“Sogno dunque sono”: incontro con Antonia Sautter, regina della creatività Made in Venice

 

Dire “Carnevale di Venezia” equivale a dire “feste”: sontuose, spettacolari, intrise di fascino e di suggestioni oniriche. Balli in maschera che sono un inno alla fantasia, ad un passato opulento come lo fu il ‘700 della Serenissima, a un’ eleganza fastosa ma estremamente raffinata. E dire “feste”, nella Venezia carnascialesca, equivale a dire “Ballo del Doge”. Vanity Fair lo ha definito “il più esclusivo al mondo”, e non a torto: allestito nella meravigliosa cornice di Palazzo Pisani Moretta, gioiello gotico affacciato sul Canal Grande, è senza dubbio l’ Evento per eccellenza. Definirlo “festa in maschera” sarebbe riduttivo. Partecipare al Ballo del Doge è inoltrarsi in un sogno, un regno palpitante di colori, emozioni, luci, suoni, un luogo incantato dove la realtà lascia spazio all’ immaginazione più squisita. Ogni angolo del Palazzo viene impreziosito da decorazioni sofisticatissime, sul palco si alternano fiabesche performance di artisti straordinari e gli ospiti, anzichè limitarsi ad assistere alla magia che prende vita a poco a poco, diventano gli autentici protagonisti della soirée. Per avere un’ idea dell’ atmosfera del Ballo, basta leggere i titoli e i temi assegnati alle sue edizioni: “…Because Dreaming is an Art” (2014), “Cupid in Wonderland” (2015), “The Secret Garden of Dreams” (2016), “The Magnificent Ephemeral – In praise of Dream, Folly and Sin” (2019), solo per citarne alcuni. L’ ideatrice di questo happening internazionale, un vero e proprio evento artistico oltre che mondano, è Antonia Sautter. Nata nel capoluogo del Veneto da padre tedesco e madre veneziana, Antonia riunisce in sè il pragmatismo teutonico e il gusto per il bello insito nel DNA degli abitanti della città lagunare. Il suo aspetto è nordico (occhi azzurri, capelli lunghi e biondissimi), la sua anima creativa allo stato puro. Si definisce “un’ artigiana sognatrice”, e ha diramato questa dote in più direzioni: la realizzazione di splendidi costumi ed accessori fatti a mano, l’ organizzazione di eventi luxury e, naturalmente, la direzione artistica del prestigioso Ballo del Doge. Era ancora una bambina quando, affascinata dalle abilità sartoriali di sua madre, iniziò a creare abiti. Da allora, lasciando la fantasia a briglia sciolta, ha intrapreso un percorso che anni dopo l’ avrebbe portata a fondare la Antonia Sautter Creations & Events. Il suo Atelier nel cuore di Venezia, poco distante da San Marco, è una sorta di “wunderkammer” del savoir faire artigianale. Costumi principeschi, compresi quelli d’ epoca realizzati per il Ballo del Doge, convivono con parrucche barocche, scarpine vellutate, sfarzosi kimono e borse ornate di arabeschi. Affianca il tutto un tripudio di preziose stoffe, stampe handmade e ricami finissimi, che utilizza per la creazione dei suoi accessori e della sua linea moda: entrambi, sono composti rigorosamente da pezzi unici. L’ ispirazione attinge perlopiù a Venezia, privilegiando velluti, damaschi, sete e broccati. La creatività, leitmotiv di una vita vissuta sulle ali del sogno, è valsa ad Antonia Sautter molteplici riconoscimenti, compresa l’ onorificenza di Cavaliere della Repubblica Italiana di cui è stata insignita nel 2012. Affascinata dal suo talento e dal suo eclettismo (in qualità di costumista ha collaborato anche con svariate produzioni teatrali e cinematografiche), ho voluto fortissimamente ospitarla nel mio blog. Dal nostro incontro è scaturita l’ intervista che segue: una conversazione in cui sarà l’ icona veneziana stessa a raccontarsi e a raccontare la sua arte.

Pensare a Antonia Sautter e pensare a Venezia è un po’ un tutt’uno. Come definirebbe il suo rapporto con la città lagunare?

Sono nata e cresciuta a Venezia. Questa città è sempre stata per me un’ inesauribile fonte di ispirazione. Venezia non smette mai di stupirmi, di emozionarmi, di incantarmi. È la mia città, la sento nell’anima e la vivo da cittadina, luogo in cui ho scelto di rimanere proprio per la sua unicità, esempio unico di forza e resilienza e habitat naturale in cui coltivare le mie creazioni e ideare nuovi progetti. Non potrei immaginare di vivere in un altro luogo. Non ho mai ceduto alla comodità della terraferma e nonostante i disagi spesso affrontati negli anni soprattutto per l’acqua alta, niente potrà mai allontanarmi da questa città che amo profondamente.

 

Antonia Sautter al lavoro nel suo magico Atelier

Dopo la laurea in Lingue e Letterature Straniere all’Università Ca’ Foscari si è trasferita a New York, dove ricopriva il ruolo di amministratore unico di Venezia Mode (azienda leader nella distribuzione della moda Made in Italy). Cosa le mancava di più della Serenissima, quando viveva negli Stati Uniti?

Mi mancavano i tramonti, le passeggiate lungo le mie amate “Zattere”, i riverberi della laguna, il suo speciale ritmo in cui il tempo sembra avere più valore, tutta quell’atmosfera di Venezia che io vivo come un grande abbraccio.

La nascita del Ballo del Doge, il prestigioso evento che ha lanciato nel 1994, è associata ad una storia decisamente affascinante. Potrebbe raccontarcela?

Il Ballo del Doge nasce a Venezia nel 1994. A quel tempo avevo un mio piccolo negozio di artigianato veneziano dove vendevo le mie creazioni. Per una serie di circostanze inaspettate entrò Terry Jones, storico membro dei Monty Python, attratto dai piccoli e colorati pezzi di artigianato che realizzavo. Mi parlò di un docu-film per la BBC dedicato alla quarta Crociata. Si trattava di riscostruire un viaggio nella storia di Venezia e, con intraprendenza e un pizzico di audacia, convinsi Terry Jones ad affidarmi parte dell’organizzazione. Misi alla prova la mia creatività, cimentandomi nella realizzazione dei costumi, delle scenografie e dei set per le riprese televisive, coinvolgendo amici e conoscenti da tutta Europa in un’impresa che, senza saperlo, avrebbe segnato il mio destino. Parte del programma consisteva nel mettere in scena una grande festa in un prestigioso palazzo veneziano. Fu un tale successo che gli amici, coinvolti nel progetto, mi incoraggiarono a realizzare, l’anno successivo, una nuova festa. Mi piace pensare che quello fu il primo Ballo del Doge che, da quel momento, ha avuto luogo ogni anno a Venezia l’ultimo sabato di Carnevale diventando una vera e propria produzione artistica, una nuova tradizione, oggi conosciuta ed apprezzata in tutto il mondo.

 

L’ opening del Ballo del Doge 2020

 

Parlando di sé stessa, ha tramutato la nota locuzione di Cartesio “Cogito ergo sum” in “Somnio ergo sum”. Come è sorto, in lei, questo gusto per il sogno, per il viaggio in altre epoche, per la sontuosità e la fiaba?

C’è una frase di un autore a me molto caro, Paulo Coelho, “Il mondo è nelle mani di coloro che hanno il coraggio di sognare e di correre il rischio di vivere i propri sogni”: questa frase esprime perfettamente il mio rapporto con i sogni e il mio modo di vivere la vita. Ognuno di noi cresce con il desiderio di realizzare i propri sogni e io credo di esserci riuscita. Questo lo devo, in primis a Il Ballo del Doge, ma anche a tutta la mia attività creativa che, basandosi sulla tradizione veneziana, mi ha portata ad aprire un Atelier, a creare una linea moda e a specializzarmi in grandi eventi. Un lavoro fatto di tanta passione, tenacia e creatività unite nel mettere in scena uno spettacolo che alza il suo sipario per una notte soltanto. Il Ballo è un luogo dove il tempo è sospeso e lo spazio perde i suoi confini reali. Mi piace definirlo “Il Sogno” perché non rappresenta soltanto il mio, ma è anche quello di tutti coloro che ogni anno scelgono di sognare insieme a me, siano essi ospiti o collaboratori. “Il Sogno” perché ognuno è libero di vivere questa esperienza nel modo in cui preferisce, esprimendo i propri desideri, le proprie aspirazioni attraverso l’arte del travestimento che riesce a svelare la vera essenza di ognuno di noi. A me piace pensare che chiunque scelga di partecipare al Ballo scelga di entrare in una dimensione onirica in cui tutto è possibile…o quasi.

 

Antonia Sautter sul palco del Ballo del Doge 2018

È appassionata di ricerca creativa, di savoir faire artigianale e delle sue espressioni più antiche, soprattutto rispetto ai tessuti e alle tecniche di lavorazione. Indicativo è il fatto che, a pochi passi da San Marco, abbia fondato un Atelier in cui vengono realizzati dei preziosissimi abiti e accessori su misura. Potrebbe dirci qualcosa in più al riguardo?

Mi considero una paladina del Made in Venice. Le mie creazioni, sia la linea moda che i miei abiti storici ed allegorici, sono interamente realizzati a Venezia. Il mio Atelier proprio dietro Piazza San Marco custodisce oltre 1.500 costumi, da me disegnati e creati per gli artisti del Ballo e per gli ospiti in oltre trent’anni di attività, tutti rigorosamente fatti a mano nel mio laboratorio a Venezia. Sono costumi di tutte le epoche e stili, da me reinterpretati in chiave fashion-glam. Non solo, quindi, costumi d’epoca filologicamente ispirati, ma anche allegorici, frutto della mia fantasia. Sono questi ultimi i costumi più scenografici e quelli a cui sono maggiormente affezionata: i miei abiti scultura, uno dei quali, Venetia, Regina dei Mari, è stato anche esposto alla Biennale d’Arte di Venezia nel 2017. L‘Atelier è aperto tutto l’anno, su prenotazione, ai visitatori che vogliano provare l’emozione di indossare una delle mie creazioni e magari realizzare un servizio fotografico per immortalare questa esperienza unica. Oltre ai costumi, ho un’altra grande passione che ho coltivato nella mia fucina tutta veneziana, un laboratorio artigianale dove realizzo la mia linea moda. Reinterpretando antiche tecniche di tintura e di stampa a mano, nascono collezioni immediatamente riconoscibili per la particolarità dei dettagli come le stelle che richiamano la Torre dell’Orologio di Piazza San Marco, il gotico fiorito delle trifore della Ca’ D’Oro, i fregi bizantini che si rincorrono sulle facciate dei palazzi e molti, molti altri ancora, tra cui le libellule simbolo di armonia, di amore, di trasformazione come realizzazione del sé al femminile e di libertà. La creatività al femminile è proprio per me sinonimo di libertà. Questi disegni vengono incisi con una sgubbia su tavolette di legno o linoleum e poi, assestando dei colpi di martello sullo stampo, prendono vita ricami indelebili dai colori scintillanti su velluto o seta pregiata. Sono capi di alta manifattura in edizione unica, interamente fatti a mano e decorati uno a uno. I materiali utilizzati sono morbidi velluti e sete cangianti. La collezione comprende abiti da sera, borse, scarpe, kimono, accessori e complementi per l’home decor come cuscini e puff, cornici per specchi, ventagli e arazzi. Tutto personalizzabile su richiesta del cliente. Ciascuna creazione comporta ore di attento lavoro e di studio: della giusta combinazione per trovare la nuance di colore perfetta, della scelta del velluto adatto, della realizzazione degli stampi attraverso i quali verranno realizzati i disegni sui tessuti. Pazienza, concentrazione, grande precisione e manualità sono le modalità con cui lavoro io, assieme alle mie sarte. Le mie creazioni sono disponibili al Venetia, il mio piccolo negozio-atelier situato dietro Piazza San Marco oppure nel nuovo e-commerce Antonia Sautter Boutique (https://antoniasautter.boutique/).

