Un universo surreale e variopinto come realtà parallela: intervista con Sasha Frolova, icona della Inflatable Art

 

Se dovesse descrivere la propria arte con un aggettivo,  la definirebbe (come dichiara in questa intervista) “miracolosa/affascinante”. Io aggiungerei “ipnotica”, in omaggio all’ assoluto magnetismo delle sue opere: utilizzando il latex gonfiabile, Sasha Frolova realizza sculture spettacolari e avveniristiche, giocose e al tempo stesso surreali, concepite sia per l’ esposizione che come leitmotiv di performance mozzafiato. Classe 1984, nata a Mosca, Sasha ha conquistato il pubblico internazionale con la sua “inflatable art”. Il fashion system, poi, la adora. Per fare solo qualche esempio, non è sfuggita all’ attenzione di VOGUE, Dolce & Gabbana hanno concluso la sfilata di Alta Sartoria a Villa Olmo con una delle sue performance e W Magazine, la patinata rivista statunitense, ha pubblicato un photoshoot di Tim Walker dove celebri star hollywoodiane (inclusa Nicole Kidman) posano tra le creazioni dell’ artista moscovita. Scultura e performance art, nell’ opera di Sasha Frolova, si fondono in un meraviglioso amalgama che le sovrappone e le identifica. Le perfomance prendono vita da sculture in movimento (gli “inflatable costume”, una volta indossati, possono essere definiti tali), mentre queste ultime danno vita alle performance in un gioco di reciprocità continua, con le imponenti e variopinte forme del latex gonfiabile a fare da fil rouge.  E proprio il latex evidenzia un contrasto che suscita stupore: associato per eccellenza al Fetish, ma anche ai giocattoli per bambini, è un materiale controverso. L’uso che Sasha ne fa nelle sue opere contribuisce a spiazzare lo spettatore, incerto se collocarle in un contesto erotico o prettamente naïf. Questo dualismo, con tutte le interrogazioni che esso suscita, rappresenta un elemento di spicco nei lavori della performer russa. Si è più propensi, tuttavia, a scongiurare qualsiasi valenza ambigua a favore del fiabesco, dell’ onirico e del fumettistico, considerati anche i molti riferimenti ai comics ed all’ intento, sottolineato da Sasha Frolova stessa, di creare una realtà parallela priva di ombre, orientata alla positività: da qui, un’arte disseminata di accenti pop che le permette di calarsi in svariati personaggi, dalla Cyberprincess Marie-Antoinette – esibitasi lo scorso Agosto al Castello di Gradara – alla sgargiante music star Aquaaerobika, che sfoggia sul palco la sua lunga chioma in latex ed utilizza enormi lollipop come microfono.  Affascinata da questa artista straordinaria, innovativa e pluripremiata (finalista, tra gli altri, del Premio Arte Laguna 12.13 e vincitrice del premio speciale “Personal Exhibition”, è stata incoronata The Alternative Miss World 2014 al contest di Londra), ho fortissimamente voluto incontrarla per un’ intervista incentrata sul suo iter e sulle sue sbalorditive opere.

Qual è stato il tuo percorso prima di diventare un’artista?

Fin da bambina, il mio sogno era quello di diventare un’artista. Anche mia madre era un’artista, ma non è mai riuscita a trovare lavoro in Unione Sovietica e si preoccupava per me: non voleva che mi toccasse la stessa sorte. All’inizio l’ho accontentata, e dalla scuola d’Arte sono mi sono trasferita al college di Medicina. Ma dopo la laurea ho capito che l’unica cosa che volevo era essere un’ artista. Forse non sarebbe stato possibile capire cosa volevo davvero, cosa mi piaceva, se non avessi provato a capire cosa non mi piaceva. A volte, per capire cosa vuoi, devi prima capire cos’è che non vuoi. E oggi sono grata a mia madre per quella esperienza.

Quando e come hai deciso di dedicarti all’arte?

Pochi mesi prima della laurea in Medicina ho incontrato il mio insegnante, Andrey Bartenev, un famoso artista russo. Da quel giorno la mia vita è cambiata. Ho iniziato ad aiutarlo nelle sue esibizioni e a dedicarmi all’arte a mia volta. Volevo sperimentare. Mi è sempre piaciuto improvvisare, mi piace il risultato imprevedibile che ne scaturisce. A un certo punto mi sono resa conto che volevo dedicarmi all’arte e che non potevo vivere senza. Ho realizzato di essere un’artista quando sono diventata l’assistente di Bartenev. Mi sono cimentata in qualsiasi campo creativo, in diversi generi: creavo scenografie, inviti e illustrazioni, facevo la costumista per il cinema, mi esibivo in folli performance, lavoravo come stylist, make up artist e molte altre cose ancora. Alla fine, mi sono separata da Andrey e ho trovato la mia strada, diramandola in due direzioni: la scultura e la performance.

 

 

Cosa rappresenta l’arte, per te?

