Notte di San Giovanni: i proverbi della notte più magica dell’estate

 

E’ la notte più magica dell’estate, un tripudio di usanze, tradizioni e credenze popolari; la notte di San Giovanni viene celebrata in diversi paesi del mondo (Spagna, Portogallo, Regno Unito, Sudamerica, paesi scandinavi…), ma ovunque mantiene intatta la propria suggestività.  Intrisa di elementi che mescolano religione, cultura agreste e rituali pagani,  anticamente coincideva con i festeggiamenti per il Solstizio d’Estate. Tra i riti che la contraddistinguono troviamo le pratiche divinatorie (basti pensare a quelle, a base di cardi, piombo e torli d’uovo, effettuate dalle giovani in età da marito), la tradizione dell’acqua di San Giovanni, i bagni di rugiada per propiziare la fertilità, il salto del falò, i poteri magici attribuiti alle erbe, e molti altri ancora. Avendo esplorato questo tema molte volte, oggi ci concentreremo su un aspetto altrettanto affascinante: i proverbi, che rispecchiano mirabilmente le atmosfere incantate della notte di San Giovanni.

 

 

La guazza di Santo Gioanno fa guarir da ogni malanno

 

 

Chi nasce la notte di San Giovanni non vede streghe e non sogna fantasmi

 

 

La notte di San Giovanni, ogni erba nasconde inganni

 

 

Per San Giovanni si svellon le cipolle e gli agli

 

 

San Giovanni non vuole inganni

 

 

La notte di San Giovanni destina il mosto, i matrimoni, il grano e il granturco

 

 

A San Marco nato, a San Giovanni assettato

 

 

Per le guazze di San Giovanni si miete

 

 

A San Giovanni l’alveare spande, a San Martino l’alveare è pieno

 

 

San Giovanni ci fa vedere l’inganno

 

 

Quando la lavanda sente arrivare San Giovanni vuole fiorire

 

 

San Giovanni mietitore, San Pietro legatore

 

 

A San Giovanni l’alveare spande, a San Martino l’alveare è pieno

 

 

La notte di San Giovanni il granoturco inizia a fare il grano

 

 

La vigilia di San Giovanni, piove tutti gli anni

 

 

Vale di più San Giovanni da solo che tutt i santi insieme 

 

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Solstizio d’Estate

 

Solstizio d’estate.
Giornate che non finiscono mai,
interrotte per poche ore dalla notte,
e gli occhi spalancati per lo stupore di tanta luce.
(Fabrizio Caramagna)

 

La bella stagione è entrata ufficialmente stamattina, alle 4.42. Oggi, Solstizio d’Estate, il Sole raggiunge lo zenit e festeggiamo il suo trionfo. L’astro infuocato risplende alto nel cielo, dove permane a lungo. “Solstizio”, d’altronde, deriva da “solstat”, in latino “il sole si ferma”. Da domani, anche se sembra incredibile, comincerà a tramontare (seppur impercettibilmente) sempre più presto. Ho già parlato molte volte del Solstizio e dei suoi rituali, di come lo vivevano gli antichi popoli. Vi invito a godere della massima potenza del Sole e dell’energia che oggi sprigiona: Cielo e Terra sono uniti da una forza di attrazione quasi mistica. Remote leggende vogliono che nell’iperico, la tradizionale “erba di San Giovanni”, si concentri la quintessenza del vigore solare, mentre elementi come il fuoco e l’acqua simboleggiano l’incontro tra Sole e Luna, maschile e femminile. L’acqua rimanda alla guazza, l’abbondante rugiada associata alla fertilità: da qui l’usanza, adottata dalle donne desiderose di procreare, di rotolarsi nude sull’erba la notte di San Giovanni. Il Sole viene rappresentato dai falò solstiziali accesi per corroborare l’astro, ma anche a scopo purificatorio e beneaugurale. Secondo la tradizione l’iperico, il giorno del Solstizio, doveva essere raccolto a mezzogiorno in punto: avrebbe avuto virtù terapeutiche nei confronti di molteplici patologie. Se veniva raccolto a mezzanotte, invece, avrebbe messo in fuga le entità malvagie. Anticamente lo si appendeva alla porta affinchè proteggesse la casa dagli spiriti maligni. Per attirare la buona sorte, inoltre, l’iperico veniva bruciato nei falò insieme ad altre nove erbe: il vischio, la lavanda, la ruta, la verbena, la piantaggine, il finocchio, l’artemisia e il timo. Buon Solstizio d’Estate a tutti e a tutte, e che l’energia solare pervada la vostra giornata.