 

L’ abito “Venetia”, realizzato interamente a mano come ogni creazione di Antonia Sautter

Un novero di meravigliosi abiti d’epoca rende ancora più suggestivo l’ Atelier dell’ icona del “Made in Venice”

Il Ballo del Doge viene considerato l’evento mondano più esclusivo a livello internazionale. Come sceglie, di volta in volta, i temi che caratterizzano la festa?

La stampa, i media e gli ospiti che si sono susseguiti negli anni lo hanno definito il più sontuoso, raffinato ed esclusivo ballo in maschera del mondo, una delle dieci cose che tutti dovrebbero fare almeno una volta nella vita. La mia ispirazione per ogni edizione de Il Ballo del Doge nasce dai miei sogni di bambina, dall’immaginario che mia mamma stimolava con la sua inesauribile creatività. E anno dopo anno è diventato una straordinaria produzione, un vero happening internazionale. Durante i lunghi mesi di preparazione per il Ballo già penso a come vorrei realizzare il successivo. L’ispirazione per me nasce proprio nel momento di massima operosità, quando sono immersa nel mio lavoro e circondata dai miei collaboratori. Quelli sono i momenti per me più preziosi e delicati. Attimi in cui per esempio dall’ascolto di un brano da sposare ad una nuova coreografia, la mia mente mi regala immagini e suggestioni che mi danno un’idea per il Ballo che verrà. Così inizio a pensare, ideare, realizzare bozzetti e personaggi per la nuova edizione. Per tradizione i temi del Ballo sono 3 e vengono declinati a seconda della narrazione scelta. I peccati capitali, l’amore eterno, il giardino dell’ Eden, una celebrazione di Venezia. Insomma, ogni anno la mia creatività, che corre a briglia sciolta, mi porta in territori sconosciuti nei quali non ho paura di addentrarmi e, attraverso la disciplina che mi caratterizza, riesco a domarla realizzando il mio sogno, Il Ballo del Doge.

 

Alcuni scatti che testimoniano la preziosità e la scenografia fastosa e accuratissima del Ballo del Doge

Sempre a proposito del Ballo del Doge, esistono aneddoti o VIP che ricorda in modo particolare e di cui vorrebbe parlarci?

Tante sono le personalità, gli imprenditori e le star dello sport che negli anni hanno scelto di vivere l’esperienza de Il Ballo del Doge. Spesso questi ospiti scelgono di uscire dagli schemi e utilizzano l’arte del travestimento che permette di giocare con sé stessi. C’è chi sceglie il totale anonimato coprendo il proprio volto completamente e chi invece vuole vestire panni insoliti o eccentrici. Ricordo con piacere una personalità del mondo musulmano, che volle vestirsi da Papa.

 

Costumi sfarzosi, atmosfere da sogno, artisti che coniugano la Commedia dell’ Arte con la fiaba…Il Ballo del Doge è tutto questo e molto altro ancora

A causa della pandemia di Covid, stiamo vivendo uno dei periodi più drammatici della nostra storia. Il lockdown ha determinato anche la sospensione delle favolose feste del Carnevale veneziano. Cosa pensa di questa situazione, sicuramente penalizzante? Una rinascita secondo lei è possibile o rimarremo ancorati al virtuale ancora a lungo?

Il Ballo del Doge nel 2020 celebrava la sua ventisettesima edizione giusto in tempo prima che calasse il sipario sul mondo della creatività, della fantasia, dello spettacolo in genere. Quest’anno non ho potuto mettere in scena il Ballo a causa delle restrizioni imposte per la tutela della salute pubblica. Tutti i miei ospiti, ormai per me diventati anche amici, mi hanno sostenuta e appoggiata in questo difficile momento. Il Ballo del Doge non è solo un evento mondano, ma una grande macchina lavorativa che coinvolge per molti mesi dell’anno tanti giovani. Runner, montatori, tecnici del suono e delle luci, vestieriste, truccatori, costumisti, sarti, facchini, attori, cantanti, ballerini, fotografi, operatori video, figuranti e molti altri. Una popolazione che conta su questo evento e su di me. Un evento di livello internazionale che permette loro di valorizzare il proprio mestiere, qualunque esso sia, di mettersi in mostra davanti ad un pubblico prestigioso. La sospensione è stata un duro colpo per me soprattutto pensando a tutti loro. Ho cercato però, il più possibile, di continuare a lavorare, a creare, insieme ai membri più stretti del mio team. Per fare in modo che il sogno non si fermasse, non si spegnesse la fiammella della fantasia. Siamo pronti a portare in scena una nuova magnifica favola, quando sarà il momento giusto. E garantisco fin d’ora che metterò tutte le mie forze affinché sia uno spettacolo da ricordare.

Il Ballo del Doge, in occasione del 1600simo anniversario della fondazione di Venezia, si è svolto in una speciale edizione virtuale incentrata su una serie di tableaux vivants ai quali hanno preso parte svariati artisti e performer. Che può raccontarci di questa iniziativa?

L’iniziativa realizzata per Fliggy (piattaforma travel di Alibaba) era parte di una più ampia serie di collaborazioni con attrazioni turistico-culturali in tutta Europa. Musei tra i più celebri al mondo come Il Louvre, Il Prado e il British Museum, avevano già realizzato live streaming attraverso questa piattaforma per continuare a tenere i riflettori accesi sul mondo dell’arte in questo periodo di chiusura. È stata un’opportunità molto importante e preziosa per me. Abbiamo regalato al pubblico cinese un Ballo del Doge a portata di smartphone con oltre 40 performers del mio cast artistico, che mi hanno accompagnata in un percorso di narrazione per presentare, attraverso i tableaux vivants da me ideati, Venezia e la tradizione del suo Carnevale. Le iniziative digitali, come la diretta live-streaming con Fliggy, sono occasioni perfette di visibilità e massima diffusione per continuare a tenere alta l’attenzione sull’arte, la cultura e la magia del Carnevale e di Venezia in tutto il mondo. L’evento con Fliggy è coinciso anche con i festeggiamenti per l’anniversario dei 1600 anni di Venezia. Un’occasione unica per ricordare al mondo la bellezza e la storia immortale di questa nostra meravigliosa città.

 

Gli artisti che si esibiscono durante l’ evento contribuiscono ad accentuarne l’incanto

Ha già deciso il tema su cui si focalizzerà il prossimo Ballo del Doge? E quale edizione, a tutt’oggi, ricorda con maggior soddisfazione?

Ho già scelto il titolo per la ventottesima edizione che sarà “Amor Opus Magnum”, ovvero l’amore è la grande ricchezza. La immagino come una rinascita, una festa straordinaria che si vestirà di nuovi colori per celebrare l’inizio di una nuova vita dove passione, creatività, tradizione, bellezza e arte troveranno nuovamente spazio per esprimersi in un’esplosione di joie de vivre e libertà. Ogni Ballo (e sono ormai 27!) è una nuova favola, legata a straordinari ricordi e densa di emozioni. Tutte le edizioni rappresentano l’espressione della mia creatività. Forse quella che ricordo con maggior affetto è stata “Il Ballo del Doge Rebirth and Celebration”, la venticinquesima edizione. Fu un traguardo simbolico, l’apoteosi dei festeggiamenti, ma anche una magica coincidenza: si celebrava infatti, nella stessa notte, anche il mio compleanno. Questo ha reso il tutto ancora più straordinario: 25 anni di Ballo del Doge, 30 anni di attività nella organizzazione di eventi e i miei 60 anni!

 

 

Per concludere, vorrei riaccendere i riflettori su Antonia Sautter. Sognatrice, creatrice, visionaria, amante del bello e…? Quale definizione aggiungerebbe, per completare la sua descrizione?

Sono una sognatrice…pragmatica e ottimista di natura. Ho sempre capito che per realizzare i sogni bisogna avere senso pratico e capacità organizzative, altrimenti rimarrebbero pura astrazione. Mi piace volare con la fantasia tenendo i piedi saldamente fissati al suolo. Sono costantemente alla ricerca della meraviglia e, curiosa di natura, mi piace mettere nelle cose quel dettaglio magico, in apparenza impercettibile, che fa la differenza e fa emozionare coloro che lo sanno cogliere. Sono tenace, al limite dell’ostinazione, e sono convinta che attraverso la volontà e l’applicazione si possa raggiungere qualsiasi traguardo. Dicono che sono coraggiosa e questo coraggio, forse, deriva dalla continua spinta ad osare che mi caratterizza. In concreto, sono una stilista di moda, designer di costumi d’epoca ma anche direttore artistico e organizzatrice di eventi. E a tutto questo voglio aggiungere, con fierezza, che sono donna! Fortemente convinta del valore aggiunto che il femminile possa portare nel mondo. Per me tutte le donne sono regine guerriere e affrontano ogni giorno con coraggio le loro piccole grandi sfide della vita. Da anni curo nel dettaglio e propongo, in diverse versioni, una sfilata spettacolo dove attraverso alcuni dei miei abiti dedicati alle grandi regine della storia e dell’immaginario, ripercorro uno straordinario universo femminile. Le regine storiche come Maria Antonietta, Caterina di Russia, Cleopatra, Teodora o quelle fantastiche come Titania, Sharazade, la Regina del Mare, la Regina dell’Amore, la Regina dei Peccati. Queste sono solo alcune delle personalità che ho scelto di portare in scena e a cui affido un messaggio di coraggio e di intraprendenza. Attraverso queste straordinarie protagoniste, della storia o dei sogni, cerco di esprimere le tante anime femminili che sono ancestralmente dentro ciascuna di noi. Un messaggio ad essere impavide e prendere consapevolezza dell’energia creatrice che ci caratterizza e ci rende uniche. Per non dimenticare mai che ogni donna è Regina nell’anima.