Il futuro dell’arte lo vedo nella sintesi. Mi piace lavorare su generi diversi, combinarli, per realizzare un compendio di qualcosa di nuovo. Credo che gli artisti incentivino il progresso umano, inventino e creino il futuro. E l’obiettivo dell’artista è la creazione del nuovo – nuove forme, nuove idee, nuovi generi, la creazione di ciò che non è mai esistito prima. Per “artista” intendo non tanto una persona munita di un cavalletto e di una tela, ma piuttosto un sognatore e un visionario, con delle idee audaci e in anticipo sui tempi. È interessante dare vita al nuovo, creare qualcosa che non esiste e che nessuno ha mai fatto prima di te, essere unici. Penso che l’arte dovrebbe essere positiva e bella. È molto più facile diventare popolari quando ti appelli ad un contesto negativo, ai problemi politici e sociali, ma tutto questo non mi interessa. Penso che l’arte dovrebbe essere “gentile”. Tutte le mie sculture veicolano un messaggio positivo e si mantengono in bilico tra l’infantilità e il naif, ma in modo consapevole. L’arte che fa appello alla positività è ancora rara, però ultimamente questa tendenza sta guadagnando popolarità ed è sempre più richiesta. Al giorno d’oggi, l’informazione è satura di negatività e lo spettatore ha bisogno di un’arte infantilmente semplice e comprensibile, che causi gioia ed emozioni vivide, che sferzi la coscienza sia attraverso l’apparenza che l’interazione e il gioco. Lavorando nella direzione del linguaggio visivo post-pop, sto cercando di trovare il mio personale approccio alla creazione della forma utilizzando astrazioni geometriche biomorfiche, liquide e semplificate. Voglio che la mia arte sia il più possibile astratta, non collegata a nulla. Meno è connessa con la realtà, meglio è: secondo me, l’arte è una negazione delle leggi fisiche e delle leggi della realtà. E’ il loro rovesciamento. In questo senso, l’arte è un miracolo, la manifestazione della presenza del miracoloso nell’universo. Quindi, cerco di dare allo spettatore l’opportunità di dimenticare almeno per mezz’ora che di trova ad una mostra, di dimenticare la realtà di quel momento e di offrirgliene un’altra, parallela, fatta di altre forme e di diversi colori; una realtà a sé stante e con le proprie leggi, le leggi della fantasia. Penso che l’arte debba essere bella come durante l’epoca Rinascimentale. La bellezza è l’obiettivo principale e la funzione dell’arte, è il canale per connettersi con Dio. La bellezza restituisce pezzi di paradiso al nostro pianeta, come i tasselli di un enorme puzzle perduto. Il senso della bellezza è qualcosa di molto gentile, puro e innocente. La bellezza è immortale, e l’arte è un modo per raggiungere l’immortalità attraverso la bellezza: l’arte è una nuova religione, è il modo di salvare il nostro mondo.

 

Performance a Villa Olmo (Como)  in occasione della sfilata Alta Sartoria di Dolce & Gabbana (2018)

Come nascono le tue opere di “inflatable art”?

Mi sono sempre piaciuti gli oggetti gonfiabili, cercavo un modo per utilizzarli artisticamente. Ho visitato diverse fabbriche di giocattoli gonfiabili, ho approfondito l’argomento tramite lo studio. Dapprima ho cominciato a creare sculture e costumi, stupefacenti giocattoli gonfiabili assemblati in svariate, enormi strutture con del nastro adesivo e del cartone, inoltre ho scritto versi e mi sono esibita in performance di poesia … Ho sperimentato molto. Poi, un giorno, sono stata invitata ad esibirmi a MTV Russia, dove ho visto una conduttrice che indossava un abito in latex e mi sono innamorata di questo materiale. Ha un’estetica visuale potente, è impressionante, lucente. Quindi, insieme a un’ azienda che produce abiti in latex, ho iniziato a realizzare costumi e sculture e la mia idea ha poco a poco preso forma. La mia prima scultura in latex si chiama Lyubolet. L’ho creata nel 2008 per una mostra dedicata agli alieni e tutto ciò che è extraterrestre. Lyubolet è una fantasia sul tema di come un’astronave sarebbe apparsa se l’energia dell’amore fosse diventata il suo combustibile. L’astronave è progettata per due astronauti e può volare solo con l’assoluta reciprocità e simmetria dei loro sentimenti. Insieme alla scultura, ho creato due tute spaziali e una performance. Non sono ancora riuscita a decollare, ma continuo a cercare un partner e credo che in futuro ci riuscirò! Questa scultura ha dato origine ad una serie di oggetti chiamati Psionics – sculture pseudo-macchine che utilizzano l’energia della coscienza e la psiche umana come motore. I miei lavori sono concentrati principalmente sulla forma, la forma è molto importante per me. E mi piace moltissimo il modo di modellare che l’aria offre, è assolutamente diverso dal tagliare il marmo o dallo scolpire il gesso. L’aria allunga la forma, adoro il suo linguaggio. E’ il materiale stesso a creare la forma e sono affascinata da questa co-creazione: non sai mai come si svilupperà il rigonfiamento del latex, provi sempre ad intuirlo…è un processo molto interessante.

 

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Seduta sulla sua scultura boudoir-trampoline a Les Jardins d’Etretat, in Normandia (2018)

Quali materiali sei solita utilizzare per le tue opere?

Ho scelto due direzioni principali, per la mia arte: la scultura e la performance. Ma definisco le mie performance “sculture in movimento” e i miei costumi “sculture indossabili dal vivo”. Lavoro con diversi materiali e tecniche, ma sono nota soprattutto perché lavoro – da circa 11 anni – con il latex. Il latex è il mio materiale preferito. Lo uso per creare costumi, sculture e installazioni su larga scala. Il latex è un materiale molto delicato, difficile da manipolare: si altera con i raggi UVA e teme il passar del tempo. Ma mi piacciono la sua natura effimera, la sua ariosità, la sua morbidezza, la sua levigatezza. Le sculture in latex sembrano vive, però purtroppo sono temporanee come tutte le cose viventi. Il latex può rimanere intatto al massimo sei mesi, un anno. Tratto le mie sculture con cura e non le espongo per più di due mesi, ma anche in questo modo non sopravvivono oltre cinque-dieci anni. I miei oggetti in latex sono spesso costituiti da moduli gonfiabili separati, incollati insieme in una sola forma oppure fissati ad un telaio di metallo o di plastica. Un’altra cosa importante, per me, è la collisione tra il contesto naif e il contesto sessuale che evoca il latex. Questo conflitto sortisce un effetto disturbante sullo spettatore, che non sa come percepirlo e inizia a interrogarsi su ciò che sta vedendo. E’ quello che voglio ottenere: coinvolgere lo spettatore emotivamente, ipnotizzarlo ed eccitarlo. Oggi faccio sculture non solo di latex; è un materiale adatto per gli interni, però non funziona all’aria aperta in quanto è molto fragile e sensibile alle condizioni esterne. Ma voglio andare avanti e progredire verso un nuovo livello. Voglio muovermi nella direzione dell’architettura gonfiabile, dell’architettura tessile, per realizzare progetti di arte gonfiabile pubblica su larga scala. L’estate scorsa ho realizzato delle vibranti sculture su larga scala, Air Island (13 m di lunghezza e 8 m di larghezza), le più grandi della mia carriera. E vorrei proseguire in questa direzione.

