Hanami: i cibi e le bevande tradizionali dei picnic sotto i ciliegi in fiore

 

“Hanami”, in giapponese “guardare i fiori”: di questa tradizione del paese del Sol Levante, VALIUM ha parlato più di una volta. E’ un rito collettivo antichissimo, un inno alla bellezza del fiore di ciliegio e alla sua simbologia. I giapponesi attendono la fioritura dei ciliegi con trepidazione, spostandosi poi in massa verso i luoghi dove è possibile ammirarli in tutto il loro splendore. Lì, sotto le chiome in fiore dei sakura (il ciliegio o il fiore di ciliegio giapponese), contemplano la meraviglia di quelle spettacolari nuvole rosa e organizzano picnic. Di notte, al chiar di luna e con le luci dei lampioni e delle stelle, l’ Hanami risulta ancora più suggestivo: viene ribattezzato Yozakura, ovvero “ciliegio notturno”, ed è un appuntamento imperdibile di ogni Primavera. Ma quali sono i cibi e le bevande che i giapponesi consumano durante questi picnic? Cominciamo subito col dire che il rosa è il colore che fa rigorosamente da leitmotiv. Celebra il fiore di ciliegio e la sua valenza emblematica, che spazia dalla caducità alla meraviglia della vita.

 

 

Scopriamo quindi quali cibi tradizionali si accompagnano all’Hanami. Bisogna dire innanzitutto che, oltre al colore rosa, esiste un altro elemento che contraddistingue i picnic sotto i sakura in fiore: il sapore di fiore di ciliegio. E’ delicato, inconcondibile, e in Giappone si utilizza per aromatizzare qualsiasi bevanda e cibo, dolci o salati che siano. Molti di voi conosceranno i sakuramochi, dei dolcetti a base di riso, zucchero e pasta di fagioli rossi che vengono serviti avvolti in una foglia di sakura.

 

 

Anche i dango sono piuttosto celebri: nei manga potete ammirarne a volontà, essendo un dolce tipico giapponese. Esistono svariate tipologie di dango, i Mitarashi dango sono i più noti. Si tratta di gnocchi di farina di riso infilzati su un bastoncino (che può contenerne da un minimo di tre a un massimo di cinque), dalla forma sferica e rivestiti di glassa a base di salsa di soia dolce. In occasione dell’Hanami, si prepara una versione chiamata Hanami dango. E’ costituita da tre polpette sferiche (sempre infilzate a mò di spiedino) tinte nei caratteristici colori primaverili: rosa, bianco e verde. Il rosa simbolizza i sakura, il verde le foglie nate di recente, il bianco la neve appena sciolta.

 

 

C’è un proverbio ironico che riguarda gli Hanami dango, ossia “Meglio i dango che i fiori”. Il significato è duplice: può essere un elogio alla sostanza a discapito dell’estetica, oppure indicare qualcuno che approfitta dell’ Hanami per dedicarsi a grandi abbuffate anzichè all’ammirazione dei fiori di ciliegio. Dopotutto, l’Hanami è anche un modo di incontrarsi, di socializzare all’insegna del buon cibo e di deliziose bevande. La cornice di incredibile bellezza dei sakura, tuttavia, si rivela fondamentale. Prima parlavamo del gusto di ciliegio: lo ritroviamo dappertutto, persino nei gelati, nelle birre, nel thè, addirittura nell’acqua. La Coca Cola, in vista dell’Hanami, mette in commercio una speciale edizione al ciliegio della bevanda, il cui packaging è in total pink. Starbucks, dal canto suo, lancia il sakura frappuccino “vestito” di rosa e al gusto di ciliegio per l’occasione; lo stesso avviene per la nota birra Asahi, che in tempo di Hanami rinnova il look e il sapore. Ma torniamo ai cibi. Quelli imprescindibili sono l’onigiri, il tipico spuntino di riso bianco ripieno di tonno e di salmone; è riconoscibile, tra l’altro, dall’alga nori che lo ricopre lateralmente.

 

 

Molto comuni sono anche le tamagoyaki, gustose omelette tradizionali, gli edamame, baccelli di soia lessati tipici anche della cucina cinese, e il dorayaki, un dolce composto da due pancake e ripieno di salsa rossastra ottenuta dai fagioli azuki. Tutti questi cibi, e molti altri ancora, sono di solito racchiusi nel bentō, un vassoio munito di coperchio particolarmente utile per i picnic all’aria aperta. Tra le bevande dell’ Hanami risaltano invece l’Hanami-zake, sakè in coppetta a cui si aggiunge un fiore di ciliegio: dev’essere appena caduto dal ramo per esaltare il fascino e la potenza evocativa del drink. Anche il té verde ai fiori di ciliegio è un must, e in molti lo portano con sè in un thermos (caldo o freddo non importa). Il chuhai lo si trova praticamente in tutti i supermercati, nei bar e nei distributori automatici; è una bevanda alcolica gassata rinfrescante a base di schochu (un distillato tradizionale del Sol Levante) e highball. L’aroma, naturalmente, è al gusto di ciliegio.