 

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Luna Crescente o Calante? L’influsso delle fasi lunari in agricoltura

 

L’uomo ha subito la fascinazione della Luna sin da tempi remotissimi. La magia dell’astro che rischiara il cielo notturno ha sempre catturato l’immaginazione umana, contribuendo alla creazione delle leggende e dei miti più disparati. Un ambito in cui la Luna riveste un ruolo da protagonista è l’agricoltura: nella cultura agreste, attività come la semina vengono svolte ormai da secoli in base alle fasi lunari. La Luna, infatti, assume diverse posizioni nel suo moto di rivoluzione attorno alla Terra e ne risultano visibili diverse porzioni. Queste porzioni, non possedendo l’astro una luminosità propria, sono quelle su cui riflette la luce del Sole. Quali sono, dunque, le fasi lunari? La prima fase del ciclo è la Luna Nuova: la Luna, perfettamente allineata tra il Sole e la Terra, è invisibile poichè la porzione che viene illuminata dal Sole non è quella posizionata di fronte alla Terra. La seconda fase è detta Luna Crescente; uno spicchio di Luna comincia a fare capolino e diventa più grande giorno dopo giorno. La terza fase lunare riguarda la Luna Piena; in questa fase riusciamo a vedere la Luna per intero, in quanto la faccia che ci mostra è completamente illuminata dal Sole. La quarta ed ultima fase è quella di Luna Calante, quando la porzione visibile di Luna diminuisce a poco a poco prima di sparire nel cielo notturno. Anticamente, l’uomo ha attribuito alle fasi lunari svariati poteri: ha individuato i periodi più propizi per imbottigliare il vino, pianificare una gravidanza, effettuare la semina e il raccolto, accorciare la propria chioma. Si tratta di credenze popolari o di realtà? Di entrambe le cose. Le fasi lunari, com’è stato appurato, riescono a influenzare l’andamento delle maree e a condizionare l’umidità del terreno grazie alla luce riflessa e all’attrazione gravitazionale che la massa lunare e quella terrestre esercitano reciprocamente. Secondo la tradizione, inoltre, il moto della Luna influirebbe sull’umore umano (da qui il termine “lunatico”) determinando patologie quali la licantropia, ovvero (ma qui entriamo nella leggenda) la metamorfosi temporanea di un uomo in lupo mannaro, uno dei principali argomenti di conversazione durante le cosiddette “veglie” contadine.

 

 

Tornando all’agricoltura, ad ogni fase lunare corrisponde un particolare influsso sul terreno e sulle colture. Non è un caso che esista un calendario lunare che include, annualmente, tutti i periodi migliori per le semine e le coltivazioni. Per seminare, le fasi lunari ideali sono quelle di Luna Crescente e Luna Calante, ma dipende dalla pianta che ci si accinge a coltivare.

 

 

Per piante che crescono sulla superficie del suolo, ad esempio i pomodori, il mais o l’insalata, la Luna Crescente è l’ideale, poichè stimola lo sviluppo dei germogli. Se invece si desidera piantare patate, aglio, carote o cipolle, è preferibile farlo con la Luna Calante: questa fase lunare agisce positivamente sulle piante da bulbo e la  semina sotterrenea. Alla Luna Crescente vengono attribuiti, in genere, enormi poteri. E’ la fase successiva a quella di Luna Nuova, quando la Luna, da completamente invisibile che era, comincia a mostrare uno spicchio che si ingrandisce di giorno in giorno. Ciò è di buon auspicio per la semina di piante che si riveleranno robuste e lussureggianti. La tradizione agreste vuole, invece, che alla Luna Calante corrispondano attività come il raccolto e la potatura.

 

 

Fasi lunari da Maggio ad Agosto 2025: quali i periodi migliori per le semine?

Dal 28 al 31 Maggio saremo in fase di Luna Crescente; fino al 26, di Luna Calante. La Luna Crescente riapparirà dall’ 1 al 10 Giugno e dal 27 al 30 Giugno, mentre dal 12 al 24 Giugno avremo Luna Calante. La fase di Luna Crescente riprenderà dall’1 al 10 Luglio e dal 26 al 31 Luglio. Quella di Luna Calante, dal 12 al 24 Luglio. Ad Agosto, infine, la Luna Crescente ritornerà dall’1 all’8 e dal 24 al 31. La fase calante si verificherà, invece, dal 10 al 22 Agosto.