 

Abito “Caterina di Russia”

Antonia Sautter in una delle sue ricercatissime mise

Ancora una serie di scatti tratti da varie edizioni del Ballo del Doge

Abito “Veronica Franco”

Abito “Regina della Notte”

Abito “Cleopatra”

Antonia Sautter mentre rifinisce uno dei suoi spettacolari abiti d’altri tempi

I kimono, tra i capi più iconici dell’ Atelier

Night Blossom Pantuffe, slippers in velluto di seta stampato a mano impreziosite da finiture in oro e cristalli Swarovski

Venetia, la boutique a due passi da San Marco

Kimono platin con stampa giardino e insetti

Costumi d’epoca. Qui sopra: Caterina Cornaro, Giacomo Casanova e Maria Antonietta

Antonia Sautter nel suo regno

In queste immagini, dei magnifici pezzi appartenenti alla Home Collection

Due foto scattate sul red carpet della 77ma Mostra Internazionale d’ Arte Cinematografica di Venezia. Sfila “Venetia”, abito scultura di Antonia Sautter (nella foto, con tanto di mascherina gioiello), indossato per l’ occasione dall’ attrice Beatrice Schiaffino. L’ abito, in organza di seta, rappresenta Venezia attraverso i colori che evocano le albe del bacino San Marco. Le rose rimandano ai vortici dell’ acqua e il lungo strascico simboleggia il Canal Grande. “Venetia” è stato esposto alla Biennale d’Arte del 2017 nel padiglione Luxus come emblema dell’ artigianato d’ eccellenza veneziano.

 

All photos courtesy of Antonia Sautter Press Office

 

 

“Le sorelle Chanel”: un libro per celebrare il 50esimo della morte di Mademoiselle

 

Il 10 Gennaio del 1971, a Parigi, moriva Coco Chanel. Il cinquantesimo della sua morte rappresenta un’ ulteriore occasione per celebrare una stilista che è già un’ indimenticata icona: senza dubbio, la più nota ed osannata couturière del panorama mondiale. Rivoluzionò il concetto di moda e di stile, impose una nuova femminilità, i capi che creò sono immortali. E, last but not least, fu uno dei primi esempi di “self-made woman”, tanto per usare un termine che con la sua vita calza a pennello: alle spalle non aveva una famiglia abbiente, ne’ dei prestigiosi studi nel settore. Eppure, il suo background fu altrettanto formativo delle migliori scuole. In questi giorni ce lo racconta un libro, “Le sorelle Chanel”, firmato dalla scrittrice statunitense Judithe Little e pubblicato dalla casa editrice Tre60. L’ ennesima biografia di Gabrielle Bonheur Chanel, vi state chiedendo? Niente affatto, o meglio: una biografia, certo, ma approfondita da un punto di vista sicuramente inedito. Judithe Little sceglie Antoinette (detta Ninette), la minore delle tre sorelle ChanelJulia-Berthe era la maggiore, Gabrielle la mezzana – per dar voce ad un racconto sincero e spassionato sul loro percorso esistenziale. Figlie di Henri-Albert Chanel, un venditore ambulante, e di Jeanne DeVolle, dopo la morte della madre le tre sorelle vengono affidate alle cure delle suore dell’ orfanatrofio di  Aubazine. Alphonse e Lucien, i due figli maschi di Henri-Albert e Jeanne, trovano invece rifugio presso una famiglia di agricoltori che aiutano nelle incombenze quotidiane. Per anni Julia-Berthe, Gabrielle e Antoinette vivono nella speranza che il padre le porti via dall’ orfanatrofio e le tenga con sè, finchè capiscono che ciò (nonostante le promesse iniziali) non avverrà mai. Continuano quindi a respirare le austere atmosfere del convento di Aubazine, dove le suore le abituano a una severa disciplina e sono obbligate ad indossare una spartana divisa. Non tutto, però, in quei luoghi è rigidità e rigore. Tanto per cominciare, le sorelle Chanel imparano a padroneggiare l’arte del cucito. Il monastero stesso, poi, si tramuta (soprattutto per Gabrielle) in una profonda fonte di ispirazione. Narra Antoinette all’ inizio del libro: ” Certi dettagli di Aubazine sarebbero rimasti con noi per sempre. Il bisogno d’ordine. L’ amore per la semplicità e il profumo di pulito. Uno spiccato senso del pudore. L’ attenzione per la cura artigianale, le cuciture impeccabili. La serenità del contrasto tra bianco e nero. Le stoffe ruvide, sgualcite, dei contadini e degli orfani. “…I rosari che cingono la vita delle suore, i mosaici intrisi di una simbologia mistica fatta di stelle e mezzelune, le vetrate istoriate, gli stessi spazi ampi, sgombri e desolanti del convento rappresentano dettagli che fomentano l’ immaginazione. Se di giorno è la disciplina ad imperare, di sera le sorelle – complici i libri e i magazine femminili – si abbandonano al sogno di un’ altra vita, dove l’eleganza, il lusso e il fascino sono i protagonisti principali. Ogni minima suggestione assorbita ad Aubazine entrerà a far parte dell’ archivio ispiratore della futura Maison Chanel, della sua iconografia, sia per quanto riguarda gli abiti che i bijoux. Quando a diciotto anni Gabrielle e Ninette lasciano il monastero, sono più determinate che mai: a Moulins lavorano e si perfezionano nel cucito, ma frequentano assiduamente anche i Café-Chantant (dove Gabrielle si esibisce come cantante per un periodo), a Vichy le si può incontrare nelle sontuose sale da concerto, ma è a Parigi che inizia la loro grande avventura. Coco Gabrielle viene così ribattezzata grazie al titolo di una delle sue canzoni, “Qui a vu Coco?” – inizia a creare cappelli nella Ville Lumière, e poco dopo (finanziata dal suo grande amore Boy Capel) apre la storica boutique di Rue Cambon 31. Ai cappelli, che riscuotono un successo incredibile perchè sono semplici pagliette ornate da fiori o piume, segue la creazione dei suoi capi di vestiario, innovativamente pratici e essenziali, e poco tempo dopo l’ apertura di boutique Chanel in esclusive località balneari quali Deauville e Biarritz. Ninette affianca la sorella costantemente, ma la Prima Guerra Mondiale segna un punto di svolta decisivo. Per Coco e Antoinette è una nuova lotta, ma stavolta mette in gioco la sopravvivenza, la realizzazione di sè e un’ inevitabile separazione. Il resto è storia: la Maison Chanel rimane un colosso della Couture, mentre per quanto concerne il rapporto tra le due sorelle vi rimando al libro senza fare spoiler. “Le sorelle Chanel” si accinge ad uscire in ben dieci paesi. E’ risaputo che Coco Chanel non amasse parlare della sua vita nè della sua famiglia, e che nel tempo si “costruì” un passato imbastito perlopiù sulla fantasia. Puntare su Antoinette come narratrice ha permesso a Judithe Little di rimuovere il velo della finzione per conoscere la verità così com’era, nuda e cruda. Ma le parole della minore delle sorelle Chanel non rivelano solo una realtà abilmente camuffata, bensì il grande dolore che sottostà a questa rielaborazione: il dolore dell’ abbandono, una ferita per sempre sanguinante nell’ esistenza di Coco/Gabrielle.

 

Foto di Coco Chanel via chariserin from Flickr, CC BY 2.0

 

Frida.Kiza, il brand di Fabiola Manirakiza: l’Italia nel cuore, il mondo come meta

Fabiola al party “The New Beginning” di VOGUE Italia nel 2017

Fabiola Manirakiza è una stilista originaria del Burundi, ma fabrianese d’adozione. Vive nelle Marche dal 1990. Quando abbandona l’ Africa insieme alla famiglia, è giovanissima. Il trasferimento a Fabriano, la “città della carta”, le permette di scoprire un patrimonio culturale e artistico da cui rimane affascinata. La storia millenaria di quel luogo, ricca di splendide testimonianze, la conquista immediatamente. Innamorata del bello, Fabiola può assecondare il proprio senso estetico: dedicarsi alla moda è per lei una scelta istintiva, del tutto naturale. Vola all’estero per frequentare alcuni corsi nel settore, poi torna in Italia e mette le sue competenze al servizio di svariate aziende. Intanto, il successo delle creazioni che realizza per se stessa e per le amiche è tale da indurla a fondare un proprio brand. E’ il 2016 e a quel brand dà il nome di Frida.Kiza, un mix tra un omaggio a Frida Kahlo e l’ abbreviazione del suo cognome. Da allora, la strada è tutta in discesa per la talentuosa designer di origine africana: Fabiola intensifica le ospitate in TV (dove appare già da tempo), partecipa alle più importanti manifestazioni fieristiche sia in Italia che oltreconfine e, dulcis in fundo, inizia a presentare le sue collezioni durante la Milano Fashion Week. A Fabriano mantiene la sede legale di Frida.Kiza, ma lo showroom è situato a Milano, e i capi del brand sono venduti nelle più prestigiose boutique italiane e internazionali. Le celebs adorano lo stile di Fabiola Manirakiza, un inno al Made in Italy in quanto a sartorialità, ispirazione e ricercatezza dei tessuti. Basti pensare che l’attrice e conduttrice Emanuela Tittocchia, direttrice artistica dell’ “Opening Sanremo 2020”, ha indossato un abito Frida.Kiza in occasione dell’ evento che ha inaugurato la 70esima edizione del Festival. L’ amore per il Belpaese si esprime a tutto tondo nelle creazioni della designer, diventando parte integrante della sua cifra stilistica: l’arte italiana, in particolare, è uno dei maggiori motivi ispirativi di Fabiola, come i colori degli antichi dipinti e le opere architettoniche che appartengono al nostro patrimonio storico. La collezione Primavera/Estate 2020 di Frida.Kiza declina questi elementi in un tripudio di stampe, cromie vivaci e fantasie floreali. I look sono chic ma freschi, disinvolti, alternano linee contemporanee a silhouette vagamente anni ’50. Risaltano abiti con la gonna svasata, pantaloni cropped, mantelle nella stessa fantasia dell’ outfit, shorts in full color…Il punto vita viene sottolineato costantemente, il più delle volte da un’alta cintura rossa. “Summer Mood” – così si chiama la collezione – racconta di un sogno che fonde suggestioni artistiche, naturali e floreali in un vortice inebriante: a fare da leitmotiv è Venezia, che le stampe riproducono nei suoi squarci più romantici (come il ponte di Rialto), affiancata alle visioni di una natura rigogliosa ed a fiori dai colori travolgenti in cui predominano il turchese e il fucsia. I tessuti (jersey, denim, viscosa) sono versatili e pratici, perfetti per l’ estate ma anche per esaltare questo surreale viaggio nella città lagunare. Ancora una volta, Frida.Kiza combina l’ eccellenza del Made in Italy con tecniche e tendenze up to date; è un connubio che seduce, rappresenta il suo marchio di fabbrica. Quella proposta dal brand è una moda rivolta sia alle “taglie da passerella” che alle più comode, valorizzate da una collezione pensata apposta per le curvy. Intrigata dalle creazioni di Fabiola Manirakiza, ho voluto fare quattro chiacchiere con lei per saperne di più sulla sua griffe. Viviamo nella stessa città, e nonostante Fabiola sia sempre in giro per il mondo, mi ha concesso un po’ del suo tempo prezioso per rispondere ad alcune domande. Il risultato è l’ intervista che segue: non mi resta che augurarvi una buona lettura.