 

 

E in questo trionfo del rosa, vi chiederete, che ruolo ha il vino rosè? La buona notizia è che il rosato italiano sta avanzando a grandi passi verso il Giappone, e chissà che un giorno non riesca ad affiancare le bevande tradizionali dell’ Hanami.

 

 

Foto dei dango e sakuramochi (n.4 dall’alto) di crayonmonkey from Manchester, UK, CC BY-SA 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0>, da Wikimedia Commons

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Pasqua, una solennità ricca di simboli

 

Giovedì abbiamo parlato dell’uovo, ma la Pasqua è una solennità piena zeppa di simboli che affondano le loro radici nella religione, nella cultura e nel folklore. La Resurrezione di Cristo, avvenuta tre giorni dopo la sua sepoltura, rappresenta la festività più importante del Cristianesimo: con il passar dei secoli si è andata ammantando, quindi, di molteplici connotazioni simboliche. Di alcuni di questi emblemi si sono perse le origini, mentre altri sono diventati così celebri da essere dati per scontati. Facciamo un po’ di chiarezza e addentriamoci nella ricca iconografia pasquale.

 

L’agnello

 

Simbolizza il sacrificio di Gesù, che ha dato la vita per l’uomo. La tradizione di mangiare agnelli risale alla Pasqua ebraica, il cui nome, Pesah, indicava originariamente la liberazione, ad opera di Mosè, dai lunghi anni di schiavitù che gli Ebrei sperimentarono in Egitto. Fu Mosè, infatti, a guidare il loro esodo verso la Terra promessa. Durante la Pasqua ebraica era tassativo cibarsi degli agnelli per commemorare la salvezza: quando Dio inviò l’ultima piaga, che uccise ogni primogenito egiziano, gli Ebrei (su direttive di Mosè) sacrificarono degli agnelli. Li mangiarono insieme al pane azzimo e tinsero gli stipiti delle porte con il loro sangue. In questo modo, Dio avrebbe potuto riconoscere le loro dimore e risparmiare i loro primogeniti.

 

La campana

 

Il giorno di Pasqua, le campane suonano festosamente per celebrare la Resurrezione di Gesù. Il loro suono comunica gioia, simboleggia la gloria di Gesù risorto. Il Venerdì Santo, invece, giorno della morte di Gesù, le campane suonano a lutto.

 

La colomba

 

Simboleggia la Pace, ma anche lo Spirito Santo, ovvero il Terzo Membro della Santissima Trinità. La Colomba è una figura strettamente legata al Diluvio Universale. Quando il Diluvio si placò, Noè ordinò a una colomba di volare fuori dall’ Arca. La terza volta che lo fece, la colomba tornò con un ramoscello d’ulivo nel becco. Per Noè fu un chiaro simbolo della riconciliazione tra Dio e l’uomo. La colomba divenne quindi un emblema di Pace e della rinascita di Gesù, che si immola sulla croce per la nostra Redenzione: Gesù auspica un mondo all’insegna della Pace e della comunione tra gli uomini. All’inizio del XX secolo, la forma di una colomba cominciò a identificare il dolce pasquale per eccellenza.

 

Il coniglio

 

La lepre, con l’avvento del Cristianesimo, era un simbolo di Cristo. Questo animale infatti non ha una tana, in Primavera vaga liberamente nel bosco. E Cristo si era definito privo di una dimora, di un luogo che lo ospitasse, che gli garantisse il dovuto riposo. Il coniglio vero e proprio, in particolare il coniglio bianco, è una figura molto presente nei paesi del Nord Europa e in quelli anglosassoni (se vuoi saperne di più, rileggi qui l’articolo che VALIUM gli ha dedicato): viene chiamato Easter Bunny e ha il compito di distribuire ai bambini le uova di cioccolato. Probabilmente il coniglio, essendo un animale molto prolifico e che fa la muta in Autunno e in Primavera, divenne un emblema di rinnovamento e di rinascita.

 

La croce

 

All’epoca dell’Impero Romano, una croce di legno veniva utilizzata per dare la morte ai condannati: li si crocifiggeva infliggendo loro un supplizio che provocava una lenta agonia. A rendere ancora più atroce il tormento era la flagellazione che lo predeceva. Gesù venne condannato a morte per crocifissione in quanto la Palestina, all’epoca, faceva parte dell’Impero Romano d’Oriente. Quando Gesù risorse, i credenti cristiani assursero la Croce a simbolo della loro religione e tramutarono quello strumento di tortura in un potente emblema di fede.