 

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Le honesty box, piccole meraviglie nella campagna britannica

 

Avete presenti quelle mini librerie che potete trovare ovunque? Nei parchi, lungo le strade, nei boschi, nei vicoli dei centri storici… Sono le cosiddette “little free library”, generalmente composte da piccole casette issate su un palo: al loro interno, tanti libri da prendere in prestito (a titolo gratuito) per promuovere la lettura e incrementare il senso di comunità. Le honesty box che trovate nel Regno Unito, soprattutto nelle Cotswolds , nascono con un intento simile, anche se non proprio identico. Sono diffuse un po’ ovunque, in gran parte nelle aree rurali. Alla base della loro creazione ci sono valori come la fiducia, il rispetto e l’armonia sociale. Le honesty box possono essere cesti, cassette di legno, banchetti, che contengono o espongono verdure, fiori, dolci, tipicità della zona. Chi si imbatte in una honesty box ed è attratto dai suoi prodotti, può acquistarli. Il prezzo sarà meramente simbolico: di solito pochi centesimi.

 

 

Tantevvero che non è prevista la figura di un custode, di qualcuno che “incassa” quelle monete. C’è solo uno scrigno di metallo dove posare il pagamento. E se non pagate? Nessuno vi obbligherà a farlo. Però il principio da cui nascono le honesty box è basato sulla fiducia. E’ raro che qualcuno pensi di fare il furbo, di approfittare di questa iniziativa per impossessarsi di qualcosa a titolo gratuito, anche perchè il costo dei prodotti, come vi accennavo, è più che abbordabile. Ciò che colpisce delle honesty box è che potete trovarle inaspettatamente lungo il vostro cammino: sono piccoli tesori che mettono prodotti e oggetti a portata di mano di chiunque. Tutto questo le rende magiche, cariche di suggestività.

 

 

Poche altre cose potrebbero rendere più pittoresca la campagna britannica, accentuare l‘incanto che già si respira in quelle immense distese di verde. Basti pensare al frigorifero pieno di torte collocato in mezzo alla natura, diventato famoso nella trasposizione TV dei gialli della scrittrice Anne Cleeves.

 

 

La tradizione delle honesty box si è particolarmente estesa all’epoca del Covid, dato che l’acquisto dei prodotti non richiede un contatto diretto con il venditore. Oggi rimangono la meraviglia, l’affascinante semplicità su cui si fonda il progetto, il senso di fiducia che ci porta a pensare, anche solo per un momento, che il mondo non è esclusivamente imperniato sull’interesse e sul tornaconto. E che esistono ancora piccole cose semplici che tengono vivi i legami di una comunità.

 

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Aprile e i suoi proverbi

 

Aprile è il mese in cui la natura rifiorisce. Un mese che fa da ponte tra gli acquazzoni di Marzo e la suggestività bucolica di Maggio. Meteorologicamente incostante, ma pieno di promesse, ci offre una sola certezza: la Primavera è ormai arrivata. E’ anche per questo che viene celebrato da miriadi di proverbi. La saggezza popolare lo tiene d’occhio, lo studia attentamente,  formula ipotesi; perchè è uno dei mesi che anticipa l’Estate e il periodo gioioso della trebbiatura.

 

 

Aprile, dolce dormire.

 

 

D’Aprile i fiori, a Maggio gli onori.

 

 

Aprile una goccia o un fontanile.

 

 

D’Aprile, non ti scoprire.

 

 

Marzo asciutto e Aprile bagnato, beato il villano che ha seminato.

 

 

Aprile e Maggio son la chiave di tutto l’anno.

 

 

Aprile suol essere cattivo da principio o al fine.

 

 

La vite che viene portata in Aprile, lascia svuotato ogni barile.

 

 

La prim’acqua d’Aprile vale un carro d’oro con tutto l’assile.

 

Speciale Hanami: il lessico dei sakura e le date delle fioriture

 

Dell’Hanami (in giapponese “osservare i fiori”) e dei sakura (“fiori di ciliegio”), su MyVALIUM, ho già parlato molte volte. Ma dato che in Giappone, in questi giorni, la fioritura dei ciliegi raggiunge il massimo splendore, vorrei esplorare un aspetto poco conosciuto del periodo dell’anno più atteso e celebrato nel Sol Levante: il lessico dell’Hanami, ovvero le parole che i giapponesi associano al rito della contemplazione dei sakura e alla Primavera in generale. I fiori di ciliegio e la loro fioritura, in Giappone, rappresentano qualcosa di talmente straordinario che esistono oltre 70 termini dedicati ai sakura e all’Hanami. Per ragioni di spazio sarebbe impossibile citarli tutti, perciò ne riporto solo alcuni. Andiamo subito a scoprire quali.

 

 

Asazakura

Ammirare i sakura dona sensazioni inebrianti in ogni istante, ma per i giapponesi l’alba rappresenta un momento speciale: nasce un nuovo giorno, e i fiori di ciliegio, impregnati di rugiada, raggiungono l’apice della bellezza. Le gocce d’acqua che ricoprono i loro petali li fanno scintillare mentre riflettono i bagliori del sole che sorge, conferendo una bellezza non comune al sakura del mattino.