 

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Mi colpisce molto questo uso del colore, che al bianco e al nero alterna tonalità vivacissime, luminose o trasparenti grazie al PVC. C’è un filo conduttore, dietro alla tua ricerca cromatica?

Il colore è uno strumento potente e una parte importante del mio linguaggio visivo: una chiave per raggiungere i miei obiettivi artistici. La mia arte è incentrata sulla ricerca di ciò che è perfetto, ideale, lucido, luminoso, soprannaturale, fantastico, qualcosa di estremamente raro nella nostra realtà; su un certo super-mondo, dove tutte le proprietà e le sensazioni sono iperboliche, i colori più luminosi. Ogni artista, secondo me, crea il suo mondo parallelo, la sua realtà, secondo le leggi del proprio linguaggio visivo. E attraverso la sua arte, invita gli spettatori ad addentrarsi in questa realtà. Io voglio creare una mia realtà artistica parallela, voglio invitare gli spettatori in una sorta di spazio ideale che esiste secondo leggi diverse e del tutto proprie. Vorrei che le persone fossero deliziate e affascinate dalla mia arte, e l’uso del colore in questo senso mi aiuta. Voglio che la mia arte dia gioia e ispirazione quando la si guarda, come se si guardasse a qualcosa di incredibile. Voglio che la mia arte sposti la prospettiva, sproni lo spettatore a guardare alle cose ordinarie in modo nuovo.

 

 

A proposito di colore, alla Biennale di Venezia ti sei esibita nella variopinta performance Aquaaerobika, dove le tue sculture viventi hanno danzato al ritmo della musica elettronica ed inneggiato a un mood avveniristico. Cosa puoi raccontarci di questo spettacolare show?

Per me scultura e performance sono un tutt’uno. Il mio progetto di musica pop Aquaaerobika è una sintesi di musica elettronica e performance, uno show musicale di pop art con costumi gonfiabili e decorazioni. In realtà, considero questo spettacolo come una scultura dal vivo in movimento. Questo è il filone del mio insegnante Andrey Bartenev, che l’ ha percorso negli anni Novanta ed ha creato performance incredibili con i suoi costumi scultorei in cartapesta. Poiché sono stata una sua studente, vado anch’ io in questa direzione ma in modo diverso. Aquaaerobika è una performance dal format pop grazie al quale posso lavorare per un pubblico più ampio, esibirmi non solo nei musei e nelle gallerie d’arte ma anche nei club, ai festival, negli spazi pubblici. E’ uno show con musica originale, tutti i brani sono scritti appositamente per lo spettacolo e io canto dal vivo; cantare avvolta nel latex non è facile, ma l’impatto visivo giustifica tutte le difficoltà. I costumi e le scenografie si ispirano ai simboli della pop art, dell’op art, dell’estetica fantascientifica, alle anime giapponesi ed ai costumi di Oskar Schlemmer per “The Triadic Ballet”. Puoi riconoscere Betty Boop, Barbarella ed i protagonisti di un fumetto, nel mio personaggio. Mi sforzo di creare un’immagine universale super femminile e di giocare con immagini di donne di epoche e stili diversi, mescolandoli e creando qualcosa di nuovo. Mi attrae anche giocare con il bidimensionale e il tridimensionale, come dimostrano i miei costumi e i miei scenari. A un certo punto, lo show diventa una sorta di cartone animato. Mi piace immaginarmi al suo interno, è sempre divertente: la neve cade in un modo così favoloso e irrealistico, i colori sono così luminosi e le ombre così grafiche che sembra di essere entrati in un film d’animazione di Miyazaki o in un vecchio cartoon sovietico. Natura e arte spesso competono tra loro in straordinarietà e non si è in grado di distinguere dove finisce la natura e dove inizia l’arte … A volte, è difficile capire cosa ti emoziona di più.

 

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Sasha e uno scorcio della sua installazione Air Island

Non era la prima volta che venivi a Venezia. Tra l’altro, lo scorso Carnevale hai fatto una entrée trionfale, insieme al Principe Maurice, in total look “inflatable” settecentesco. Come ricordi quell’ esperienza?

L’ingresso in costume in Piazza San Marco è una delle suggestioni più ineguagliabili che io abbia mai provato in vita mia! Prova a immaginare: una folla di persone, la magica Cattedrale di San Marco davanti a te, il sole splende, fa freddo, l’atmosfera è eccitante, sei circondata da creature meravigliose in incantevoli costumi … In quel momento ho sentito un’incredibile connessione con l’anima di Venezia, ho sentito Venezia dentro di me, avevo la pelle d’oca! Sebbene sia stata un’apparizione molto breve, di fatto pochi secondi, quei momenti sono ancora vividi nella mia mente, ed emanano uno splendore tale da farmi provare un’immensa gratitudine nei confronti della vita e del Principe Maurice (rileggi qui la puntata di “Sulle tracce del Principe Maurice” dedicata al Carnevale di Venezia) che mi ha permesso di vivere questa esperienza. Conserverò tra i miei ricordi quei preziosi brividi per tutta la vita.

 

L’ ingresso in piazza San Marco con il Principe Maurice al Carnevale di Venezia 2019

Quale aggettivo adopereresti, solo uno, per definire la tua arte?