Fabiola, tu provieni dal Burundi. Come sei approdata in Italia?

Amo l’Italia da sempre: ho lavorato al Consolato Italiano e frequentato ambienti della diplomazia italiana. Trasferirmi in questo paese, per me, è stato un passo naturale.

Quando hai scoperto la tua passione per la moda, e in che modo l’hai coltivata?

La moda è sempre stata il mio sogno…Creavo abiti per me stessa già da bambina. Con il tempo, ho semplicemente assecondato una passione innata.

 

Frida.Kiza PE 2020

Raccontaci le tappe più salienti del tuo percorso nel fashion system.

Nel mio percorso formativo figurano, tra l’altro, studi di moda a Londra. Dopodichè, ho iniziato ad essere presente in varie trasmissioni televisive per poi approdare al Festival di Sanremo 2020, dove ho vestito Emanuela Tittocchia in occasione della serata inaugurale: Emanuela ha scelto il mio abito tra i tanti che le erano stati proposti.

 

Emanuela Tittocchia indossa un sontuoso abito firmato Frida.Kiza all’ “Opening Sanremo 2020”

Come è nata l’idea di fondare un tuo proprio brand?

Frequentando e conoscendo molti stilisti, ho voluto anch’io dare un volto alle mie creazioni.

Frida.Kiza è sorto a Fabriano, nelle Marche, a oltre 300 km da una capitale della moda come Milano. Perché questa scelta?

A Fabriano si trova la sede legale del brand. Lo showroom di Frida.Kiza, però, e’ a Milano.

 

Frida.Kiza PE 2020

A quale donna si rivolge il tuo brand, hai una musa ispiratrice?

Quando creo penso a una donna che ama la vita, piena di gioia di vivere. La mia musa? Senza dubbio, Coco Chanel.

Nelle tue recenti collezioni fai un ampio uso delle stampe e di una palette cromatica vibrante. Sono leitmotiv che derivano da riferimenti specifici?

Direi che esprimono perfettamente la personalità di Frida.Kiza.

 

Fabiola al lavoro

Chi sono i designer che ami e che ti ispirano maggiormente?

Coco Chanel, Armani e Dolce & Gabbana su tutti.

A proposito di ispirazione, hai mai attinto a motivi o a suggestioni africane? E più in generale, esistono degli elementi ispirativi che ricorrono nelle tue creazioni?

Non mi sono mai ispirata all’ Africa nelle mie creazioni, ma non è detto che non possa essere un’ idea per le prossime collezioni. Utilizzando, come sempre, dei colori cromatici.

 

Un outfit della collezione PE 2019 di Frida.Kiza

Personalmente, ti senti più italiana o più africana?

Italiana al cento per cento, ma sento di appartenere al mondo.

Quale futuro attende la moda, nell’era del Coronavirus?

Un cambiamento epocale, sia nel creare che  realizzare e proporre.

 

Fabiola insieme alla mitica Suzy Menkes, International Fashion Editor di VOGUE

Pensi che varierà qualcosa nel tuo modo di creare, di ispirarti, di presentare le tue collezioni?

Il brand rimarrà sempre Frida. Kiza con le sue creazioni e ispirazioni, ma guarderà costantemente ai continui cambiamenti che ci coinvolgeranno.

Quali sono i progetti più immediati che ti vedono coinvolta?

Sicuramente, la preparazione della nuova collezione Primavera/Estate 2021.

 

 

 

Altri look tratti dalla collezione PE 2020 di Frida.Kiza

Un ritratto fotografico di Fabiola Manirakiza

La designer con Carla Sozzani, un’ icona indiscussa (nonchè sorella dell’ indimenticabile Franca)

Stampe e ancora stampe: uno dei leitmotiv delle collezioni griffate Frida.Kiza (nella foto, un look della PE 2019)

Fabiola in uno scatto insieme alla nota giornalista di moda Giusi Ferrè

 

 

 

Il ritorno di Jack Paps, carismatico cantastorie

(Photo by Luca Zizioli)

Questo weekend inizia con un bell’ incontro. Ricordate Jack Paps, già ospite di VALIUM nel 2017? Bene, è tornato a trovarci. E siccome detesto perdere di vista gli amici, lo accolgo molto volentieri. Negli ultimi tre anni, per lui, si sono succeduti eventi che l’hanno coinvolto sia sul piano privato che professionale, ma ha sempre mantenuto il proprio imprinting: quello di artista eclettico e felicemente underground. Prima del lockdown, Jack si suddivideva tra sporadiche puntate in Veneto e Milano, dove si è trasferito in pianta stabile. La musica ha continuato ad appassionarlo sotto forma di sperimentazioni e collaborazioni con amici di lunga data, sebbene i suoi interessi siano innumerevoli.  Ne parliamo in una chiacchierata dove – carriera nelle sette note a parte – toccheremo temi come le discipline orientali, i ricordi associati all’ arte di strada, le aspirazioni, Venezia ai tempi della pandemia, l’ ispirazione e molto, molto altro ancora. Una chicca in anteprima? Per ammazzare il tempo durante la quarantena, Jack ha aperto un profilo Instagram dove posta le sue “canzoni della domenica” ogni settimana: un appuntamento imperdibile in cui rivisita, nel giocoso e onirico stile Paps, brani noti e meno noti del passato. Se volete saperne di più su questo immaginifico cantastorie contemporaneo, godetevi il botta e risposta qui di seguito. Ah, vi avverto: parecchi dettagli sono rimasti invariati, rispetto al nostro primo incontro. L’ alone di mistero che circonda l’artista è sempre lo stesso, così come il look bohémien e pittorescamente “fin de siècle”. Ma soprattutto permane il carisma di una personalità ipnotica, del tutto sui generis, che cattura all’ istante. Sarà solo una mia impressione, però non riesco a immaginare Jack Paps mentre lotta con le unghie e con i denti per catapultarsi nel mainstream musicale…

Una domanda semiseria. Jack, riannodiamo il filo: nel 2017, quando ti ho chiesto che progetti avevi dopo la tua esperienza al Summer Jamboree di Senigallia, mi hai risposto che pensavi di mollare tutto per insegnare yoga. Com’è andata, invece?

E’ stato così in parte, con l’eccezione che non ho abbandonato il lavoro di artista, ma non dubito che in futuro potrei farlo. In parallelo alla mia vita di musicista c’è un’ossessione e uno studio continuo per le pratiche e le discipline che arrivano dall’ Oriente, soprattutto per ciò che riguarda l’ascetismo.

 

 

Il tuo percorso professionale è intriso di un mistero che lo carica di fascino: potremmo tornare sull’argomento per ricapitolare? Come ti racconteresti a chi non ha letto la tua prima intervista per VALIUM?

Questa professione è capitata per caso in verità, in un susseguirsi di situazioni concatenate. Sono un solitario con una pervasiva malinconia e durante la mia infanzia e la mia adolescenza ho saziato questa mia emozione predominante con le note di una piccola pianola trovata tra le cianfrusaglie. Passavo molto tempo, in uno stato di raccoglimento, a cullarmi col volto disteso sulla tastiera mentre suonavo. Fatto sta che gli anni passavano e ho imparato a suonare. La musica è rimasta di fatto una voce intima nella mia vita, finché a 24 anni circa, disilluso dalle aspettative di una vita ordinaria e con l’incoscienza e l’audacia che contraddistinguono quella età, mi sono gettato tra le calli e i campielli Veneziani con una piccola fisarmonica blu, suonando e cantando a squarciagola. Da cantastorie squattrinato per le strade a performer professionista per eventi di prestigio, nel giro di pochi anni mi sono perfezionato e ho fatto della musica il mio mestiere. Agli inizi ero persuaso che la musica e le mie espressioni artistiche fossero il fine e che la mia passione, le mie aspirazioni fossero il carburante per raggiungere questo traguardo. Oggi invece, a distanza di qualche anno, penso che la musica sia stato il mezzo, e che il fine fossero le relazioni e le connessioni che potevo creare attraverso di essa.

In questi anni hai alternato le esibizioni nelle location più esclusive alle performance in strada. Qual è il trucco per trovarsi a proprio agio in entrambi gli ambienti?

Cerco disperatamente il trucco. Ho chiesto anche al mio amico mago che lavora ogni tanto con me, molto abile nei trucchi, ma anche lui non ha saputo dare una risposta. Vivo una perenne dicotomia, anche quella interiore tra me e Jack Paps.

 

(Photo by Elisa Cuneo)

A proposito di arte di strada, quali ricordi hai dei tuoi esordi nelle calli di Venezia? E cosa pensi della Laguna in quarantena, della sua trasformazione sbalorditiva?

Venezia è stata il teatro della mia crescita. L’ho vista vestirsi a festa durante il Carnevale, l’ho accompagnata con la mia musica e l’ho vista ballare, l’ho vista piangere lacrime amare durante le inondazioni che l’hanno ferita, l’ho vista assediata di turisti che l’animavano e la tormentavano e l’ho vista oscillare davanti ai miei occhi alla fine dei Bacaro tour con gli amici (il Bacaro tour è una forma tutta veneziana che prevede il giro delle locande bevendo almeno un bicchiere in ognuna di esse). Poi è arrivato il COVID-19 e pochi giorni prima che cominciasse la quarantena l’ho vista per la prima volta deserta, affascinante e silenziosa, riprendere il respiro. L’ho salutata commosso e sono ritornato a Milano.