 

 

Adazakura

Con questo termine si indica la bellezza transitoria ed effimera dei sakura: il fiore di ciliegio ha vita breve, i suoi petali vengono strappati al ramo da un alito di vento e i viali si riempiono, ben presto, di tappeti composti da corolle smembrate. Per i giapponesi, tutto ciò che è fugace riveste un significato importante; di conseguenza adorano lo stato d’animo vagamente malinconico indotto da quella visione.

Hanagasumi

Viste da una certa distanza, le chiome dei ciliegi in fiore somigliano a una coltre di nebbia. La parola “Hanagasumi” evoca tutta la poesia e la suggestività di quell’immagine flou, impregnata di accenti onirici.

 

 

Hanafubuki

Un altro termine che rimanda al meteo: quando il vento è molto forte, fa volteggiare vorticosamente i sakura che cadono dai rami. Sembrano fiocchi di neve nel pieno di una bufera. Anche questa immagine risulta estremamente pittoresca ed evocativa.

Sakurafubuki

Ha più o meno lo stesso significato della parola precedente: sta ad indicare la “tempesta” di fiori di ciliegio prodotta da un vento sferzante che libra nell’aria i loro petali.

 

 

Hanabie

Rimaniamo focalizzati sul meteo, prendendo in prestito questo termine dalla poesia giapponese. Si parla di Hanabie quando all’improvviso, una volta che la Primavera è arrivata e i fiori di ciliegio sono già sbocciati, l’Inverno torna a colpire con tutta la sua irruenza e ricopre i ciliegi di neve: un colpo di coda che non è poi così infrequente.

Hatsuzakura

Sono i primi sakura sbocciati in Primavera, quelli che danno il via al rito dell’Hanami ma non solo: i giapponesi li immortalano in foto e video, li decretano protagonisti di servizi televisivi e giornalistici…Rappresentano un vero e proprio evento anticipato da previsioni meteo relative alle date delle fioriture in ogni città.

 

 

Hazakura

Corrisponde al periodo in cui, quando tutti i fiori sono caduti, sul ciliegio iniziano a spuntare le prime foglie. Foglie che si infittiscono man mano che arriva l’Estate. Inizia un nuovo ciclo: la magia primaverile è terminata, i sakura vengono sostituiti dal fogliame. La natura, come sempre, fa il suo corso.

 

 

Hanamizake

Se rileggete questo articolo, troverete molte informazioni sul rito dell’Hanami. E scoprirete che il saké, la bevanda nazionale giapponese, è una delle più bevute durante gli interminabili picnic sotto le chiome dei ciliegi in fiore. Si parla di Hanamizake ogni qualvolta dei petali di sakura, cadendo dal loro ramo, finiscono in una ciotola ricolma di saké.

 

 

Sakura zensen

Il Japan Meteorological Corporation comunica ai giapponesi le date in cui, ogni anno, i ciliegi fioriranno  nelle città principali del paese. I sakura, infatti, sbocciano prima nel sud del Sol Levante, dove le temperature sono più calde, e successivamente nel nord, dove il clima è decisamente più rigido. Le fioriture, dunque, seguono un ipotetico asse che dal sud (Kyushu) si muove verso nord (Hokkaido): ecco il concetto che si associa al sakura zensen.

 

 

Quando ammirare le fioriture in alcune città giapponesi

A proposito di sakura zensen: se prevedete di viaggiare in Giappone, segnatevi le date delle fioriture nelle città che vi indico qui di seguito.

  • Tokyo ⇒ fioritura il 24 Marzo, piena fioritura il 30 Marzo
  • Osaka ⇒ fioritura il 29 Marzo, piena fioritura il 5 Aprile
  • Nagoya ⇒  fioritiura il 26 Marzo, piena fioritura il 4 Aprile
  • Nagano ⇒  fioritura il 10 Aprile, piena fioritura il 15 Aprile
  • Aomori ⇒ fioritura il 18 Aprile, piena fioritura il 22 Aprile
  • Fukuoka ⇒fioritura il 26 Marzo, piena fioritura il 4 Aprile
  • Hiroshima ⇒ fioritura il 27 Marzo, piena fioritura il 6 Aprile
  • Kyoto ⇒ fioritura il 28 Marzo, piena fioritura il 6 Aprile
  • Kanazawa ⇒ fioritura il 3 Aprile, piena fioritura il 9 Aprile
  • Sapporo ⇒ fioritura il 26 Aprile, piena fioritura il 30 Aprile

 

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La festa di San Patrizio e la birra, uno dei suoi simboli

 

Buon San Patrizio, happy St.Patrick’s day! Oggi è la festa del santo patrono d’Irlanda, e ormai anche in Italia la si celebra da tempo. MyVALIUM ha già approfondito la storia, le usanze e i simboli che contraddistinguono questa ricorrenza, il cui colore per antonomasia è il verde (rileggi qui l’articolo). Oggi ci focalizzeremo su un altro argomento: la birra, che il 17 Marzo scorre letteralmente a fiumi. Ma cosa associa San Patrizio alla celebre bevanda aromatizzata con il luppolo? Continuate a leggere e lo scoprirete.