 

Il fuoco

 

Con il fuoco che tradizionalmente arde davanti alle chiese la notte di Pasqua, viene acceso il cero pasquale. E’ un rito molto importante a cui i fedeli assistono in massa: il fuoco simboleggia, la vita, la luce, il calore che sconfiggono la morte, l’oscurità e il gelo, ma anche il rinnovamento dello spirito e la luminosità che ci guida verso lo splendore eterno.

 

L’acqua

 

In questo caso, l’acqua è quella del fonte battesimale: durante la veglia pasquale, infatti, si celebra un gran numero di battesimi. L’acqua ha una valenza purificatrice, e il battesimo è un momento di passaggio dal buio alla luce. Battezzandosi si diventa figli di Dio, si abbraccia la luce e si lasciano le tenebre del peccato alle spalle. Con il battesimo rinasciamo a vita nuova proprio come Gesù è morto e risorto.

 

L’ulivo

 

Quando la colomba dell’ Arca ritornò da Noè con un ramoscello di ulivo nel becco, Noè capì subito che l’ira di Dio nei confronti degli uomini era terminata. Il Diluvio Universale si era concluso, la Terra poteva ricominciare a popolarsi. L’ulivo, dunque, divenne un emblema di pace. La Domenica delle Palme, quella che precede la Pasqua, i rami d’ulivo vengono benedetti in ricordo dell’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, dove venne salutato da una folla entusiasta che agitava rami di palma e ulivo.

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I bignè di San Giuseppe, il dolce tipico delle Marche per la Festa del Papà

 

Il 19 Marzo, a San Giuseppe, ogni regione d’Italia ha un proprio dolce tradizionale da proporre. Nella mia, le Marche, si usa preparare i bignè di San Giuseppe, comunemente detti “migné”. Di che si tratta? Innanzitutto, di una golosità unica: sono bignè farciti di deliziosa crema pasticcera, cosparsi di zucchero a velo oppure alchermes. Li ritroviamo anche in altre regioni dell’ Italia centrale, ad esempio il Lazio, dove generalmente vengono fritti e riempiti di crema chantilly; una variante della farcitura (ma non in quella zona) può essere costituita dalla ricotta. I bignè di San Giuseppe sono soprattutto noti come dolce per la Festa del Papà di Roma. Nella capitale, in effetti, il 19 Marzo era una ricorrenza molto sentita, soprattutto intorno al 1500: la Confraternita dei Falegnami soleva organizzare svariate celebrazioni in onore del padre putativo di Gesù, concentrandole nella Chiesa di San Giuseppe dei Falegnami al Foro Romano. Proprio in questa chiesa, costruita sopra il Carcere Mamertino nel 1546, la Confraternita era solita riunirsi durante l’anno.

 

 

Ma che c’entra San Giuseppe con i bignè? Tutto, a quanto pare, nacque con la fuga della Sacra Famiglia in Egitto. In quel periodo, Giuseppe avrebbe lavorato come friggitore itinerante per provvedere ai bisogni della moglie e del figlio. Non è un caso che il 19 Marzo, a Roma, si festeggiasse in un travolgente connubio di sacro e profano, tra miriadi di bancarelle di dolci fritti e funzioni liturgiche che celebravano la solennità dedicata al falegname di Nazareth. Tornando nelle Marche e al dolce tipico della mia regione, va detto che siamo soliti cuocere in forno gli squisiti “mignè”.

 

 

Per prepararli, è necessario procurarsi un bicchiere pieno d’acqua, 100 g di strutto,  quattro uova, una quantità di farina corrispondente a 300 g, e poi dello zucchero, l’alchermes, un po’ di sale e dell’ ottima crema pasticcera.  L’acqua va portata a ebollizione in una pentola insieme allo strutto, dopodichè l’impasto viene mescolato insieme alla farina per dieci minuti circa. Dopo averlo lasciato raffreddare si aggiungono le uova, che erano state sbattute precedentemente. A questo punto è possibile dar forma ai bignè, modellando tante piccole sfere che verranno riposte in una teglia imburrata. I dolcetti dovranno cuocere in forno per mezz’ora a 180°; appena sfornati, si lasceranno raffreddare e la crema pasticcera potrà essere inserita in dosi massicce attraverso un’apertura praticata nella parte superiore dei dolcetti. Per concludere, l’apertura andrà richiusa e si potrà procedere a cospargere i bignè di zucchero a velo (o di alchermes).

 

 

Martedì Grasso: che la festa abbia inizio, in Italia e nel mondo

 

Carnovale, Carnasciale, o Carnesciale, come noi vogliam dire è lo stesso tempo di feste, di quelle, che da’ Latini si dicono Bacchanalia: e cosí le dissero, perché derivaron da Bacco, il che se è vero, potrà dirsi ancora, che da luí derivi la nota Posta di Baccano vicina a Roma, dove essendovi l’osteria, chi sa, che forse non sia stata in quei giorni un tempio appunto consagrato in onore di Bacco? Siccome quel che fra noi vien detto Fare il Baccano, che significa Scherzare alla peggio con romore e fracasso.

