà risultava intimidita dal fatto di non poter afferrare la “verità”. A questi, occorreva la data esatta, senza la quale la loro coscienza soffriva di “disturbi d’almanacco”, strana vertigine! Oppure si mettevano d’accordo – ed era un modo per risolvere la questione -, sostenendo che io fossi un po’ squilibrata, cosa che aveva il vantaggio di non fare del male a nessuno e di rassicurare tutti. E io, come un diavoletto. E io, birichina. E io, beffarda. (…) Come trascurano, stranamente, che la maggior parte della gente sogna di cambiare nome, faccia, quando non pelle o vita. Allora, io, sì, ho cambiato la mia data di nascita (…). Sono nata con una rivoluzione. Diciamolo. E’ in quel fuoco che sono nata, portata dall’ impeto della rivolta fino al momento di vedere giorno. Il giorno era cocente. Mi ha infiammato per il resto della mia vita. Da bambina, crepitavo. Da adulta, ero una fiamma. Sono proprio figlia di una rivoluzione, non v’è dubbio, e di un vecchio dio del fuoco adorato dai miei antenati. Sono nata nel 1910. Era estate. Di lì a poco, Emiliano Zapata, el Gran Insurrecto, avrebbe sollevato il Sud. Ho avuto questa fortuna: il 1910 è la mia data.”

 

Frida Kahlo in “Frida Kahlo”, di Rauda Jamis

 

Nel cielo color di rose

 

” Quando risuonarono le sette alla cattedrale, c’era una stella sola e limpida nel cielo color di rose, un battello lanciò un addio sconsolato, e sentii in gola il nodo gordiano di tutti gli amori che avrebbero potuto essere e non erano stati. Non sopportai oltre. Presi il telefono col cuore in gola, composi i quattro numeri molto lentamente per non sbagliarmi, e al terzo squillo riconobbi la voce. “

Gabriel Garcìa Màrquez, da “Memoria delle mie puttane tristi”

Il cuore è come la neve

 

” Si dice che il cuore è come la neve. Audace, silenzioso, capace di sciogliersi con un po’ di calore. Da dove vengo io ci credono in tanti. E’ il proverbio dei vecchi, dei bimbi più piccoli, di quelli che brindano alla felicità. Ognuno di noi ha un cuore di neve, perchè la purezza dei sentimenti lo rende terso e immacolato. Io non ci avevo mai creduto. Anche se lì ci ero cresciuta, anche se avevamo il ghiaccio intarsiato nelle ossa, non ero mai stata il tipo da certe dicerie. La neve si adatta, è gentile, rispetta ogni spigolo. Ricopre senza deformare, ma il cuore no, il cuore pretende, il cuore urla, stride e s’impenna. Poi un giorno l’ avevo capito. L’ avevo capito come si capisce che il sole è una stella, o che il diamante è solo una roccia. Non conta quanto sembrino diversi. Conta quanto sono simili. Non importa se uno è freddo e l’altro è caldo. Non importa se uno stride e l’altro si adatta. Io avevo smesso di sentire la differenza. (…) Allora forse è vero, quello che dicono. Forse hanno ragione. Il cuore è come la neve. Con un po’ di buio, diventa ghiaccio. “

 

Erin Doom, da “Nel modo in cui cade la neve”

Quando finisce la scuola

 

” Nel vuoto. Il pericolo di quando finisce la scuola. Grande, grande pericolo. Un burrone. Dopo la maturità, nel momento in cui cessa di colpo l’impegno quotidiano, la sveglia obbligatoria alle sette eccetera, tutti i giorni, tutto l’anno…una cosa che va avanti da quando eri piccolo e all’ improvviso si interrompe. Crolla una struttura, il regime scolastico, un regime di vita. La cui ripetitività quotidiana serve, in un ragazzo, a collegare le varie parti di sé e tenerle insieme, e lo stesso malumore causato dalle attività svolte controvoglia funge da collante, inquadra, dà forma alla persona. La frustrazione o il risentimento contro gli insegnanti, la disciplina contro le cui sbarre sbattere la testa e sfregare la schiena, aiutano appunto ad avere consapevolezza della propria testa, della propria schiena. I vari pezzi di cui è composto un ragazzo cercano il limite entro cui essere contenuti, e sono grati alla barriera, di cui tuttavia non cessano di lamentarsi ogni minuto, che impedisce loro di collassare e andare dispersi, come le pagine di un manoscritto che volano via a un colpo di vento. Il dovere ineluttabile della scuola vince persino chi lo odia, anzi viene rinforzato da quell’ odio. Un’ ininterrotta catena di inezie tiranniche tiene sveglio chi le subisce. “

 

Edoardo Albinati, da “La scuola cattolica”

San Valentino

 

“Eppure, per una di quelle intuizioni dell’animo, apparentemente assurde, che magari al momento non ci si bada ma rimangono dentro, per poi ridestarsi a distanza di mesi e di anni, quando il meccanismo del destino scatterà, Antonio ebbe un presentimento: come se quell’incontro avesse importanza nella sua vita, come se il coincidere rapidissimo degli sguardi avesse stabilito fra loro due un legame che non si sarebbe spezzato mai più, a loro stessa insaputa. Già in passato, più di una volta, aveva constatato l’incredibile potenza dell’amore, capace di riannodare, con infinita sagacia e pazienza, attraverso vertiginose catene di apparenti casi, due sottilissimi fili che si erano persi nella confusione della vita, da un capo all’altro del mondo…”