 

 

Bisogna, intanto, considerare che cosa rappresenta la birra per gli irlandesi. La birra è innanzitutto la bevanda nazionale dell’Irlanda, uno dei suoi simboli supremi. Accanto ad essa troviamo i folletti (come il Leprecauno, che custodisce un pentolone ricolmo di monete d’oro), i trifogli, il verde, l’arpa, la croce celtica e George Bernard Shaw, per citarne solo alcuni. La birra può essere considerata uno dei più importanti emblemi socio-culturali del paese insieme al sidro, ottenuto dalla fermentazione alcolica delle mele cotogne. Le prime feste dedicate a San Patrizio sorsero nell’Irlanda del 1600. Secondo alcuni, tuttavia, il culto di Maewyin Succat (nome di nascita del Santo) risale addirittura all’anno 1000, quando San Patrizio cristianizzò l’isola. Proprio a quell’epoca, cominciarono a spuntare molteplici birrifici e sidrifici. L’Irlanda era dominata dai Vichinghi, arrivati sull’isola di smerlando nel 795 d.C. con l’intento di saccheggiarla. Furono proprio i Vichinghi, una volta insediatisi sul territorio, a creare delle importanti rotte commerciali con l’Europa: gli irlandesi iniziarono ad esportare i loro prodotti, in particolare il sidro, che era richiestissimo nel Regno Unito.

 

 

Il commercio marittimo tra l’Irlanda e gli altri paesi proseguì per molti anni ancora, favorito in particolar modo dalle comunità di immigrati irlandesi presenti in ogni parte del mondo. Anche la festa di San Patrizio cominciò a diffondersi a livello mondiale: nel 1800, il 17 Marzo era una data importantissima ovunque fossero presenti degli espatriati irlandesi. Ma non pensate che venisse festeggiata come lo facciamo oggi. Il culto di San Patrizio era prettamente cattolico, legato a messe e processioni dove il sacro rappresentava l’elemento dominante. I festeggiamenti cominciarono a prendere una nuova piega a partire dalla prima metà dell’Ottocento; intorno al 1845 e fino al 1849, in particolare, la grande carestia delle patate provocò una massiccia diaspora irlandese negli Stati Uniti, tra Boston, New York e Chicago, oppure in Canada.

 

 

E in America, la festa di San Patrizio iniziò a poco a poco a diventare una celebrazione che coinvolgeva tutta la popolazione. Il 17 Marzo di ogni anno si omaggiavano non solo San Patrizio, ma  l’isola di smeraldo in toto, con i suoi abitanti e le sue tradizioni. Tra queste ultime, naturalmente, rientravano i simboli. La birra era uno di questi: nel XIX secolo predominava la stout, diffusissima nell’Irlanda settecentesca grazie al birraio Arthur Guinness. Ancora oggi, dopo l’avvento delle Lager (birre a bassa fermentazione), la stout scura rimane uno dei principali emblemi della verde Irlanda unitamente al sidro, meno conosciuto nei paesi mediterranei ma ricco anch’esso di una forte valenza simbolica.

 

 

E se a Chicago ogni anno, in occasione di San Patrizio, la comunità irlandese tinge il fiume Chicago di verde con 40 chili di colorante vegetale, anche la birra ha provato a cambiare colore: la birra verde, prodotta specificamente per il 17 Marzo, non ha però niente a che fare con l’Irlanda: fu ideata nel 1920 da un medico statunitense, Thomas Hayes Curtin, che pare usasse un misterioso preparato per ottenere il color smeraldo. Secondo alcuni, le radici della birra verde affondano invece agli inizi del Novecento. Risale al 1910, infatti, una pagina pubblicitaria di quel tipo di birra rintracciata in un giornale dello stato di Washington.