(Giovan Battista Fagiuoli)

 

Martedì Grasso: è tempo di far festa, di tirar fuori costumi e maschere, di abbandonarsi a balli sfrenati prima che il Mercoledì delle Ceneri dia il via ai 40 giorni “ascetici” della Quaresima. Con Martedì Grasso il Carnevale raggiunge il suo apice e il suo termine al tempo stesso. Che feste, danze, parate, travestimenti e performance di strada abbiano inizio, dunque. Esagerare con il cibo e le bevande è tassativo; peraltro, tra castagnole, frappe, chiacchiere, frittelle, ciambelle e zeppole non c’è che l’imbarazzo della scelta. Anche perchè il nome dell’ ultimo giorno di Carnevale non lascia spazio a dubbi: “Martedì Grasso” deriva dalla possibilità di poter consumare tutti i cibi più “grassi” e golosi che la Quaresima mette al bando inaugurando un periodo di digiuno e penitenza. Fino a mezzanotte, insomma, è lecito darsi alla pazza gioia in un vortice di coriandoli e stelle filanti. E non solo in Italia: a New Orleans, per esempio, il Mardi Gras si celebra sin dall’800. Protagonisti principali, oltre a una folla gaudente e in maschera, sono i carri e le sfilate in caleidoscopici costumi che affollano il Quartiere Francese tra balli e sarcasmo nei confronti della politica e delle problematiche attuali.

 

 

Nel Regno Unito e nei paesi del Commonwealth Martedì Grasso viene detto Shrove Tuesday, “martedì dell’assoluzione”, ma nella stessa data si festeggia anche il Pancake Day (ovvero “giorno della frittella”). Quest’usanza si rifà a un accadimento del 1400, quando una donna terminò di preparare le sue frittelle lungo il tragitto verso la chiesa temendo di non fare in tempo a confessarsi. Da allora, il martedì che precede le Ceneri venne dedicato a una gara di corsa in cui vince chi riesce a far saltare per tre volte il pancake nella padella che tiene in mano. In molti stati europei le celebrazioni non coincidono con Martedì Grasso e fanno riferimento a dolci speciali: in Scandinavia, ad esempio, così come in Germania, si festeggia il lunedì antecedente alle Ceneri. In Svezia la ricorrenza prende il nome di Semladag in omaggio al Semla, un panino tondeggiante al cardamomo farcito con panna montata e crema di mandorle. In Germania, invece, questa giornata è stata battezzata Rosenmontag, “lunedì delle rose”.

 

 

La rosa è un elemento che ricorre anche in Polonia, dove Giovedì Grasso è dedicato alla degustazione di deliziosi bomboloni ripieni di marmellata di rose (pączki è il loro nome). In Russia, Bielorussa e Ucraina al nostro Carnevale corrisponde la Maslenica, una settimana che, prima dell’ inizio della Quaresima, prevede il consumo di bliny a volontà: si tratta di frittelle a base di uova e burro dalla caratteristica forma rotonda che rievoca quella del sole. Il “Martedì Grasso” russo, infatti, è il giorno in cui si dà l’addio alla neve e si saluta la Primavera imminente.

 

 

Volando ancora oltreoceano, non si può certo tralasciare il Carnevale di Rio de Janeiro: essendo il Brasile un paese in cui prevale il cattolicesimo, Giovedì e Martedì Grasso sono i giorni più celebrati. A Rio i festeggiamenti iniziarono intorno al 1830 sulla scia dei prestigiosi balli in maschera italiani e francesi. Negli ultimi anni del secolo, i carioca avevano già creato i “blocos”, ovvero persone abitanti nello stesso quartiere che organizzavano parate in un tripudio di balli, tamburi, canti, ballerine e variopinti costumi. Oggi i blocos crescono continuamente di numero e ognuno sfila in una determinata area. L’atmosfera è spumeggiante, le parate sfarzose avanzano rigorosamente al ritmo di samba: la musica viene suonata dal vivo e le Scuole di Samba fanno a gara per proporre le sfilate più spettacolari, avvalendosi di splendide ballerine che sfoggiano costumi mozzafiato. Alle fine del Carnevale viene premiata la Scuola di Samba che ha presentato la parata migliore.