Dino Buzzati, da “Un amore”

 

Buon San Valentino! Ve lo auguro con un brano tratto dal libro-capolavoro “Un amore” di Dino Buzzati e con una serie di immagini in cui il cuore – rappresentato in svariate versioni – fa da leitmotiv. Come disse Antonio Machado, “il cuore è la regione dell’ inatteso”: un concetto che lo associa all’ amore da sempre e che calza a pennello, peraltro, con la trama del romanzo di Buzzati (chi l’ha letto, mi capirà al volo). In un mondo dove dilaga l’ usa e getta dei sentimenti, celebrare l’ amore “puro” (inteso cioè nella sua quintessenza) è confortante. Viva l’ amore, dunque, e soprattutto viva il cuore: perchè se nasce dal cuore, qualsiasi cosa possiede un valore aggiunto.

 

La leggenda dei monti naviganti

 

” Se vai lento, ovunque tu sia nella fascia temperata del Globo, le tue notti si popoleranno di grilli, belati, fumo di legna, erbe aromatiche, stelle. D’inverno, ti addormenterai circondato di luce lunare fredda, odore di lana infeltrita e letame, tè bollente e sogni caldi, quelli dove le persone hanno odore e sapore. In una parola, la vita. “

 

Paolo Rumiz, da “La leggenda dei monti naviganti”

Il Tempo

” C’era come un odore di Tempo, nell’aria della notte. Tomàs sorrise all’idea, continuando a rimuginarla. Era una strana idea. E che odore aveva il Tempo, poi? Odorava di polvere, di orologi e di gente. E che suono aveva il Tempo? Faceva un rumore di acque correnti nei recessi bui d’una grotta, di voci querule, di terra che risuonava con un tonfo cavo sui coperchi delle casse, e battere di pioggia. E, per arrivare alle estreme conseguenze: che aspetto aveva il Tempo? Era come neve che cade senza rumore in una camera buia, o come un film muto in un’antica sala cinematografica, cento miliardi di facce cadenti come palloncini di capodanno, giù, sempre più giù, nel nulla. Così il tempo odorava, questo era il rumore che faceva, era così che appariva. E quella notte – Tomàs immerse una mano nel vento fuori della vettura – quella notte tu quasi lo potevi toccare, il Tempo. “

 

Ray Bradbury, da “Cronache marziane”

Una passeggiata d’inverno

 

” Eppure, mentre la terra giù in basso sonnecchiava, da tutte le regioni dell’aria superna si riversava vivace un polverio di fiocchi piumosi, come se una nordica Cerere dominasse il cielo facendo piovere su ogni campo la sua argentea semenza. Dormiamo. E finalmente ci ridestiamo alla tacita realtà di una mattina d’inverno. La neve ricopre ogni cosa, calda come cotone, o frana giù dal davanzale. Fioca, dall’ ampia impannata, dalle lastre di vetro rabescate dal gelo trapela una luce arcana, in grado di esaltare l’accogliente tepore della nostra stanza. Profondo è il silenzio del mattino. Il piancito scricchiola sotto i nostri piedi mentre ci accostiamo alla finestra per guardare all’ esterno, volgendo per un lungo tratto fosforescente gli occhi sulla campagna. Vediamo i tetti ristare intirrizziti sotto il loro fardello di neve. Stalattiti di ghiaccio frangiano gronde e staccionate, mentre nel cortile irte stalagmiti rivestono qualche oggetto sepolto. Alberi e arbusti levano da ogni parte candide braccia al cielo; e dov’erano muri e recinti, vediamo fantastiche forme spiccare in archi bizzarri sullo sfondo di quel panorama cupo, quasi che nella notte la natura avesse sparso per i campi alla rinfusa i suoi freschi abbozzi per farli servire da modelli all’ arte dei mortali. Silenziosamente, mettiamo mano al chiavistello e apriamo la porta, lasciando che si richiuda alle nostre spalle facendo ricadere il paletto, e allunghiamo un passo all’ esterno affrontando l’aria tagliente. Le stelle hanno già perduto un po’ del loro scintillio; l’orizzonte è cinto da un orlo di bruma opaco, plumbeo. A oriente, uno sfrontato bagliore vivida proclama il prossimo avvento del giorno, mentre lo scenario a occidente ci appare ancora indistinto e spettrale, e come velato da una fosca luminescenza tartarea, che lo fa assomigliare al regno delle ombre. (…) Nel cortile, le orme fresche della volpe o della lontra ci fanno rammentare che ogni ora della notte è gremita di eventi, e la natura primitiva continua a operare e a lasciare tracce sulla neve. (…) In lontananza, frattanto, oltre i cumuli bianchi e attraverso le finestre impolverate di neve, scorgiamo il lume precoce del contadino emettere, pari a una smorta stellina, un brillio smarrito, come se proprio allora si stessero salutando laggiù i primi albori di qualche austera virtù. E, ad uno ad uno, ecco che tra alberi e nevi da ogni comignolo comincia a levarsi un fil di fumo. “

 

Henry David Thoreau, da “Una passeggiata d’inverno” (ed. Lindau, 2019. Primo racconto del libro omonimo)