 

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Il Carnevale di Venezia: 6 aneddoti storici

 

Del Carnevale di Venezia, MyVALIUM ha parlato moltissime volte. L’ultima in ordine di tempo, in occasione dell’intervista con il Principe Maurice (rileggi qui l’articolo), storico Gran Cerimoniere e “Casanova” per eccellenza della kermesse. In questo post, invece, vorrei approfondire un aspetto poco conosciuto del Carnevale lagunare, o perlomeno sconosciuto ai più: gli aneddoti storici e tradizionali relativi alla più celebre festa veneziana. Andiamoli subito a scoprire.

 

Il 1700, l’epoca del massimo splendore

 

Il XVIII secolo, per il Carnevale di Venezia, può essere considerata un’epoca d’oro: la festa è ormai famosa in tutta Europa e attira migliaia di turisti. Le botteghe dei “mascareri” (i fabbricanti di maschere), così come quelle di costumi, diventano sempre più numerose. I luoghi del Carnevale sono Piazza San Marco, la Riva degli Schiavoni, i campi veneziani. E’ qui che si concentra la miriade di artisti di stradasaltimbanchi, giocolieri, danzatori e musici – che anima la manifestazione, a cui prendono parte anche svariate compagnie teatrali e le maschere della Commedia dell’Arte. Gli spettacoli si susseguono ovunque, all’aperto ma anche nei teatri e nelle antiche dimore, dove, non di rado, raggiungono un alto tasso di licenziosità.

 

Il codice di condotta delle maschere

 

Sapevate che le maschere hanno delle norme da seguire? E’ una tradizione antica che prevede regole ben precise. Eccone alcune. Se una maschera viene interpellata da qualcuno che indossa abiti civili, potrà rispondere soltanto a gesti o in impercettibili sussurri. Secoli orsono, infatti, le maschere non potevano comunicare tra loro se non bisbigliando. Questa regola ha anche a che fare con il rispetto che si doveva, e si deve, ad ogni persona in costume: è assolutamente proibito cercare di scoprire chi si cela dietro alla maschera e, di conseguenza, farla parlare. Se le maschere si incontrano, devono salutarsi con un inchino. Chiunque incontrasse una maschera ai tempi d’oro del Carnevale (che dal 1979 è ritornato ai suoi antichi fasti), era tenuto a salutarla con un “Buongiorno, siora maschera!”.

 

L’usanza degli ovi

 

Lanciarsi “ovi odoriferi”, durante il Carnevale settecentesco, è di gran moda. Gli ovi non sono altro che gusci ricolmi di profumo, riempiti appositamente dai veneziani. Viene quasi sempre utilizzata l’acqua di rose: la tradizione vuole che i giovani uomini lancino ovi odoriferi alle donne da cui sono attratti, ma ben presto questo “gioco” degenera. Gli ovi cominciano ad essere riempiti di sostanze inaspettate, dall’inchiostro a quelle più repellenti, e tutto volge in burla.

 

Il medico della peste

 

E’ la maschera più inquietante e spaventosa del Carnevale di Venezia. Non è un caso che sia rimasta celebre: il lungo becco,  il mantello e il copricapo neri, in realtà, sono la divisa storica del medico della peste. Il medico, cioè, che nella Venezia cinquecentesca si recava di casa in casa per curare coloro che avevano contratto il morbo della peste. Il becco, interminabile e voluminoso, veniva riempito di erbe officinali, medicinali e aromatiche allo scopo di proteggere il dottore dall’olezzo dei cadaveri e dal contagio. L’epidemia di peste che si verificò a Venezia tra il 1575 e il 1577 fu terrificante: uccise 50.000 persone, che a quell’epoca rappresentavano un terzo della popolazione lagunare.

 

La maschera preferita di Giacomo Casanova

 

Il grande seduttore, ebbene sì, ha una sua maschera (rileggi qui l’articolo in cui parlo delle maschere veneziane) preferita: la bautta. Non c’è da meravigliarsi, dato che si tratta della maschera che più di ogni altra assicura l’anonimato. Il travestimento include un mantello, il cosiddetto tabarro, un cappuccio nero e un cappello tricorno (a tre punte). La maschera che cela il volto, detta larva (dal latino “spettro”), è solitamente bianca o color oro e forma una sorta di triangolo sporgente nella parte inferiore. Ciò permette di bere e di mangiare, ma, in primis, di camuffare la propria voce. E per Casanova, di certo, tutto ciò ha un valore aggiunto: indossa la bautta quando vuole rendersi irriconoscibile, o ammantarsi di mistero in occasione delle sue avventure galanti. Non disdegnando tutti quei vantaggi che il tabarro può offrire…

 

Chi lavora non festeggia

 

Nel 1700, durante il Carnevale di Venezia, lavorare è proibito. Si, avete capito bene: a Carnevale, a Venezia, è vietato lavorare. Far baldoria, divertirsi e festeggiare sono invece tassativi. I veneziani credono talmente in questa festa che arrivano perfino ad arrestare chi prosegue la sua attività lavorativa nel periodo carnascialesco. Costui può essere trascinato in chiesa a mò di penitenza o, più spesso, viene obbligato e bere litri e litri di vino prima di essere eletto Re del Carnevale nel giubilo generale.