 

 

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Giorni della Merla: i giorni più freddi dell’anno e la tradizione culinaria marchigiana

 

A causa dei cambiamenti climatici e del riscaldamento globale, è improbabile che i giorni della Merla continuino ad essere i “più freddi dell’anno”. Le tradizioni, però, rimangono e ci piace immaginarli tali. Nel folklore italiano si identificano con gli ultimi tre giorni di Gennaio, ovvero il 29, il 30 e il 31: date associate sin da tempi remotissimi a leggende che vedono come protagonisti una merla, o dei merli, dal piumaggio immacolato e la collera del primo mese dell’anno. VALIUM ne ha parlato molte volte (potete rileggere qui  l’ultimo post), ma voglio ricordare la leggenda più celebre a grandi linee. Si narra che Gennaio si divertisse a far dispetti ad una merla dalle candide piume ogni volta che usciva dal suo nido. Non appena la merla metteva piede fuori casa, il perfido mese scatenava vento, piogge scroscianti e bufere di neve. Un giorno, allora, la merla ebbe un’idea: era la fine di Dicembre quando decise che avrebbe fatto provviste di cibo e non sarebbe uscita per tutto Gennaio. All’epoca, il primo mese dell’anno durava solo 28 giorni. Il 29, la merla emerse trionfante dal suo nido e lo canzonò perchè era riuscita a beffarlo; così Gennaio, furibondo, chiese in prestito tre giorni a Febbraio e le scagliò addosso terribili tempeste e tramontane. Dal 29 fino al 31 Gennaio, dunque, la merla fu costretta a ripararsi in un comignolo. Riuscì a scampare a quel periodo di burrasca, ma quando uscì dal suo rifugio le piume nivee che ostentava erano diventate nere di fuliggine, e così rimasero per sempre. Questa leggenda è nota un po’ in tutta Italia, tuttavia pare che le sue origini affondino nel Friuli, in Trentino e in zone come il cremonese, il folrivese, in Maremma e nel Cesenate. Alle tante usanze dei giorni della Merla, legate indissolubilmente alla cultura agreste, si aggiungono piatti tradizionali che variano da regione a regione.

 

 

Nelle Marche, dove vivo, si rimane fedeli a un proverbio che recita: “Se li gljorni de la merla voli passà, pane, pulenta, porcu e focu a volontà!” (se vuoi passare bene i giorni della Merla, pane, polenta, maiale e fuoco del camino a volontà). Ciò significa che la polenta predomina, accompagnata rigorosamente da fette di ciauscolo (un salame tipico della zona) e da un buon calice di Rosso Conero o Piceno. Il focolare, va da sè, è il must imprescindibile che dona calore e suggestività ai giorni più freddi dell’anno, e c’è proprio da sperare che lo siano: secondo il sapere popolare, infatti, dei giorni della Merla tiepidi e assolati preannunciano una Primavera che tarderà ad arrivare; se sono gelidi, al contrario, la Primavera sarà mite e rigogliosa.

 

L’Epifania nel mondo: usanze e riti della ricorrenza che “tutte le feste porta via”

 

E’ arrivata l’Epifania, una solennità cristiana fortemente contaminata dal folklore. Derivante dal greco ἐπιϕάνεια, ovvero “manifestazione”, il termine Epifania designa appunto la manifestazione, la rivelazione di Cristo all’umanità. La Chiesa cattolica celebra anche l’arrivo a Betlemme dei tre Re Magi, che vollero rendere omaggio a Gesù Bambino donandogli oro, incenso e mirra, mentre per la Chiesa Ortodossa l’Epifania coincide con il battesimo di Gesù. Alla sacralità della festa si uniscono tradizioni che probabilmente affondano le origini nelle figure di antiche divinità pagane (rileggi qui l’articolo su Frau Holle, Berchta e Frigg), ed ecco apparire la Befana: secondo una leggenda, mentre i Re Magi si dirigevano a Betlemme chiesero indicazioni sul tragitto a una donna molto anziana, che però si rifiutò di seguirli nel loro percorso. Poco dopo, pentita, la donna riempì un cesto di dolciumi e andò in cerca dei Re Magi affinchè potessero consegnarlo a Gesù, ma non riuscì più a rintracciarli. Decise allora che sarebbe arrivata a Betlemme, bussando di casa in casa per lasciare doni ai bimbi con la speranza di imbattersi in Gesù Bambino. Nasce così il personaggio della Befana, che tuttora, nella notte tra il 5 e il 6 Gennaio, penetra nelle case attraverso i comignoli con un sacco ricolmo di regali. L’ Epifania non si festeggia solo in Italia, ma anche in molti paesi del mondo. Continuate a leggere per conoscere le usanze internazionali associate a questa ricorrenza.

Tutte le foto, raffiguranti la Festa Nazionale della Befana di Urbania, sono di Diego Baglieri, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0> via Wikimedia Commons

 

 

In Italia

Nel nostro paese, la Befana (una donna anziana che indossa abiti rattoppati e sorvola le case a cavallo di una scopa) consegna i suoi regali nottetempo. La mattina del 6 Gennaio, come per magia, i camini si riempiono di pacchi e pacchetti di ogni dimensione, ma anche delle tipiche calze, ricche di dolci per i bambini buoni e di carbone (sostituito oggi con il carbon dolce) per i bambini meno buoni. Dagli anni dell’infanzia riemergono ricordi di una notte passata in bianco, facendo capolino dalla porta per spiare l’arrivo della vecchietta, ma niente da fare: nessun curioso è mai riuscito a scorgere la Befana. I dolci tipici differiscono a seconda delle regioni. Tra i più famosi rientrano i Befanini, biscotti di pastafrolla dalle svariate forme decorati con zuccherini colorati.