Miracolosa / affascinante?

 

Photo by Ermakov Roman

A quali progetti ti stai dedicando, al momento? E’ possibile avere qualche anticipazione?

Spero di lavorare di più per il teatro e per l’opera, mi piace lavorare con del materiale classico e ripensarlo. L’anno scorso ho realizzato i costumi per il “Flauto magico” di Mozart messo in scena al Teatro dell’Opera Helikon di Mosca, è stata un’esperienza straordinaria che mi è piaciuta molto. Tra i miei progetti c’è una grande personale a Mosca il prossimo anno, al Museo d’Arte Moderna, ed ho intenzione di concentrarmi su questo.

 

Nicole Kidman nel photoshoot che inneggia all’ inflatable art di Sasha Frolova scattato da Tim Walker per W Magazine (styling by Sarah Moonves)

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Come descriveresti l’attuale panorama artistico russo?

Abbiamo molti artisti di talento, davvero unici. La scena artistica in Russia si sviluppa rapidamente, ci sono stati tanti cambiamenti positivi e c’è una potente energia. Forse non è un panorama molto vario, ma è davvero interessante ed ha del potenziale.

Vorrei concludere questa intervista chiedendoti quali sono gli artisti contemporanei che, al momento, consideri maggiormente interessanti e innovativi.

Ad esempio, c’è l’artista e scultrice giapponese Mariko Mori, che crea progetti molto interessanti legati allo spazio. Mi piace anche Anish Kapoor, soprattutto il modo in cui lavora con la forma, con le dimensioni. Sono sempre deliziata dal suo lavoro, dal livello tecnologico delle sue opere: le guardi e semplicemente non capisci come abbiano potuto essere realizzate.  Allo stesso tempo, le sue forme appaiono come metafore poetiche. Mi piacciono anche gli artisti che lavorano con l’inflatable. C’è un collettivo, il FriendsWithYou di Miami. Sono una grande fan delle loro opere intrise di felicità e di positività. Realizzano enormi installazioni gonfiabili e mercatini di oggetti gonfiabili sulle spiagge di Miami. Sono degli artisti fantastici! Sono davvero ispirata dagli artisti superproduttivi e polistrumentali che lavorano su una vasta varietà di media, così come dagli artisti che fanno delle loro stesse vite un’opera d’arte. Considero miei mentori diversi artisti – prima di tutto Andrey Bartenev, ma anche lo scultore Andrew Logan ed il famoso clown Slava Polunin: è molto importante incontrare persone che ti ispirano ed acquisire da loro la conoscenza e l’esperienza.

 

 

Altri due momenti della performance a Villa Olmo realizzata per la sfilata di Alta Sartoria di Dolce & Gabbana (2018)

ICECREAMIZER, inflatable sculpture (2010)

SPECULUM, inflatable sculpture (2016)

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TWIRL, Pink edition (2016). Inflatable latex sculpture

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Photo courtesy of Sasha Frolova

 

 

L’arte come equivoco: conversazione con Carlo Cecchi

 

Incontro Carlo Cecchi a Fabriano, nella Sala Guelfo, lo spazio adibito alle mostre all’ interno del chiostro della Cattedrale di San Venanzio.  E’ qui che si è appena conclusa “Il passo del cielo”, un’ esposizione che concentra alcuni temi ricorrenti nell’opera dell’ artista jesino: nei 20 disegni realizzati a carboncino predominano un fiabesco bestiario, corpi celesti dispersi nell’ universo, scritte di matrice concettuale. Solo due colori: il bianco e il nero, alternati sullo sfondo giallognolo della carta da spolvero. A fare da leitmotiv è una visione del cosmo che il segno grafico di Cecchi rende fortemente onirica, evocativa. La sua surreale fauna fluttua in una galassia costellata di aloni neri, di volta in volta fitti o più radi. Le scritte sorprendono, confluiscono in uno spazio mentale dove si addensano gli interrogativi. “Questo lavoro”, scrive la storica d’arte Francesca Pietracci nel testo critico della mostra, “sembra condensare lo scibile umano, la sua evoluzione, la sua percezione, l’ incanto di una mano di talento guidata dagli occhi stupiti di un bambino. Quasi come di fronte ad un nuovo anno zero del cosmo…tutto rimane ancora da scoprire.” Le affascinanti suggestioni che questi motivi ispirano rappresentano solo uno degli spunti da cui è scaturita l’intervista che vi propongo oggi. L’ universo di Carlo Cecchi merita senz’ altro un approfondimento, e il Maestro risponde alle mie domande di buon grado: emozioni, frammenti di vita, memoria, paesaggi fisici e morali,  reminescenze di un’ umanità variopinta si fondono in un racconto dove tutto riconduce all’arte nella sua più profonda accezione.

Se dovessi presentarti ai lettori di VALIUM in poche righe, come esordiresti?