 

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Gli arancini, il delizioso dolce carnascialesco delle Marche

 

Sapevate che, a Carnevale, anche l’Italia ha i suoi kanelbullar? Non sono propriamente alla cannella come le note girelle svedesi, che riproducono però nella forma: sto parlando degli arancini, dei dolcetti carnascialeschi tipici delle Marche (la mia regione). Sono facili da preparare, e a Carnevale impazzano. La tradizione vuole che si realizzino in casa, sebbene sia ormai possibile comprarli in panetteria, in pasticceria e al supermercato. Ma che cos’hanno, gli arancini, di tanto speciale? Innanzitutto, ingolosiscono al primo sguardo: si tratta di girelle fritte a base di arancia e di limone; non c’è bisogno di aggiungere che siano irresistibili.

 

 

La loro preparazione richiede, complessivamente, poco più di mezz’ora. Secondo l’antica ricetta marchigiana, friggerli è fondamentale. Di recente, tuttavia, si è imposta anche la cottura al forno: rispetto a quelli fritti, soffici e gustosi, gli arancini al forno risultano molto più croccanti. Gli ingredienti essenziali per la preparazione dei dolcetti sono il latte, la farina, il burro, le uova, lo zucchero, il sale, il lievito di birra e la vanillina. Serviranno, poi, la scorza di due arance e quella di un limone. L’impasto viene steso creando un rettagolo, successivamente farcito con lo zucchero e le scorze di arancia e di limone. Dopo averlo tagliato a rondelle, il tutto va lasciato cuocere fritto oppure al forno. Spesso gli arancini fritti si imbevono nel miele affinchè  acquistino un tocco di delizia in più. La lievitazione dura 30 minuti circa. Il burro andrebbe preferibilmente estratto dal frigo qualche minuto prima di iniziare a preparare il dolce, per permettergli di ammorbidirsi. Anzichè essere passati nel miele, gli arancini possono essere spolverati con lo zucchero a velo dopo la cottura.

 

 

Queste girelle agli agrumi e allo zucchero fuso sono davvero irresistibili, qualcosa di unico nel panorama dei dolci  carnascialeschi italiani. Vi consiglio di provarli: potete trovare qui la ricetta completa.

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La maschera carnevalesca: storia, origini e tradizione marchigiana

 

Della maschera, elemento fondante del Carnevale e di tutti i riti alla sua origine, MyVALIUM ha già parlato; soffermandosi, però, sulle maschere del Carnevale veneziano (rileggi qui l’articolo). In questo post, invece, focalizzeremo la nostra attenzione sull’utilizzo della maschera nelle celebrazioni “carnascialesche” e nella tradizione marchigiana. Come nasce, innanzitutto, la maschera? Partiamo dall’etimologia: il  nome “maschera” contiene una radice indoeuropea, “masca”, la cui traduzione riconduce a “fuliggine” o a (in senso figurato) “fantasma nero”. Secondo alcuni studiosi, tuttavia, “masca” deriverebbe dal latino medievale e significherebbe “strega”: esistono svariate testimonianze scritte al riguardo, come l’editto di Rotari, dove quel termine viene citato. Non è un caso, inoltre, che nel dialetto ligure e piemontese il sostantivo “masca” identifichi proprio la strega (rileggi qui l’articolo che ho dedicato alle streghe delle regioni italiane). L’associazione tra maschera e magia, d’altronde, ha radici che affondano nella notte dei tempi; i riti che connettevano il mondo dei vivi con quello dei morti venivano eseguiti con il volto celato da una maschera sin dall’epoca preistorica. La maschera aveva la funzione di annullare l’identità di colui che la indossava, doveva riprodurre i lineamenti dello spirito evocato. Intorno al I secolo a.C., nell’antico Egitto e nell’antica Grecia apparvero le prime maschere funerarie: quella di Tutankhamon, interamente in oro e smalto, rimane celebre. Il teatro greco utilizzò le maschere sin dagli albori, affinchè i personaggi fossero caratterizzati, ben visibili e ben udibili durante le rappresentazioni. Nei culti misterici del mondo ellenico, la maschera divenne anche l’emblema della “morte iniziatica”; la Roma dell’età imperiale, al contrario, conferiva alla maschera un’accezione più che mai giocosa e caricaturiale.