In Spagna e in molti paesi dell’America Latina

Il 6 Gennaio è il Dìa de Reyes, il “giorno dei Re”. Sono i Re Magi a portare doni ai bimbi: la tradizione vuole che Melchiorre, Gaspare e Baldassarre siano arrivati a Betlemme in groppa, rispettivamente, a un cavallo, un cammello e un elefante che rappresentano i loro paesi di provenienza. La notte di vigilia dell’Epifania, i bambini non vanno a dormire senza aver prima lucidato le proprie scarpe: è lì che i Re Magi depositeranno i regali. Accanto alle scarpe sistemano bicchieri di latte o vin dolce, ciotole di frutta o uno spuntino per rifocillare i Re e i loro animali. Il dolce associato al 6 Gennaio è il Roscòn de Reyes, una ciambella ricoperta di frutta candita pressochè identica alla Rosca de Reyes, la torta degustata in Messico, Argentina, Paraguay e Uruguay.

 

 

In Francia

La torta dei Re la fa da padrone. Nel nord della Francia prende il nome di Galette des Rois, nel meridione è il Gâteau des Rois: in entrambi i casi si tratta di un dolce dalla forma rotonda e ripieno di frutta, sebbene la Galette possa contenere anche cioccolato o frangipane. Nell’ impasto viene nascosta una piccola statuetta, e la persona che la trova nella sua fetta di torta viene eletta Re oppure Regina. Il o la fortunata dovrà adornarsi il capo con la corona di carta abbinata al dolce e potrà, a sua scelta, offrire da bere ai presenti o invitarli nella propria abitazione per proseguire il rituale della torta dei Re fino alla fine di Gennaio.

Nei paesi europei di lingua tedesca

In buona parte della Germania cattolica, in Austria e nella Svizzera tedesca, l’Epifania viene incentrata sulle figure dei Re Magi. La tradizione più diffusa è quella degli Sternsinger, i Cantori della Stella, bambini e ragazzi travestiti da Re Magi (con grandi corone di carta sul capo e una stella di legno dorata unita ad un bastone) che vanno di casa in casa per esibirsi in canti a tema. I Cantori ricevono in cambio offerte in denaro che devolvono a cause benefiche, oppure dolcetti. L’usanza prevede anche che i giovani benedicano le case scrivendo l’anno in corso sopra una porta con un gessetto. Le offerte in denaro ricevute vengono raccolte durante la messa della domenica seguente all’Epifania: i Cantori, che indossano di nuovo i costumi dei Magi, formano veri e propri cortei. Il dolce del 6 Gennaio è la torta dei Tre Re; in Svizzera sono molto diffusi i Buchlten, focaccine unite l’una all’altra delineanti la sagoma di una corona. Come avviene in Francia, chi nel dolce trova un ciondolo o una mandorla viene proclamato Re, ma per un solo giorno.

 

 

In Inghilterra

L’Epifania, o meglio la sua vigilia, coincide con la dodicesima notte del periodo compreso tra Natale e il 6 Gennaio. In tempi molto antichi nei villaggi si esibivano i Mummers (attori dilettanti provenienti dal popolo), il ceppo di Yule ardeva per l’ultima volta nel camino (con il carbone si sarebbe acceso quello dell’anno successivo) e si beveva wassail (sidro di mele con spezie) a fiumi. Fu sulla falsariga di queste tradizioni che William Shakespeare scrisse “La dodicesima notte”, non a caso messa in scena per la prima volta durante la vigilia dell’Epifania del 1601. Riguardo ai dolci, c’è solo l’imbarazzo della scelta: la Twelfth Cake è una torta di frutta, affiancata ai biscotti di zenzero e alla crostata di marmellata a forma di stella. Tra le bevande vince la birra speziata, un richiamo ai doni dei Magi. La Twelfth Cake (dodicesima torta) è la protagonista di un divertente rituale: trovare un fagiolo nero arrosto nel suo impasto dà diritto ad essere eletto Re per un giorno, mentre un chiodo di garofano e un ramoscello indicano, rispettivamente, il cattivo e il beota della situazione.

In Irlanda

E’ una sorta di “Festa delle donne”, non per nulla l’ Epifania viene anche chiamata il “Natale delle donne”: dopo le fatiche e gli impegni culinari delle festività natalizie, le donne si rilassano e vanno a cena insieme al ristorante o al pub; i membri della famiglia le riempiono di regali in segno di amore e di riconoscenza.  Il 6 Gennaio, inoltre, vengono bruciati i rametti di agrifoglio che hanno ornato la casa durante le feste.