E’ sempre più difficile, credo, definirsi, perché questo è un mondo in cui tutti sembra che facciano e sappiano di tutto: sono tutti artisti, tutti allenatori di calcio, tutti d’avanguardia…Sono tutti molto belli, anche. Vanno tutti in palestra! Carlo Cecchi è un artista, un pittore soprattutto. Quando parlo di pittura parlo anche del disegno, che amo moltissimo. Forse amo più il disegno della pittura. Ma come diceva il mio amico Dino De Dominicis, “La pittura è la cosa più moderna che c’è proprio perché è la più antica.” Quindi sono un pittore, perché credo che il silenzio che contrassegna l’immagine fissa dia ai cosiddetti fruitori – un termine che mi fa pensare ai fruttivendoli, tra l’altro, per cui oserei dire “fruttitori” – possibilità il meno oggettivo possibili. Oggi si tende ad essere sempre più didascalici, addirittura a spiegare quello che si vede a occhio nudo. La pittura, e più che mai il disegno, invece, ha innanzitutto la possibilità di essere permeabile: attraverso il disegno si passa da un’altra parte, si va oltre. Non è mai descrittivo, perché in quel caso si rientrerebbe nell’ambito della didascalia, cioè dello spiegare. Più che “spiegare” mi ha sempre affascinato “piegare”. L’arte non va “spiegata”, va “piegata”. Come un fazzoletto…”Piegare” significa, in realtà, “nascondere”: la pittura deve nascondere, non evidenziare. La pittura è un luogo nascosto…non chiedermi di spiegare di più perché diventerei didascalico a mia volta. Durante una mia mostra scrissi una parola, “rivelazione”. La rivelazione, che per il vocabolario è uno “svelare”, a mio parere  è “velare ancora”: “ri-velare”, come “ri-vedere” cioè vedere due volte, significa moltiplicare i veli. Secondo la cultura araba, puoi vedere gli angeli solo se riesci a svelare 77 veli…Dunque a me piace molto rivelare, cioè nascondere.

 

“Il passo del cielo”, 2017

 

Quando e come è iniziata la tua liason con l’arte?

A scuola io sono sempre stato bocciato in disegno, forse perché non mi interessava. Che in realtà il disegno mi piacesse l’ho capito solo molto tempo dopo. Mia madre era una grandissima disegnatrice: quando io e i miei fratelli avevamo l’influenza, si metteva accanto al nostro letto e ci disegnava le storie degli inquilini del palazzo. C’era il bidello, c’era la nutrice…L’ infanzia l’ho vissuta in un quartiere nel cuore di Jesi, ero sempre in mezzo alla strada. La mia cultura si è forgiata tra gli artigiani, i negozianti, le prostitute…Ce n’erano ancora parecchie, in giro, nel dopoguerra. La sezione del Partito Comunista era attaccata alla chiesa, per cui eravamo trasversali: giocavamo a ping pong in parrocchia e dopo, magari, andavamo a vedere le partite a biliardo nella sezione. Indubbiamente, non mi sono mai interessato all’arte. Poi, dopo essere stato bocciato per tre anni di fila all’istituto tecnico industriale, ho seguito il consiglio di un mio amico batterista che mi ha suggerito di iscrivermi all’Istituto d’Arte di Ancona. Lì ho incontrato gente molto in gamba, in particolare due professori: il mio insegnante di Storia dell’Arte veniva da Roma ed era molto amico di Burri, di Guttuso, che andavano a trovarlo in albergo. Una volta me li ha anche presentati. E poi c’era il professore di Disegno dal Vero, che mi ha insegnato davvero tutto…Dopo il diploma mi sono iscritto all’ Accademia di Belle Arti, dove si faceva avanguardia. Erano gli anni dell’Arte Povera, dell’Arte Concettuale. Eravamo tutti un po’ concettuali…Alla fine dell’Accademia ho presentato la mia prima mostra a Bologna: concettuale, naturalmente. Sul muro, con una matita blu avevo tracciato una scritta che diceva “cielo mare cielo mare all’orizzonte”. Sempre a Bologna, ho gettato un drappo sul pavimento della Galleria e ho intitolato quella mostra “Raso al suolo”, con un significato doppio. Nel ’76, quando ancora non dipingeva nessuno, ho inaugurato la mia prima mostra di pittura. Ecco, ora vorrei raccontarti qualcosa di molto importante: vicino a Palazzo Ripanti, dove c’è il mio studio, quando ero ragazzino a Jesi c’era il cinema omonimo. I macchinisti tenevano la porta aperta, perché i proiettori dell’epoca riscaldavano moltissimo, e gettavano fuori i carboni che generavano l’arco voltaico. Io con questi carboni disegnavo sul pavè…Credo che l’amore per il disegno, in me, sia nato proprio allora. Tra mia madre e i carboni elettrici. Quello è stato un po’ il mio inizio.

 

“Senza Titolo”, 2013. Tempera su carta

 

Cosa rappresenta l’arte, per te?

Una bella domanda! Cos’è l’arte? Per me intanto è una possibilità esistenziale, mi ha aiutato e mi sta aiutando molto. E’ un anticorpo. E’ un modo per sporcarmi le mani e anche la mente. Argan ha detto forse la cosa più sensata che abbia mai sentito, per definire l’arte: l’arte è un fenomeno che diventa immagine. Poi, però, l’immagine diventa fenomeno a sua volta. Trovo abbastanza centrata la sua definizione. Su un piano personale, al contrario di quanto si pensi, credo che l’arte sia un linguaggio totalmente inespressivo. L’arte non ha il compito di comunicare, l’arte non comunica. L’arte sente, è una specie di alito…Come dicevo prima, l’arte non è didascalica. Non è mai stata didascalica, nemmeno in passato: c’è sempre qualcos’altro. Per citare non ricordo più chi, mi piace dire che “tutto avviene per altri motivi”. Quindi, l’arte avviene per altri motivi. Se io sono un pittore iconografico e dipingo un tavolino, come disse anche Magritte a suo tempo, “questo non è un tavolino”. L’arte è “un’altra cosa”…

 

“Il silenzio dei sassi”, 2012. Olio e tempera su legno

 

Molti critici hanno inserito le tue opere in un filone di stampo concettuale. Questa definizione ti trova concorde?

Una matrice concettuale c’è sicuramente: tra gli anni ‘60 e gli anni ‘70 eravamo tutti un po’ concettuali. I nostri amori erano Kossuth, Pistoletto, l’Arte Povera…I punti di riferimento della nostra generazione. Direi che oggi, nel mio lavoro, quella matrice è molto lontana. Mi piace dire che la mia non è un’arte concettuale, ma ingloba un segno concettuale al suo interno. A differenza dei concettuali, però, che erano tutti così “pulitini”, a me piace sporcarmi. L’arte è sporcarsi. Quindi, l’arte concettuale nel mio lavoro è presente nella misura in cui ha coinciso con la mia origine. Mi diverte raccontarti di “raso al suolo”, che era un gioco di parole. Mi piace la pittura, ma anche sconfessare l’idea che esprimo: se disegno un cavalluccio marino, ci scrivo accanto qualcosa che lo sconfessa. Oppure, lo affianco ad un’immagine che ha lo stesso scopo.