 

 

Secoli orsono, le prime maschere di Carnevale erano a dir poco spaventose: nel periodo dell’anno dedicato al caos e all’inversione dei ruoli, raffiguravano gli spiriti che emergevano dagli Inferi per catapultarsi nel mondo dei vivi. C’erano quindi i demoni, che avevano la funzione di importunare e sbeffeggiare chiunque capitasse loro a tiro. Tra balli, baldorie e fustigazioni, l’atmosfera che aleggiava era assai angosciante. Nell’antica tradizione marchigiana ritroviamo la maschera del diavolo, spesso affiancata da quella della morte; sono figure esorcizzanti, dalla valenza apotropaica, alle quali si affiancavano altre maschere tipiche: la sposa, il dottore, il sacerdote, il gobbo e personaggi riferiti alla realtà locale. Si racconta che a Carnevale, nella valle del Metauro, un folto gruppo di maschere si spostasse di casa in casa per esibirsi al suon di fisarmonica in divertenti sketch. Subito dopo, partiva la questua di uova e carne di maiale. Esistono diverse testimonianze, inoltre, di maschere svanite nei meandri del tempo, come “lu Zaravaju” dei Monti Sibillini: chiassoso, simpatico, ribelle e spirito libero per definizione, si ispirava a una persona realmente esistita. I suoi segni distintivi erano i campanacci e le cravatte coloratissime che abbinava ad abiti molto a buon mercato. Ancora una volta ritornano il baccano, lo sberleffo e l’“anarchia”, probabilmente retaggi di riti arcaici dalla profonda valenza simbolica.

 

 

Nel XVI secolo, con la nascita della Commedia dell’Arte (da notare che la maschera che gli Zanni indossano si ispira, non a caso, al volto del demonio così com’era rappresentato tra il 1400 e il 1500), ogni maschera ha una sua connotazione ben precisa. C’è Arlecchino, Balanzone, Pulcinella, Gianduja, Colombina, Gioppino, Pantalone, Rosaura, Giangurgolo…e ognuno vanta le proprie peculiarità estetiche e caratteriali. Anche nelle Marche, nel corso dei secoli, hanno preso vita personaggi che caratterizzano determinate province o città. A Pesaro abbiamo Rabachén (baccano) e Cagnèra (litigio), una coppia di coniugi apparsa per la prima volta nel 1874. Rabachén è il re del Carnevale: indossa un cappotto a coda di rondine rosso sgargiante, una tuba nera dall’altezza vertiginosa e una fusciacca bianca e rossa, i colori di Pesaro. Cagnèra è una donna tarchiata agghindata con nastri, pizzi, fiori e fiocchi. L’antichissimo Carnevale di Fano ha come protagonista El Vulòn, una maschera inventata nel 1951 da Rino Fucci (artista e dirigente della Società Carnevalesca cittadina). Il nome El Vulòn si riferisce probabilmente al “Nous voulons” con cui esordiva il banditore di editti durante la dominazione napoleonica, e inizialmente si associava a una maschera saccente, arrogante e con la puzza sotto il naso. Con il tempo, poi, El Vulòn passò ad impersonare in modo satirico le celebrità del momento.

 

 

Anche Ancona ha le sue maschere: Papagnoco e Burlandoto risalgono alla metà del 1800. Le creò un burattinaio locale rendendole protagoniste del suo teatrino, ma agli anconetani piacquero talmente tanto da diventare delle maschere del cosiddetto “Carnevalò”. Papagnoco è un campagnolo gretto e rissoso approdato in città, Burlandoto una guardia papalina che non brilla per sagacia. Nel 1999 è stato introdotto Mosciolino, inventato dal grafico Andrea Goroni. Il suo nome si ispira al “mosciolo”, le cozze selvatiche che abbondano lungo la Riviera del Conero, mentre il suo aspetto è quello di una sorta di elfo dei mari. A Macerata la maschera più popolare è Ciafrì, un contadino astuto e irruente che parla solo nel dialetto del suo villaggio. Nel fermano, invece, si è imposto Mengone Torcicolli: marionetta ideata da Andrea Longino Cardinali nel 1816, si tramutò in una maschera dopo mezzo secolo di esibizioni teatrali. Mengone è un personaggio bonario, astuto e dall’aspetto sgradevole a dir poco. Il suo punto di forza è la schiettezza, ed è probabilmente questa stessa dote ad avergli permesso di prender moglie: Lisetta, la sua sposa, lo conosce dopo una vita avventurosa e accetta subito di farsi impalmare. Mengone è ritornato a far parte del Carnevale fermano nel 2019, e non ha mancato di portare con sé la sua Lisetta.

 

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