 

 

In Bulgaria

L’ Epifania è chiamata Bogoyavlenie, giorno in cui Dio si manifesta. Secondo la tradizione, un sacerdote lancia una croce di legno nell’acqua (di mare, di fiume o di lago) e spetta ai giovani il compito di correre a prenderla. Date le temperature polari del Gennaio bulgaro, colui che la recupera sarà ricoperto di tutti gli onori. Il gesto viene considerato di buon auspicio anche per la salute del nuotatore e di tutta la sua famiglia.

In Romania, Moldavia e Transilvania

La Boboteaza viene celebrata con diversi rituali. Nell’area sud-occidentale della Romania si tengono le corse dei cavalli dell’ Epifania: prima della gara è prevista una benedizione, a gara ultimata i festeggiamenti sono travolgenti; il vincitore si ammanta di un’aura di gran prestigio. I riti associati all’acqua, come in Bulgaria e negli altri paesi ortodossi, sono diffusissimi. Secondo un’antica credenza, se una giovane donna cade in un corso d’acqua il giorno dell’Epifania è destinata a maritarsi entro l’anno. In Transilvania ritroviamo la tradizione dei Cantori della Stella, anche se con differenze sostanziali rispetto ai paesi di lingua tedesca: al posto della stella, i cantori portano con sè una lanterna di vetro in cui è racchiusa un’icona ortodossa.

 

 

In Slovenia

Il 6 Gennaio la tradizione vuole che i bambini bussino di porta in porta e che le famiglie regalino loro noci, mandorle, fichi o dolcetti.

In Russia

L’ Epifania si festeggia il 19 Gennaio e commemora il Battesimo di Gesù. La Grande Benedizione delle Acque è il rito supremo dell’Epifania russa: ci si reca solitamente presso un lago o un fiume per prendere parte a un cerimoniale che risale al 1525. A quell’ epoca, era uno degli eventi più maestosi mai tenutosi alla corte dello Zar. Lo Zar e il Patriarca di Mosca (capo spirituale della Chiesa Ortodossa russa) capeggiavano la processione organizzata dopo la liturgia nella Cattedrale della Dormizione. La meta era il fiume Moscova, nelle cui acque ghiacciate veniva scavato un foro denominato Giordano in onore al fiume in cui fu battezzato Cristo. Un gazebo adornato di icone raffiguranti il suo battesimo si installava sopra la buca, dopodichè il Patriarca benediva lo Zar e i suoi dignitari con la croce che aveva precedentemente immerso nel Moscova. Oggi, durante l’ Epifania, i russi sono soliti ricavare fori che chiamano Giordano nelle acque ghiacciate dei laghi e dei fiumi; è una tradizione recente, inaugurata negli anni ’90, e affida alle acque ritenute sacre il potere di lavare i peccati di coloro che si immergono per tre volte nel Giordano. L’acqua del foro, prima del rito, viene benedetta dal sacerdote ortodosso. Il rituale della Grande Benedizione delle Acque ha luogo in tutte le chiese, dove l’acqua santa viene distribuita ai fedeli affinchè possano portarla nelle proprie case. In generale, per i russi, il giorno dell’Epifania ogni tipo di acqua diviene sacra.

 

 

 

Befana e tradizioni: dal carbon dolce ai falò della vigilia dell’Epifania

 

“La Befana vien di notte”, come recita un’antica filastrocca. E se ai bimbi buoni riempie la calza di regali, quelli cattivi da lei ricevono soltanto carbone. Ma non si tratta di carbone vero e proprio: il carbone della Befana è uno dei dolci più noti associati a questa ricorrenza. Si tratta di un carbone di zucchero tinto di nero grazie a un colorante alimentare e tagliato in svariati pezzi. Ma dove nasce una simile tradizione e perchè proprio il carbone? Il motivo rimanda a un’usanza molto diffusa nell’ Italia Nord-orientale: i falò della vigilia dell’ Epifania. In epoca pre-cristiana, i falò avevano valenza purificatrice e propiziatoria presso molte popolazioni. I Celti, ad esempio, li utilizzavano per attirarsi la benevolenza delle divinità. Pare che l’usanza di dare alle fiamme fantocci che simbolizzavano il “vecchio”, ovvero il passato, fosse un rituale di matrici sia celtiche che romane. Nella Roma antica, i festeggiamenti in onore di Diana (la dea della Natura) si tenevano a distanza di dodici giorni dal Solstizio d’Inverno e prevedevano il falò di un fantoccio emblematico dell’anno appena trascorso; la stessa Diana veniva raffigurata come un’ottuagenaria, incarnando la duplice figura di Madre Natura e dell’anno vecchio. In tempi più recenti, questo tipo di fuochi si è tramutato in uno dei riti più diffusi della sera antecedente all’Epifania: le fiamme sono una potente allegoria del vecchio che brucia, del passato che viene distrutto per lasciar spazio al nuovo, a un futuro migliore. La tradizione, un cardine della cultura agreste, è tipica di regioni italiane quali il Veneto, il Friuli Venezia-Giulia e l’Emilia Romagna; chi ha visto “Amarcord” di Fellini ricorderà il “falò della vecchia” proprio all’inizio del film, anche se in quel caso inaugurava la Primavera. Il rituale prende nomi diversi a seconda della zona: in provincia di Treviso e di Venezia è il “panevìn”, a Padova la “fogherata”, nel Veneto dell’est la “casera”, a Parma e Reggio Emilia la “fasagna”.