 

(Photo by Serena Rose Zerri)

Dopo il trasferimento a Milano, hai deciso di tornare in Veneto di tanto in tanto per riannodare le collaborazioni che avevi già avviato con svariati musicisti: penso a Damien McFly o a Gabriele Fassina, in arte FACS. In che modo si intersecano i vostri talenti?

Dopo sei anni di vita a Milano, ho voluto ritrovare gli amici che avevo perso di vista, specialmente nel Veneto. Mi sono messo in testa che fosse una cosa importante e alla quale dare priorità. Questa scelta è stata importante sia a livello umano che lavorativo. E così per prima cosa sono andato a trovare un vecchio amico e la sua band della quale facevo parte prima di diventare solista, Damien McFly. Un cantautore a cui voglio bene e che stimo profondamente come professionista, un ragazzo che da una città di provincia è riuscito con la sua musica e i suoi testi a farsi sentire internazionalmente, e in un certo senso il primo con cui ho potuto imparare il mestiere. Trovare una formazione musicale con cui si è in sintonia non è una cosa scontata, e dopo anni ho avuto l’occasione di poter suonare di nuovo con loro. Tra le altre buone occasioni ho potuto risuonare e confrontarmi con un altra persona speciale nel mio cuore, un musicista che personalmente reputo il più talentuoso tra tutti quelli incontrati fino a oggi, Gabriele Fassina in arte FACS. Con lui ho condiviso tante avventure e musicalmente c’è un intesa molto forte. Quando suoniamo insieme non c’è bisogno di parole o gesti, a volte penso che non ci sia neanche bisogno di comunicare, tanto siamo sulla stessa lunghezza d’onda.

Pensi che qualcuno di questi connubi possa sfociare in una collaborazione duratura?

Penso che le collaborazioni non verranno a mancare con entrambi, ma l’aspetto dell’amicizia per me è molto più importante. Le collaborazioni verranno da sé.

 

Jack e Damien McFly (photo by Massimiliano Berto)

FACS e Jack

Ultimamente hai aperto un profilo Instagram che, ogni settimana, propone una splendida chicca: la “canzone della domenica”, ovvero brani del passato che rivisiti con il tuo magico estro. Come nascono questi piccoli gioielli?

Sono appassionato di musica “tamarra” anni ’90, e trovo che i tormentoni dance di quegli anni abbiano un grande potenziale: si possono trasformare in versioni anche distanti e diverse tra loro, per esempio in versioni orchestrali o motivetti, come nel mio caso, da cantastorie. E’ uno spensierato passatempo in questi giorni di reclusione.

 

La Damien McFly Band (photo by Massimiliano Berto)

Parlando invece in generale, cosa fa scoccare la scintilla tra te e l’ispirazione?

La musica in sè è per me fonte di ispirazione. Spesso ho la necessità di comporre o di trasformare partendo da una musica che ho sentito e che mi ha colpito.

L’ era del Coronavirus sta rivoluzionando gli stili di vita. Che ci racconti della tua quarantena?

Come già si è capito dalle mie risposte, io non soffro nell’isolamento perché spesso la solitudine placa le mie paure. Sono quindi forse uno dei pochi ad aver ritrovato un armonico equilibrio con me stesso. Il fatto che la città si sia fermata ci ha regalato un insolito silenzio nel quale le nostre riflessioni hanno fatto eco.

 

(Photo by Elisa Cuneo)

Per un artista che, come te, privilegia la dimensione live, il Covid-19 rappresenta un fattore penalizzante. In quale direzione potrebbe evolvere l’esibizione musicale?

Penso semplicemente che si debba aspettare. Esistono dei mestieri che vivono del contatto diretto col pubblico, si possono utilizzare delle piattaforme Internet ma personalmente lo trovo un rattoppo in attesa di tempi migliori.

 

(Photo by Elisa Cuneo)

 

 

 

Le emozioni danzano sulle punte: incontro con l’ Étoile internazionale Petra Conti

(Photo by Joe Shalmoni – Courtesy Fondazione Arena di Verona)

E’ eterea come una ninfa e ha sempre il sorriso sulle labbra: Petra Conti si muove leggera, sembra danzare persino quando cammina. Non riesco a immaginarla che su un palco, mentre si libra in un grand-jeté con la grazia di una farfalla. Eppure, la sua souplesse si coniuga con una straordinaria forza interiore. Questo connubio, a cui si aggiungono un talento innato, dosi massicce di saggezza e un ferreo senso della disciplina, sintetizza gli ingredienti che compongono la personalità di Petra, Étoile con un curriculm che annovera performance nei più prestigiosi teatri internazionali. Classe 1988, nata ad Anagni da padre italiano e madre polacca, a poco più di 20 anni viene nominata Prima Ballerina del Teatro alla Scala e da allora, per lei, inizia una carriera che la porta costantemente in giro per il mondo. Diplomatasi con lode all’ Accademia Nazionale di Danza e perfezionatasi al Teatro Mariinsky di San Pietroburgo, Petra è appena diciassettenne quando viene convocata all’ Arena di Verona per esibirsi come Étoile Ospite nel balletto “Cenerentola”, in cui interpreta la protagonista. Oggi, riapproda su quel palco di frequente. L’ultima volta risale al 2019, in occasione del 97° Festival Lirico, dove è stata invitata a danzare – sempre in qualità di Étoile Ospite – sia in “Aida” che ne “La Traviata”, l’ultima regia del Maestro Zeffirelli, trasmessa in mondovisione e presenziata dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Dopo l’ esperienza al Teatro alla Scala, Petra ha rivestito il ruolo di Prima Ballerina al Boston Ballet e, dal 2017, si è stabilita in California dove è Resident Principal Guest Dancer del Los Angeles Ballet. La sua carriera di Étoile Ospite, nel frattempo, si è consolidata stabilmente: le più celebri compagnie mondiali se la contendono e la sua fama è cresciuta al punto tale da elevarla al rango di stella internazionale del balletto. Pluripremiata per le sue doti tersicoree, nel 2014 Petra ha avuto l’ onore di essere insignita del titolo di Ambasciatrice della Danza Italiana nel Mondo. Ma il suo talento non si limita a una tecnica impeccabile: il pathos interpretativo che sprigiona sul palco le è valso la definizione di “Anna Magnani della Danza” (da un titolo che le dedicò il settimanale Panorama), e non sorprende. Petra Conti è così, cuore e determinazione, soavità e potenza, emozioni e ineccepibile rigore stilistico. Se la danza è “arte in movimento”, questa giovane Étoile italiana è un’ Artista con la A maiuscola. Ho voluto fortemente incontrarla per ospitarla nel mio blog.

Il tuo amore per la danza è scoccato come un colpo di fulmine o è maturato a poco a poco?

L’amore per la danza è sbocciato e cresciuto insieme a me. Mia mamma e mia sorella sono state entrambe ballerine, per cui sono nata in una famiglia dove la danza classica era la cosa più naturale del mondo.

 

(Photo by Joe Shalmoni)

Per molte bambine, la danza è “la favola”: tant’è che iniziano a prendere lezioni vedendosi già in tutù sul palco. Cosa ha rappresentato la danza, per te, sin da piccola?

In realtà io non ho iniziato danza da piccolissima, infatti ho preso le prime lezioni solo a 11 anni, quando sono entrata all’Accademia Nazionale di Danza di Roma. Non ricordo di essermi mai immaginata sul palco con il tutù, forse perché ho sempre percepito la danza come qualcosa di naturale e intrinseco alla mia natura, un linguaggio perfetto. La danza è diventata ben presto il mio modo di esprimermi, di sfogare le emozioni che avevo dentro.

Il tuo percorso ha avuto inizio all’Accademia Nazionale di Danza di Roma, ma il tuo talento si è rivelato ben prima del diploma: avevi solo 15 anni quando hai avuto l’onore di danzare in TV con Roberto Bolle. Che cosa ricordi di quello straordinario evento?

Quell’evento mi ha cambiato la vita e mi ha decisamente incoraggiata a continuare a lavorare ancora di più. L’esperienza di ballare con Roberto Bolle a 15 anni è stata per me una grande conferma, che la danza era la mia strada e che il mio destino sarebbe stato quello di diventare una ballerina; ho sempre creduto che con tanto duro lavoro sarei potuta arrivare lontano.

 

 

Hai debuttato come Étoile Ospite all’Arena di Verona con il balletto “Cenerentola”. Eri appena diciassettenne. Da allora è iniziata, intervallata da prestigiose tappe (la nomina come Prima Ballerina della Scala nel 2011, l’invito al Boston Ballet dove hai ricoperto lo stesso ruolo fino al 2017), la tua carriera di Prima Ballerina ospite. Qual è il valore aggiunto – sia in termini professionali che di emozioni – dell’essere una “freelance” della danza?

Essere invitata come Étoile Ospite nei teatri di tutto il mondo è il traguardo più bello che potessi raggiungere: far combaciare la danza con il viaggiare e’, per me, davvero un sogno che si avvera, visto che sono uno spirito libero per natura. Essere una freelance della danza significa sia essere il “capo di se stessi”, sia assumersi una grandissima responsabilità per il ruolo che si ricopre e il nome che si rappresenta. Significa poi, in concreto, autogestirsi nell’organizzazione delle prove e dei viaggi, essere il manager di se stessi, doversi preoccupare di ogni minimo dettaglio, dallo stare in forma tra un ingaggio e l’altro ad ordinare per tempo la quantità di scarpe da punta che potrebbero servire e, poi, imparare la coreografia prima di arrivare nel teatro che mi ospita… Credo non tutti sopporterebbero un tale stress! A me, invece, tutto questo piace da matti, mi fa sentire viva e sempre sulla cresta dell’onda. E poi c’è il valore aggiunto di lavorare in diversi teatri e, quindi, di confrontarsi con primi ballerini di tutto il mondo, imparare anche da loro sempre qualcosa di nuovo per arricchire la mia carriera, farsi conoscere e apprezzare da un pubblico sempre diverso, essere continuamente ispirata dalla novità di un nuovo posto di lavoro…

 

Petra mentre si esibisce nell’ “Aida” al Festival Lirico 2019 dell’ Arena di Verona (photo Ennevi – Courtesy Fondazione Arena di Verona)

Ancora uno scatto tratto dal Festival Lirico 2019 dell’ Arena di Verona: qui Petra è immortalata ne “La Traviata”, ultimo allestimento del Maestro Zeffirelli (photo Ennevi – Courtesy Fondazione Arena di Verona)

Come danzatrice hai dei modelli, delle figure di riferimento?