Ne “Il passo del cielo”, la mostra che hai appena presentato a Fabriano, prevale un bestiario tratteggiato con carboncino su carta da spolvero. Perché la scelta di questa visionaria fauna, e come nascono le scritte che la affiancano?

Questa fauna viene fuori da certi sogni (che non sono i sogni che faccio di notte) e da certi desideri. Il primo animale di cui mi sono occupato è stato il pinguino, perché rappresenta un po’ quello che ho appena detto. E’ elegante, sembra che porti il frac, però in realtà è goffo: basta guardare come cammina. E’ un uccello? E’ un pesce? Vive in acqua? E’ ambiguo. E siccome l’arte è ambiguità…Non è una dichiarazione di intenti, l’arte è proprio ambiguità, un errore. Una parte di queste opere l’ho presentata alla Biblioteca Angelica di Roma l’anno scorso. In quell’ occasione presentai un grande disegno, di cinque metri per due, associato ad altri, più piccoli, che raffiguravano animali. La mostra era intitolata “Cosmo-Caos-Dissonanze”,  con me c’erano anche un musicista e un attore che recitava Galileo. Le mie sono immagini di animali circondati dalle stelle, quindi c’è una sorta di rimando astrologico. Ma l’astrologia non mi interessa per niente. Quelle stelle hanno un alone nero intorno, evidenziano un’idea un po’ curiosa dell’universo. Io non sono avulso dalla realtà, parlo del mio essere nel mondo. Per cui, quando penso al cielo, penso a tutto quello che può essere legato al cielo dal punto di vista critico, come l’inquinamento. Inoltre “cielo” significa etimologicamente antro, caverna, e dichiarandomi un artista tribale io utilizzo il disegno…Il disegno è tribale.

 

“Il passo del cielo”, 2017 (particolare)

 

Questa mostra ha un gran senso tribale, mi rappresenta. Per quanto riguarda la mia relazione con gli animali, diciamo che non mi affascinano moltissimo. Mi piace la loro forma, ma difficilmente li ritraggo dal vero: i miei disegni passano sempre attraverso un filtro che potrebbe essere una fotografia, gli animaletti che trovi nei negozi per bambini…Amo il gatto, i felini. Mi piace il gatto perché è silenzioso, ha una sua autonomia, questa cifra quasi di assenza…E poi c’è l’ippopotamo. La prima volta che l’ho ritratto è stato quando, a Jesi, mi hanno chiesto di creare una scultura per una rotatoria. L’ ho inserito immaginando che in quella zona li, che è una zona industriale, ci fosse il mare. C’è stato un periodo in cui ho dipinto molti coniglietti, perché mia nonna me li portava a vedere dai suoi amici agricoltori. Mi diceva che hanno paura dell’acqua, quindi a Milano, negli anni ’80, feci una mostra dove c’erano dei coniglietti minacciati da grosse gocce d’ acqua. Nelle mie opere non c’è mai il presente, c’è o il desiderio del futuro o la memoria. Parlando di animali, ti cito la giraffa…Nel mio progetto per una scultura davanti all’ interporto, c’è questa giraffa avvolta negli scatoloni. L’ interporto è collegato ai “colli”: mi piaceva l’idea del “collo” e il gioco di parole “collo-colli”, un lungo collo di giraffa che svetta da una montagna di scatoloni di acciaio. La giraffa guarda lontano, è come un faro, vede tutto. Ma i miei animali non sono simboli, semmai segni. Preferisco l’aspetto semantico a quello simbolico. Le scritte? Sono dissociative, confondono, tendono a scombinare. Amo l’idea della scomparsa. In fondo è come dichiarare una cosa e smentirla subito dopo o in quel preciso istante. Se usi una scritta che non accompagna, bensì contraddice, crei una situazione in cui, in un attimo, dichiari e smentisci. L’arte è anche equivoco, soprattutto equivoco: è molto più interessante l’equivoco dell’oggettività. E’ un po’ come le bugie che raccontavano quando, da piccolo, mi appoggiavo sulla sponda del biliardo e guardavo i grandi giocare a boccette. In quei momenti inventavano delle storie esagerate, incredibili, prodezze sessuali mai avvenute…La menzogna è più interessante della realtà. La bellezza è questa, l’arte è questa.

 

“Lucia”, 2013. Olio e tempera su carta

 

Quali sono i leitmotiv del tuo immaginario ispirativo?               

Il mio leitmotiv ispirativo è la vita, la vita di tutti i giorni dove si mescolano la cosiddetta cultura alta con la cultura popolare, alla quale sono ancora molto legato. Bisogna vivere in mezzo alla gente, finchè avrà qualcosa da raccontare. Giorni fa ho presentato la mostra di un mio amico alla Biblioteca Angelica e mi è tornato in mente un episodio: mentre eravamo a cena insieme, lo scorso Agosto, è scoppiato un forte temporale e in quell’ istante è affiorato il progetto della mostra. Ecco, l’avversità: anche questo è un momento fondante del mio lavoro. L’arte è avversità. Perché avversità significa discontinuità: tutte le avanguardie hanno lavorato sul tema dell’avversità, cioè la discontinuità rispetto a quel che c’era prima. La natura è tutta fatta di avversità. Se entri in un bosco, ad esempio, la tensione che provi è la stessa che ti dovrebbe dare l’arte.

 

“La testa francese”, 2009. Olio su tela

 

In un’ epoca in cui predominano i crossover artistici, c’è ancora spazio per la pittura tout court?