Sì, ovviamente, ho figure di riferimento sia nel campo della danza, sia nel campo dell’arte in generale. Credo sia indispensabile farsi ispirare dai modelli di ieri e di oggi; ma non solo, tutto, anche la natura può essere per me fonte di ispirazione! Da Anna Magnani a Michelangelo, da Bob Fosse al film “Joker”, dalle pantere ai cigni… Le parole di un libro, i colori del tramonto, una canzone, un profumo… E poi i video delle grandi ballerine del passato e del presente, eterni miti. Non voglio fare nomi perché per me ogni grande ballerina è, appunto, grande per qualcosa in particolare e ciascuna in maniera differente da un’altra. L’arte non si può paragonare, si può solo apprezzare!

 

 

Alla tua giovane età grazie alla danza hai girato il globo, lavorato con prestigiosi artisti, ricevuto premi ed onorificenze. Cosa provi, facendo un bilancio?

Sono estremamente grata per una carriera da sogno, ma non mi “siedo sugli allori”. A 31 anni sento di aver fatto tanto, mi sento una ballerina matura e con esperienza da vendere, ma non mi sento affatto arrivata! Ho ancora tanto da dare e tanto da imparare.

Come viene percepita la danza al di fuori dei confini italiani? Esistono Paesi che ti hanno colpito particolarmente riguardo l’attenzione rivolta al balletto e la formazione professionale?

Tra i tanti Paesi visitati mi ha particolarmente colpita Cuba! Ho ballato all’Havana nel 2018 ed è stata un’esperienza unica vedere la passione per il balletto fortemente impregnata in ogni angolo dell’isola. A Cuba il rispetto, l’ammirazione e la conoscenza della danza sono sconfinati, a mio avviso, al pari della Russia.

 

Petra Conti e Eris Nezha durante le prove de “Il Lago dei Cigni”

Una delle frasi che sei solita scrivere per motivarti recita: “Ho imparato che tutti vogliono vivere in cima alla montagna, ma tutta la felicità e la crescita avvengono mentre la scali”. La trovo bellissima. Potresti commentarcela?

È uno dei miei motti! In inglese si può riassumere semplicemente in “enjoy the journey” e, in effetti, rappresenta il mio modus vivendi. Apprezzare il viaggio e non pensare ossessivamente solo alla meta, godersi ogni piccola vittoria, imparare da ogni sconfitta, vivere nel momento. C‘è chi dice di non vedere l’ora di arrivare a destinazione, ma per me già il viaggio in sé è bellissimo e fondamentale!

 

 

La tua carriera ha subito una battuta d’arresto dopo che hai scoperto di essere affetta da un cancro al rene. Com’è stato ritornare alla danza, e alla vita in senso lato, dopo quella spiacevole esperienza?

Tutto quanto per me ha un valore diverso adesso: vivo ogni giorno e ogni spettacolo al massimo, con la consapevolezza di essere davvero fortunata ad aver avuto una seconda chance. Ogni giorno ringrazio Dio e sento profondamente la responsabilità di dover fare di più, di aiutare, di motivare… Non posso assolutamente sprecare questa seconda opportunità di vita che mi è stata regalata. E se sono ancora qui è perché ho ancora tanto da fare, ancora tanto da dare, perché devo contribuire di più, perché il mio destino non è ancora compiuto.

(Photo by Joe Shalmoni – Courtesy Fondazione Arena di Verona)

Attualmente sei “Resident Principal Guest Dancer” del Los Angeles Ballet. Potremo rivederti in Italia a breve?

Da qualche anno a questa parte sta diventando un appuntamento fisso tornare in Italia d’estate: negli ultimi tre anni, infatti, sono stata Prima Ballerina ospite all’Arena di Verona in occasione del prestigioso Festival Lirico. Per ora non posso anticipare nulla, ma vi terrò aggiornati!

Viviamo nell’era digitale. Pensi che i social media possano essere efficaci per divulgare l’arte della danza, per stemperare l’alone eccessivamente “elitario” che a volte sembra circondarla?

Assolutamente sì! Io credo fortemente nell’efficacia dei social e mi sto impegnando molto per usare il mio account Instagram come “biglietto da visita”, come specchio della vita di un artista; una sorta di “diario di bordo di una ballerina”, per avvicinare e motivare giovani di tutto il mondo. Cerco infatti di condividere ogni aspetto di questa bellissima arte, dalle prove in sala al lavoro sul proprio corpo, dai dolori alle soddisfazioni, dalla vita di ogni giorno di una prima ballerina ai piccoli consigli e alle frasi motivazionali che possano ispirare i danzatori di domani. L’era del divismo è tramontata da un bel po’ e credo che rendersi più “umani” e raggiungibili, avvicinarsi quanto più possibile al proprio pubblico e ai propri fan sia assolutamente necessario oggi per mantenere viva la danza, per sempre.

 

Petra nell’ “Aida” durante il Festival Lirico 2019 dell’ Arena di Verona (photo Ennevi – Courtesy Fondazione Arena di Verona)

 

 

 

“Spring Rhapsody”, la campagna pubblicitaria PE 2018 di Emilio Cavallini

 

E’ uno spazio quasi metafisico, costruito attorno a linee rigorose e ad un’ architettura minimal,  a fare da cornice alla campagna pubblicitaria Primavera/Estate 2018 di Emilio Cavallini. Il leggendario brand “made in Italy” delle calze couture presenta le sue ultime proposte di calzini e di collant in un’atmosfera sospesa che ne riflette il design ed i motivi ispiratori: romanticismo e sofisticatezza si intersecano, continuamente in bilico tra delicate trasparenze pastello e ricami intessuti su uno sfondo di cromie vibranti. La collezione coniuga una nostalgica ispirazione rétro a materiali tessili avantgarde, gioca sul contrasto e lo elegge a proprio filo conduttore. E’ così che ai raffinati intrecci crochet si affiancano pattern squisitamente geometrici, e che modelli iper contemporanei, dai toni vividi, si alternano ad audaci trame a rete, pizzi eclettici e finissimi ricami argentati. La Primavera/Estate 2018 di Emilio Cavallini decreta i calzini protagonisti indiscussi, tramutandoli in un must stiloso quanto poliedrico: si abbinano agli abitini, ai pantaloni, a mini e maxigonne senza distinzioni, donano un twist irresistibile a qualsiasi look. Le calze, nella migliore tradizione del brand, rappresentano un autentico capo a sè stante; il direttore creativo Pier Fioraso ne esalta le ricercate trame a rete,  gli straordinari contrasti materici e gli esuberanti motivi floreali declinandole nelle creazioni “couture” della Maison per eccellenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CREDITS

“Spring Rhapsody”
Styling and Direction: Pier Fioraso
Photography: Tommaso Ferri
Video: David Lopardo
Hair and Make-Up: Luigi Morino
Models: Azra, Karina and Umberto @Independent
Location: Villa Rondinelli, Fiesole

A special thanks to Luisaviaroma.com

 

Francesco Liccari, un menestrello folk rock del nuovo millennio

(Photo by Eiros)

Voce, chitarra, testi rigorosamente in lingua inglese: un connubio non comune, nel 2017. Almeno, non nel panorama musicale italiano. Fa più pensare a un “bel tempo che fu” di matrice internazionale. A un sound che, nato come simbolo di un’ epoca, è poi divenuto immortale. Bob Dylan, Woody Guthrie, Jackson Browne, Leonard Cohen, Simon & Garfunkel, Neil Young, Crosby, Stills & Nash, sono i primi nomi che vengono in mente – e di certo, solo alcuni – quando si pensa alla stagione d’oro del folk rock  americano: “menestrelli” in bilico tra protesta e melodie intimistiche. E’ a tutti loro, ma non solo, che si ispira Francesco Liccari, cantautore triestino con 2 EP al suo attivo. Classe 1990, un background di studi di chitarra classica e moderna, si esibisce per la prima volta live come solista nel 2011 e tre anni dopo esce il suo primo lavoro, “Memories of Forgotten Seasons”, pubblicato da Farace Records. Francesco canta in inglese, accompagnandosi esclusivamente con la chitarra; Enrico Casasola lo affianca al basso dal 2016. E sempre un anno fa, a dicembre, esce il suo secondo EP “Raw Notes”: ballate di volta in volta malinconiche, sognanti o cadenzate a cui fanno da leitmotiv testi anglofoni che, oltre a veicolare la poetica di Liccari, favoriscono una massiccia diffusione dei suoi brani nelle radio inglesi, canadesi e statunitensi. Gli ultimi impegni di Francesco lo vedono alle prese con la pubblicazione dei video di quattro canzoni tratte da “Raw Notes” e con svariate performance dal vivo. Ho ancora in testa l’ ipnotico accordo di chitarra di “Long Winter”, quando lo incontro per questa intervista.

Parlami di te e della tua vita. A quando risale il tuo primo incontro con la musica?

Sono nato e cresciuto a Trieste, una città di confine, dove si incontrano tante culture in un piccolo territorio. Il mio primo incontro con la musica è avvenuto qui, per caso. Mio fratello aveva ricevuto in regalo una chitarra e io di nascosto ogni tanto cercavo di suonarla. I miei genitori mi sorpresero mentre stavo torturando quel povero strumento e mi chiesero se volessi prendere lezioni di chitarra. Risposi di sì. Accadeva 18 anni fa. Così ho cominciato a studiare chitarra classica, per poi dedicarmi alla chitarra moderna sotto la guida del maestro Andrea Massaria, ora docente di chitarra jazz al conservatorio di Venezia. Lo studio dello strumento, insieme all’ascolto di numerosi cantautori sia italiani che stranieri, mi ha fatto sentire la necessità di esprimermi con lo stesso linguaggio. Così ho incominciato per gioco a scrivere i primi testi ed anche le prime canzoni.

 

(Photo by Eiros)

Hai iniziato a scrivere testi dopo un approccio iniziale alla chitarra: perché la scelta di esprimerti in inglese?

Non credo ci sia un perché. Inizialmente scrivevo sia in italiano che in inglese ma poi mi sono trovato a musicare meglio i testi in inglese, sentendomi meno vincolato nella scelta delle parole rispetto all’italiano. Quando scrivo nella mia lingua, tendo ad esprimermi come penso o come parlo, con il risultato che le parole finiscono per riversarsi sulla pagina in un flusso disordinato di idee. Mentre trovandomi a scrivere in un’altra lingua, che pur conosco molto bene, riesco a pesare meglio le parole, a risparmiarne. Il significato più importante spesso sta in ciò che non viene detto ma solamente suggerito vagamente.

Hai solo 27 anni, ma le tue struggenti ballate per chitarra e voce ricordano quelle dei celebri “menestrelli” che, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, fecero furore. Chi sono i tuoi modelli di riferimento?

I miei modelli di riferimento sono numerosi. Da David Bowie a Bob Dylan, passando per Lou Reed, Neil Young, Cat Stevens, Donovan, Woody Guthrie, Leonard Cohen, Simon & Garfunkel, Fabrizio De André, Francesco Guccini, Edoardo Bennato, Angelo Branduardi e probabilmente ce ne sono altri che ora mi sfuggono. Se poi parliamo di ascolti e influenze, la lista è infinita: dalle canzoni semplici ed efficaci del punk alla Ramones, alle canzoni rock psichedeliche dei Pink Floyd o dei Velvet Underground, fino alle sperimentazioni più recenti di gruppi quali i Radiohead. Per quanto riguarda i musicisti che hanno alimentato la mia ispirazione, credo ne vadano citati principalmente tre: David Bowie per aver suonato una serie di generi molto differenti, riuscendo a far emergere il proprio enorme talento in qualsiasi cosa sperimentasse; Bob Dylan che, con la poesia delle sue parole, mi ha fatto capire che una bella voce e una grande tecnica chitarristica non sono gli unici elementi necessari per comunicare attraverso la musica; il terzo, scollegato dai due precedenti, è Philip Glass che, tra minimalismo e post minimalismo, sia con le sue composizioni sperimentali che con le colonne sonore per il cinema, è sempre riuscito a emozionarmi. Di certo, quando scrivo musica, penso a tutte quelle sensazioni che riesce a trasmettermi.

 

(Photo by Marco Potok)

A quali temi attingi maggiormente?

Ai temi che occupano più spesso la mia mente: i ricordi, lo scorrere del tempo, l’amore e più in generale i rapporti umani a cui si aggiungono altre tematiche quali la solitudine, l’ansia, il disagio e tutti i mali di vivere dell’artista. A volte, nei miei testi, questi temi vengono mischiati con un po’ di mitologia, esoterismo e simbolismo, tutti argomenti che mi hanno sempre affascinato.

I tuoi testi, appunto: a prima vista sembrano tristi e rassegnati, ma grazie agli accordi di chitarra prendono vita e si fanno incredibilmente intensi. Come nascono le tue canzoni?

Questa è una domanda che mi viene posta spesso e non sono ancora capace di dare una risposta del tutto soddisfacente. Spesso il mio processo creativo prende vita da una storia o da un’immagine che mi viene in mente oppure da una sensazione forte che provo. Poi incomincio a scrivere o a suonarci sopra e quando sento che ciò che ho composto (sia esso testo o musica) riesce a rappresentare la bozza mentale che mi sono fatto in precedenza, allora mi fermo. Lascio tutto lì a decantare per un po’ e solo successivamente ci rimetto mano, cominciando a sistemare le parole o le note in modo che possano dare il loro meglio. Mi è sempre stato detto di dar sfogo all’irrazionale, perché il resto lo sistemerà il razionale ed è proprio questo quello che faccio.

 

(Photo by Eiros)

Come definiresti il tuo sound? Detesti le etichette o c’è un filone preciso nel quale ami rientrare?

Il mio sound è senz’altro molto personale. Non amo rientrare in un unico genere ma, per dare un’idea di ciò che faccio, spesso mi definisco folk rock. In realtà tale etichetta non mi soddisfa pienamente, ma aiuta chi si avvicina per la prima volta alla mia musica ad inquadrarmi e quindi a sapere, almeno in parte, cosa aspettarsi. Tuttavia, nei miei pezzi ci sono diverse contaminazioni, tanto che a volte mi domando cosa accadrebbe se mai qualcuno dovesse scrivere un giorno la mia pagina Wikipedia. Mi viene da sorridere all’idea di cosa potrebbe apparire alla sezione genere. Probabilmente una lista piuttosto variegata e all’apparenza incongruente, come nel caso di Leonard Cohen. Spinto dalla curiosità, ho appena consultato la sua pagina,  dove si legge: Pop, Jazz, Musica etnica, Musica tradizionale, Folk rock, Soft rock. Se non conoscessi le sue canzoni, leggendo questo elenco, non saprei proprio cosa aspettarmi. Certo saprei che non si tratta di musica rap, ma avrei le idee piuttosto confuse.

Tra chi, come te, trovò nella chitarra il suo strumento d’elezione rientra anche un nome femminile DOC, quello di Joni Mitchell. Cosa pensi di lei e della sua musica?

Apprezzo il suo percorso di ricerca e esplorazione, la sua voglia di avvicinarsi a generi diversi, dal folk al jazz alla world music, restando sempre fedele a se stessa nel raccontarsi attraverso la sua musica.

 

Francesco e Enrico Casasola alla Festa della Musica di Torino (courtesy of Francesco Liccari)

I Millennials sembrano presi in un vortice di sonorità immediatamente fruibili, non di rado ballabili e perlopiù techno. Qual è il target di un menestrello del 2017?

Il target di un menestrello è sempre lo stesso: l’ascoltatore. Probabilmente negli anni ’60 ai giovani veniva fatto il lavaggio del cervello con il folk rock che allora vendeva come vende ora la musica Reggaeton latina. Certo si trattava di un fenomeno diverso, ma anche i tempi lo erano. In quegli anni la musica aveva anche una portata sociale non indifferente, mentre l’impressione è che oggi si ricerchino piuttosto brani di puro intrattenimento. Inoltre, un tempo la musica era meno fruibile. Come hai detto tu, oggi abbiamo il vantaggio di avere tutto a portata di mano, ma allo stesso tempo siamo sommersi dai contenuti e non è sempre facile districarsi nel labirinto dell’offerta. Ciò porta paradossalmente ad avere più scelta, ma ad orientarsi, se vogliamo, su quella più ovvia. Per fortuna nella massa ci sono un sacco di persone che non si accontentano di ascoltare la musica che passa nel centro commerciale o in bar. Per rispondere alla tua domanda, quello di cui ha bisogno un menestrello del 2017 è poter raggiungere il suo pubblico, ovunque esso sia. E qui ci ricolleghiamo al perché i miei testi sono in inglese, magari non è il linguaggio più chiaro con cui parlare ad un italiano, ma nella società globale di cui siamo parte è la lingua universale che mi permette di avvicinarmi ad ascoltatori di tutte le nazionalità e di raggiungere lo scopo principale della musica: la condivisione.

Pensi che in un prossimo futuro avremo la chance di ascoltarti cantare anche in italiano?

Certamente! Non saprei dirti quando ma sto già lavorando a qualche canzone in italiano, ci vorrà il suo tempo ma prima o poi capiterà. Con questo non intendo dire che abbandonerò l’inglese ma semplicemente che non escludo di esprimermi con la musica anche in italiano in un futuro prossimo.

 

(Photo by Stefano Bubbi)

Che puoi anticiparmi, sui tuoi nuovi progetti?

Non molto, è tutto ancora top secret. Diciamo che vorrei uscire con uno nuovo EP nel 2018, che si incentrerà sul tema dell’amore. L’amore che troviamo nella tragedia, l’amore che troviamo nelle favole e l’amore che abbiamo attorno a noi tutti i giorni. Sembra il momento giusto, visto che non si fa altro che parlare di odio ultimamente. Diciamo poi che ho anche già pronto molto altro materiale, che vorrei racchiudere all’interno del mio primo album ma è ancora un po’ presto per quello. Per aggiornamenti sulle novità trovi tutto sul mio sito internet https://francescoliccari.it/ o sulla mia pagina Facebook o Twitter, puoi pure iscriverti alla newsletter per essere sempre tra i primi a sapere le cose! Colgo anche l’occasione di ringraziarti per l’intervista, è stato un piacere fare quattro chiacchiere con te e spero ci sia di nuovo occasione per un’altra chiacchierata nel futuro, magari a proposito delle canzoni in italiano…

 

Scarpe da sogno, Manga e Barbie world: l’ universo girly-chic di Francesca Bellavita

 

Biondissima, radiosa, spumeggiante, Francesca Bellavita ti travolge con lo stesso entusiasmo che l’ ha portata a realizzare il suo sogno più grande: creare calzature dedicate alle giovani donne che, come lei, affrontano la vita con giocosità condita di un pizzico di sex  appeal. Bergamasca, un iter formativo DOC, Francesca approda allo shoe design dopo un esordio come stilista freelance per Colmar ed altri marchi leader dello sportswear chic. “Francesca Bellavita”, il brand che porta il suo stesso nome, debutta con una collezione PE 2017 che ne concentra il mood nella quintessenza: lo stile è girly, ma deluxe, e mixa le suggestioni dei manga giapponesi con il Barbie world. Non è un caso che persino il packaging delle scarpe – personalizzabili grazie a un kit di decori ad hoc –  si ispiri alla tipica confezione  color fucsia in cartone e cellophane dove è racchiusa la bambola-icona Mattel. E il claim che riporta a chiare lettere – “Dont’ call me doll” con il “don’t” coperto da una cancellatura –  è una vera e propria dichiarazione di intenti, perchè colei che calza “Francesca Bellavita” è audace, ironica e non teme certo di esibire una femminilità esplosiva. Ma al coté squisitamente estetico si affiancano la ricercatezza della lavorazione handmade e dei materiali pregiati, due indiscussi  punti di forza del brand: ogni collezione viene realizzata nel distretto di Vigevano, storica culla del savoir faire calzaturiero a cui fanno riferimento colossi del luxury del calibro di Valentino, Christian Louboutin e Manolo Blahnik. Ho incontrato Francesca per saperne di più sulle sue creazioni, sul suo universo ispirativo e sulla sua passione.

Se dovessi sintetizzare la tua bio in poche frasi, che mi racconteresti?

Ti racconto che all’inizio mi ero iscritta a Giurisprudenza, ma ho capito fin da subito che non avrei mai voluto passare la mia vita con un tailleur addosso! Confusa, ho passato qualche mese a Londra dove ho scoperto l’esistenza dell’Istituto Marangoni e tornata in Italia mi sono immediatamente iscritta.

 

 

Heartbeat

 

Prima il diploma in Fashion Design all’ Istituto Marangoni, poi la specializzazione in Shoe Design dall’ Ars Sutoria School di Milano: quando hai capito che le scarpe erano il tuo grande amore?

La prima volta che ho disegnato un paio di scarpe all’Istituto Marangoni è stato un fulmine a ciel sereno. Ho capito immediatamente che il mio futuro sarebbe stato quello!

Quali sono i punti cardine del tuo immaginario creativo?

Adoro tutto cio’ che è divertente e colorato. Dalle caramelle ai giocattoli passando per i manga giapponesi. La citta’ infatti che mi ispira di piu’ al mondo è Tokyo, ci vado almeno una volta l’anno. Le insegne luminose, le Shibuya girls e il mondo kawaii mi fanno impazzire! Da tutto questo immaginario nasce anche il mio particolare packaging!