Certo, assolutamente, c’è un grande spazio. Io sono molto attratto da tutto quello che è lontano dai miei linguaggi. Tuttavia, trovo che la maggior parte di queste operazioni abbiano carattere commerciale, siano perlopiù marketing. Amo la sobrietà, credo nella sobrietà. Il disegno, sei ci pensi, è l’arte più elementare però ha più forza di tutte. Ti dà la temperatura dell’artista: quando disegni è come quando fai l’elettrocardiogramma…

Vivi tra Jesi e Roma. A livello di suggestioni, trovi più stimolante la provincia o la metropoli?

Roma è Roma, è sempre bella. Ma può essere addirittura meno stimolante della provincia. Perché in provincia ci sono ancora delle situazioni, delle storie vere. E’ tutto piuttosto concentrato e anche l’assenza di suggestioni, comunque, può essere uno stimolo. Roma è affascinante quando la vivi con distrazione, non da turista. Bellezza a parte mi colpisce per l’umanità delle persone, un’umanità che in provincia trovo sempre meno. Nella Roma dei quartieri, come a Prati o al Rione Monti, invece c’è ancora. Oggi il modello è Milano, ma il modello di Milano è Londra, è New York, e con l’Italia non c’entra nulla. Se tu vai a Roma, in via del Governo Vecchio, accanto alla boutique di lusso trovi l’officina della moto Guzzi.  E questa commistione, secondo me, è indice di grande cultura.

 

Roma, via di Panico

 

Anche nelle nostre città di provincia, un tempo, trovavi di tutto e tutto affiancato, ma è un aspetto ormai completamente inesistente. Jesi, ad esempio, a mio parere non ha più una sua identità specifica. Dagli anni ’80 si sono ispirati un po’ tutti a Milano…Ma Milano devi viverla, non puoi “replicarla” in provincia. Le radici sono importantissime. Diciamo che i luoghi più ricchi di umanità sono quelli in cui l’arcaico si mescola al contemporaneo: è qualcosa che mi affascina profondamente. Anni fa, in provincia, era molto forte il rapporto tra città e natura, tra un sapere cittadino e un sapere del bosco. Oggi non abbiamo più un rapporto col paesaggio, ma con la memoria del paesaggio. Il paesaggio lo vediamo al cinema, in TV. Andiamo nel bosco, ma non abbiamo l’idea del bosco. “Bosco” significa anche fantasmi, gnomi, tutto il retaggio di una certa mitologia nordica. Il bosco era un posto dove si celavano grandi pericoli e grandi gioie, ai miei tempi ci si andava a fare l’amore.

 

Jesi, Palazzo Ripanti

 

Per Carlo Cecchi, in che direzione sta andando l’arte e la sua arte in particolare?

La mia, non lo so. In che direzione va l’arte? Posso dirti che nell’arte attualmente predominano due binari, ma non so dove portano: da una parte c’è la cosiddetta arte sociale, focalizzata in maniera molto didascalica su ciò che accade. Per esempio, sul tema dei migranti. Altre operazioni hanno un carattere estetico tout court; in questo mondo, d’altronde, tutto diventa estetico. In TV, anche il delitto più efferato viene seguito in un nanosecondo dalla partita di calcio, e molto spesso la gente si emoziona di più per la partita di calcio. Il gioco vale più della tragedia. Da un lato, quindi, c’è l’arte sociale, dall’ altra la decorazione. Molti giovani artisti fanno decorazione: cose che piacciono, che devono piacere, accattivanti. L’arte, però, secondo me non deve “piacere”, bensì “dispiacere”. Che non significa addolorarti, ma creare dis-piacere. Qualcosa di diverso, cioè, dal piacere.

 

“A tre quarti di latte”, 2015. Olio su tela

 

 

Foto di Palazzo Ripanti by Parsifall [CC BY-SA 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)], from Wikimedia Commons

 

“MemoryCard” di Rita Vitali Rosati: quando il vissuto visivo si fa racconto

 

Rita Vitali Rosati

Dissacrante, visionaria, ironica, eclettica, acuta e sensibile osservatrice del suo tempo: una manciata di aggettivi che non basta a definire Rita Vitali Rosati, ma che tenta di condensarne la quintessenza. Nata a Milano, fabrianese di adozione, Rita è un’ artista che traduce in opere giocosamente trasgressive il suo personale “inventario” del reale. Pittura, fotografia e performance sono solo alcune delle modalità espressive di cui si avvale. A fare da leitmotiv, immagini che con attitude destabilizzante, ma pervasa di poesia intrinseca, riflettono lo sguardo dell’ artista sul mondo e sui suoi tic:  Rita si fa interprete in prima persona dei concetti che esplora, amplifica e ribalta continuamente le coordinate della propria visionarietà. “Mette una lente di ingrandimento sul formicolio sociale” – come recita la sua biografia ufficiale – scrutandolo con occhio ironico, a tratti con crudezza. Ma soprattutto, è sempre in grado di sorprenderci con la sua travolgente inventiva: stavolta lo fa con MemoryCard, progetto che racchiude in un inedito packaging in latta 50 cartoline associate ad altrettante immagini, 25 delle quali ospitano un breve racconto d’autore. Estrapolate dal vasto repertorio che l’ artista ha realizzato nel tempo, le foto condensano un vero e proprio vissuto visivo. Ho incontrato Rita per saperne di più su questo innovativo, singolarissimo photo-book.

MemoryCard è un mix eclettico di fotografia, design e scrittura dal forte impatto visivo. Come “racconteresti” quest’ opera?

Il raccontare dell’opera si evince scoprendo il fil rouge  che lega i testi alle immagini. Seguendo il proprio istinto che indica una corsia privilegiata unendo in una sintesi l’input dato dalle immagini, (che sono le domande) a quello dei testi, (che sono le risposte). O rovesciando il tutto, sorpresi dalla natura vicendevole dei soggetti.