 

Fluffy Flat

 

Crystal Pink

 

Cosa rende le tue scarpe dei pezzi iconici?

Il fatto di essere diverse da tutto cio’ che è presente sul mercato in questo momento. E’ un mondo dove tutti si prendono troppo sul serio, dove tutti si vestono di nero. In tutto cio’ arrivo io con le mie scarpe gialle e rosa, con pon pon, cristalli a cuore e tomaie che ricordano i marshmallow!

 

Bootie Goth Pink

 

Hai debuttato con la tua prima collezione pochi mesi fa e sei già acclamatissima. Cosa si prova ad essere considerata un’autentica star emergente?

Mah, intanto grazie mille! Diciamo che la cosa che mi rende davvero felice è vedere le clienti super soddisfatte delle mie calzature, sia per il look che per la comodita’ anche si tratta per lo piu’ di tacchi 10 cm. E’ in quei momenti che so di aver centrato il mio obiettivo: rendere felici le donne con le mie scarpe!

A quale donna pensi, quando crei?

A una donna sexy e ironica, che non si prende mai troppo sul serio. E’ quella donna che beve troppo champagne e ride un po’ troppo fragorosamente!

 

Dalla campagna pubblicitaria Francesca Bellavita PE 2017

 

Tre aggettivi per definire il tuo stile: quali scegli?

Sexy, ironico e divertente, proprio come la mia donna ideale!

La tua collezione esalta il valore dell’hand made, della ricercatezza, dei materiali pregiati. Come nasce la passione di Francesca Bellavita per il savoir faire artigianale?

Per me è importantissimo produrre in Italia. La nostra terra è meravigliosa, la nostra artigianalita’ non ha pari. Inutile dire che un paio di scarpe prodotte in Italia non potra’ mai essere neanche lontanamente comparato ad uno prodotto all’estero. Persino i francesi vengono a produrre qui e questo la dice lunga!

 

Il caratteristico packaging Barbie-like

 

I colori sono un elemento importante della tua cifra stilistica. Qual è quello che ti rappresenta maggiormente?

Naturalmente il rosa in tutte le sue sfumature!

Le feste natalizie sono sempre più vicine. Se dovessi indicarci un tuo modello “must” per la daily life ed uno per un’occasione speciale, su quali punteresti?

Sicuramente per il giorno una scarpa sexy, ma comoda, come Fluffy Flat, una ballerina resa molto divertente dal pon pon gigante staccabile tramite calamita, quindi puo’ essere indossata anche senza per un look piu’ sobrio o intercambiato con i pon pon a forma di coniglietto o di topolino per un outfit piu divertente! Mentre per un’ occasione elegante consiglio sicuramente Crystal, la nostra pump in serpente e vernice con fiocco e cristallo a cuore applicati sul davanti. Sia nella versione fucsia che nella versione nera per le donne piu’ classiche.

 

Pon pon coniglio

 

Puoi accennarmi qualcosa sui tuoi progetti futuri?

A parte conquistare il mondo con le mie scarpe?…Scherzo, ovviamente! Proprio perché siamo sul mercato da pochi mesi, è difficile accennare a progetti futuri! So solo che sono una ragazza con una lista infinita di sogni e spero di realizzarli tutti, prima o poi!

 

 

Crystal Black

 

Pon pon topo

 

La Petite Robe, 10 anni di “travel chic”: intervista con Chiara Boni

 

Occhi azzurro cielo, capelli tagliati in un bob platinatissimo, sorriso stampato sulle labbra: Chiara Boni irradia fascino a prima vista. La guardi e pensi che la sua allure radiosa – un mix di grazia, pragmastismo e stile – la identifichi in toto con la donna a cui ha dedicato il brand La Petite Robe. Fiorentina DOC, Chiara esordisce come designer all’ inizio degli anni ’70, quando irrompe nel settore della “moda giovane” con gli abiti griffati You Tarzan, Me Jane che crea per la boutique che ha aperto nella sua città. E’ impossibile dimenticare il mood frizzante veicolato da quel marchio: negli anni in cui il modo di vestire diventa un emblema generazionale, la ribellione eccentrica di You Tarzan, Me Jane rielabora le suggestioni sgorgate da una full immersion nella Swingin’ London della sua fondatrice. Da allora, con i tessuti stretch come iconico leitmotiv, il percorso stilistico di Chiara Boni è andato consolidandosi attraverso un iter di cui l’ ingresso nel Gruppo Finanziario Tessile nel 1985 e la creazione de La Petite Robe nel 2007 rappresentano due tappe fondamentali. Oggi La Petite Robe compie 10 anni e con You Tarzan, Me Jane condivide l’ intento rivoluzionario da cui prende vita: il suo nome evoca uno chic all’ insegna della praticità, abitini facili da lavare e non spiegazzabili che una donna sempre in giro per il mondo può agevolmente riporre in micro buste di tulle. Lo stile del brand, inconfondibile, coniuga un alto tasso di femminilità e linee essenziali, ma ricche di dettagli estrosi. I capi si modellano sul corpo assecondandolo, evidenziandolo in tutta la loro raffinata linearità ed adottando una palette che al nero affianca nuance, di volta in volta, vivaci, pastellate o intense: il fucsia, il cobalto, il rosso, il rosa baby e l’acquamarina si alternano al verde oltremare, al melanzana, al vino, tutti rigorosamente in versione monocroma. Il jersey rimane il materiale signature di La Petite Robe, che dal 2009 viene distribuito anche negli USA dove conquista fin da subito le celeb. Qualche nome? Beyoncé, Anjelica Houston, Angela Bassett, Oprah Winfrey sono solo alcune delle sue fan più sfegatate. Risale proprio al Settembre scorso l’ inaugurazione del flagship store losangelino di La Petite Robe, il primo in territorio stelle a strisce. Ho preso spunto da questa entusiasmante news per ripercorrere, insieme a Chiara Boni, la storia e gli stilemi di una carriera che dal 1971 brilla con accenti di creatività del tutto unici nel panorama del Made in Italy.

Era il 1971 quando a Firenze hai aperto la boutique “di rottura” You Tarzan me Jane. Con quale intento è nata e come descriveresti l’humus da cui ha preso forma?

Dall’irripetibile melting-pot di Londra, alla fine degli Anni ’60, prendeva vita lo spirito di You Tarzan, Me Jane: la mia risposta ribelle al formalismo della Moda Italiana che, a quei tempi, imponeva rigore ed essenzialità. Nel 1971, in via del Parione 33r a Firenze allestivo, così, insieme alla mia amica Elisabetta Ballerini, un inedito tendone da circo nel mezzo di un grande laboratorio-artigiano e iniziavo a proporre la mia Moda Giovane come alternativa all’offerta quasi esclusivamente sartoriale del mercato.

La tua passione per la moda è innata o si inserisce in un preciso background esistenziale?

Devo molto a mia madre. La mia formazione è stata frequentare per tanti anni con lei, donna di estrema eleganza, atelier e sartorie, l’osservazione mi ha svelato in modo naturale i segreti del corpo femminile e mi ha invogliata a valorizzarlo con un design cedevole alla morbida interpretazione delle forme.

Esistono immagini, suggestioni, reminiscenze a cui la tua ispirazione attinge in modo ricorrente?

Mi appassiona l’Arte in generale, di cui la Moda stessa rappresenta una forma. Da sempre fonte di ispirazione, l’Arte è diventata protagonista, insieme alla Moda, anche di alcuni dei miei eventi di presentazione.

La Petite Robe festeggia i suoi primi dieci anni. Quali sono gli step che hanno portato alla creazione del brand?

Ho fatto un percorso fatto di sperimentazioni consapevoli ma anche di rivoluzioni intuitive che solo a posteriori ho scoperto straordinariamente coerenti. Ho pensato a dei capi realizzati in tessuti stretch innovativi, progettati per incontrare le esigenze di una donna dinamica. Questo è stato il pensiero che mi ha portato alla creazione del brand.

 

 

A quale tipo di donna si rivolge Chiara Boni, e soprattutto: è la stessa donna dei suoi esordi?

Sì, è la stessa donna anche se forse un po’ meno giovane. Comunque le donne sono straordinariamente diverse, raffinate, sognatrici e divertenti, ma ciascuna a modo proprio. Ognuna è accesa da una sfumatura intensa di personalità. Le donne sono in continua evoluzione, il modo di vivere cambia e loro tengono il passo.

 

 

Per definire La Petite Robe” hai usato il termine di “travel chic”. Come approfondiresti questo concetto?

Un guardaroba flessibile, versatile e personalizzabile. La Petite Robe nasce proprio dalle esigenze di una donna moderna che non può concedersi il tempo di cambi d’abito durante la giornata, che in valigia ha poco spazio e che una volta arrivata in albergo non ha modo di farsi stirare un vestito.

Il leitmotiv della tua cifra stilistica è, senza dubbio, la femminilità. Quale valenza ricopre, la femminilità, per te?

La femminilità è dolcezza. Sboccia nell’animo di una donna e inonda di profumo tutto attorno. Una primavera permanente di sguardi, gesti e atteggiamenti.

 

 

La Petite Robe furoreggia sul mercato USA: non è un caso che proprio a Los Angeles sia stata inaugurata la vostra terza boutique monomarca.  Quali sono, a tuo parere, i motivi dell’enorme successo americano del brand?

Le clienti americane sono entusiaste. Il loro è un modo diretto di testimoniare affetto per il mio concetto di femminilità. Parlano attraverso i social e svelano passione per le linee accoglienti, giovanili e sensuali dei miei abiti. Il passaparola virale delle addicted oltreoceano è stato il vero punto di forza per la diffusione del brand in America.

 

 

I tuoi little dress, stilosi ma pratici ed essenziali, sembrano fatti su misura per una alter ego di Chiara Boni. Sbaglio, o quando crei tendi un po’ ad identificarti nella tua donna tipo?

Non sbagli, mi affido sempre all’autorità della prima persona: -Io lo indosserei?-.

Esiste una donna che vorresti fortissimamente vestire? Se sì, perché?

No. I miei vestiti sono pensati per tutte le donne. Ho una visione democratica della femminilità che non esclude nessuna taglia, forma o personalità.

 

 

In tempi di crisi, uno dei punti di forza del settore fashion sembra tradursi nell’ iconicità del prodotto. Sei d’accordo? E cosa aggiungeresti, al riguardo?

Sono assolutamente d’accordo. Infatti la cosa più difficile nella Moda è rinnovarsi rimanendo riconoscibili. È proprio qui che sta l’iconicità di un prodotto.

 

 

 

Tutti i look e gli accessori sono tratti dalla collezione “Grand Hotel” AI 2017/18 di La Petite Robe

Photo courtesy of press office