Perché la scelta di un titolo ispirato alla scheda informatica che mantiene i dati in memoria?

E’ un titolo che parla dell’attualità, per vivere la contemporaneità.

Le “contaminazioni artistiche” sono oggi molto in voga. Su quali criteri ti sei basata per la scelta degli autori?

Non mi piace il termine “contaminazione”, nasconde una qualche patologia in atto. Prediligo l’espressione “duettare”, si anima di passione, di complicità, di armonie in divenire.

Qual è il link che fa da leitmotiv ai 50 scatti?

Il tema dell’assenza è l’idea trainante dell’intero progetto adottato per dare l’agio allo scrittore di colmare, senza eccessiva premeditazione, il vuoto indicato dalle immagini che, nelle sue declinazioni, sono lo scenario per le diverse interpretazioni degli autori che ne hanno fatto, così, un racconto.

Se dovessi descrivere il connubio tra immagine e racconto con un aggettivo, quale utilizzeresti?

Ho una particolare predilezione per gli ossimori, perciò le definirei “silenziosamente eloquenti”.

Come nasce l’ intuizione del pack in latta?

L’input creativo nasce da una sinergia: una corrente carica positivamente di indizi, di impulsi che hanno sede in un’area astratta, altra, quindi metafisica, si incontra con un ricevente che è già sintonizzato, perché istruito a plasmarlo  secondo il proprio istinto e la propria sensibilità. E la propria cultura.  Per deformarlo. Ecco, la mia scatola è una deformazione di un vuoto che è stato riempito.

“Che cos’è, detto sottovoce, la memoria?” si chiede Gordon Splash in un passaggio del suo racconto. Cosa gli risponderesti?

Ci deve essere un fantasma che riscrive i ricordi a volte al contrario percorrendo il vissuto con una luce particolare per darsi come testimonianza.

Calvino scrisse: “La fantasia è il burro, ma perchè sia produttiva bisogna spalmarla su una fetta di pane.” Qual è la tua “fetta di pane”?

Preferisco il Panettone (!).

 

 

 

Gli scrittori presenti nell’ opera sono: Laura Bosio, Enrico Capodaglio, Alessandro Catà, Filippo Davoli, Paolo Di Paolo, Angelo Ferracuti, Chicca Gagliardo, Bianca Garavelli, Roberta Lepri, Giuseppe Lupo, Gian Ruggero Manzoni, Angelo Mastrandrea, Marco Missiroli, Alessandro Moscè, Feliciano Paoli, Laura Pariani, Aurelio Picca, Silvio Ramat, Francesca Scotti, Fabio Scotto, Gordon Splash, Paolo Valesio, Gian Mario Villalta, Piergiorgio Viti, Alessandro Zaccuri.

MemoryCard, prodotto in esemplari di 500 pezzi editi da Hacca Edizioni, contiene inoltre alcuni gadget più un piccolo catalogo e gli interventi critici di Maria Letizia Paiato, Paola Paleari e Marcello Sparaventi.

Photo courtesy of Rita Vitali Rosati

“Frida Kahlo. Fotografie di Leo Matitz” inaugura al Mantova Outlet Village

©Eva Alejandra Matiz and “The Leo Matiz Foundation”

 

“Dipingo me stessa perchè passo molto tempo da sola e sono il soggetto che conosco meglio”: una frase che ben condensa un leitmotiv della sua produzione artistica. L’ autoritratto ha sempre rappresentato, per Frida Kahlo, uno strumento di connessione tra la propria interiorità e il mondo esterno. Dipingere se stessa davanti allo specchio, dapprima condizione obbligata a causa del grave incidente che la immobilizzò per anni a letto, si tramutò in un rituale che coadiuvava la pittrice messicana nella ricerca della sua essenza più profonda. L’ intensità del volto, le sopracciglia folte, le trecce e i fiori con cui adornava il capo l’ hanno resa iconica, associando gli indizi di una personalità fortissima ai colori sgargianti del folkore della sua terra natale. Un mix così potente che non poteva esimersi, a sua volta, dall’ essere immortalato: così fece Leo Matitz, fotoreporter colombiano legato a Frida da un’ amicizia pluriennale. Nato nell’ incantata Macondo descritta da Gabriel Garcìa Màrquez, Matitz ha ritratto la storica moglie di Diego Rivera in una serie di scatti realizzati a Coyoacan, il quartiere in cui la pittrice vide la luce a Città del Messico. E oltre ad una Frida penetrante è proprio quello stesso Messico a emergere in quelle foto, scenario assolato e in pieno fermento post-rivoluzione: prorompente per incisività figurativa, lo sguardo spesso rivolto lontano come a sondare nuovi orizzonti di speranza, l’ artista affronta l’ obiettivo con piglio vibrante. Oggi queste immagini sono raccolte in una mostra che Mantova Outlet Village, in collaborazione con ONO Arte e la Fondazione Leo Matitz, si accinge a inaugurare. A partire dal 28 Marzo e fino al 15 Maggio saranno visionabili, infatti, 25 foto di Matitz in diversi formati che hanno Frida Kahlo come protagonista: un tributo ad una vera e propria figura leggendaria del suo tempo, che di un talento vivido e di una vitalità combattiva ha fatto la propria bandiera.

“Frida Kahlo. Fotografie di Leo Matitz” – Opening ore 17,30

c/o MANTOVA OUTLET VILLAGE

Via Marco Biagi

Bagnolo San Vito (MN)

Per info e orari: (0736) 25041 – info@mantovaoutlet.it – www.mantovaoutlet.it

©Eva Alejandra Matiz and “The Leo Matiz Foundation”

©Eva Alejandra Matiz and “The Leo Matiz Foundation”

Photo courtesy ONO Arte