 

 

Nonostante le differenti denominazioni, il procedimento è simile in ogni regione: sul calar della sera, il fantoccio che rappresenta il vecchio viene sistemato su una pira di legna; quando il falò comincia ad ardere, il parroco benedice il fuoco con l’acqua santa e lo scoppiettio che le gocce originano tra le fiamme, secondo un’antica tradizione, simboleggerebbe il diavolo che, furente, abbandona il falò. Molto importante è decifrare i presagi associati alla direzione del fumo e delle faville del fuoco: sono immancabilmente riferiti al raccolto e all’abbondanza dei frutti che la natura elargirà (o meno) dopo il suo risveglio. Gli uomini presenti, talvolta, si servono di un forcone per “aizzare” la produzione di scintille. Mentre il falò arde, la comunità si riunisce e trascorre momenti all’insegna della convivialità: nelle regioni del Nord-Est, ad esempio, è comune degustare una torta chiamata “pinza” accompagnata dal vin brulè. Tornando al carbon dolce, è facile intuire il link che lo connette ai fuochi dell’Epifania. Il carbone si associa direttamente a quei falò propiziatori, diviene il loro simbolo e al tempo stesso il simbolo della Befana. Con il passar del tempo, regalare carbone cominciò ad essere identificato come una “punizione” destinata ai bambini che non si comportavano bene. In realtà, il carbon dolce che lo rappresenta è una vera e propria delizia per il palato: potete prepararlo in casa seguendo una delle tante ricette disponibili in rete oppure comprarlo bell’e pronto ed inserirlo in una calza adeguatamente decorata.

 

 

 

Il magico Capodanno dell’età vittoriana

 

Le parole dell’anno trascorso appartengono al linguaggio dell’anno trascorso e le parole dell’anno a venire attendono un’altra voce.
(T.S. Eliot)

 

Capodanno non è mai stato così magico come lo era in epoca Vittoriana. Fu la Regina Vittoria in persona ad estendere le celebrazioni per il nuovo anno in Inghilterra: prima si festeggiava sontuosamente solo in Scozia, dove il 31 Dicembre era stato ribattezzato Hogmanay. Gli scozzesi solevano dedicarsi a una serie di riti che non di rado duravano fino al 2 Gennaio, e la Regina era rimasta altamente intrigata da queste usanze. La passione per l’esoterismo tipica dell’età vittoriana ben si sposava con la data di Capodanno, impregnata di suggestioni incantate in quanto situata proprio a metà dei 12 giorni che intercorrono tra Natale e il 6 Gennaio: in un’epoca in cui lo spiritismo e la preveggenza la facevano da padrone, l’interesse per i riti propiziatori e divinatori dell’ultima notte dell’anno raggiunse proporzioni straordinarie. Le superstizioni associate al Capodanno proliferavano, si arrivò persino a pensare che tutto ciò che accadeva il 1 Gennaio sarebbe stato una sorta di “anteprima” sull’andamento dell’anno nuovo. La divinazione, di conseguenza, divenne un vero e proprio leitmotiv della notte del 31 Dicembre. Libri e manuali consigliavano di trascorrere il Capodanno in famiglia o con gli amici più cari: il modo ideale per dedicarsi tutti insieme alla chiaroveggenza.

 

 

La notte di Capodanno, legata a doppio filo a un nuovo inizio, veniva considerata la notte magica per eccellenza. Non erano necessari grandi strumenti per compiere riti divinatori: bastavano un po’ d’acqua, qualche guscio di noce, un numero indeterminato di candele e via dicendo. Le previsioni più richieste riguardavano il nuovo anno e quello che avrebbe portato con sè, oppure i dettagli sul futuro partner, un argomento dall’enorme appeal per le giovani donne in età da marito. Erano moltissime, poi, le usanze propiziatorie. Prima che scoccasse la mezzanotte, innanzitutto, il caminetto andava svuotato di tutta la cenere: l’anno che stava per iniziare sarebbe stato foriero di molte novità. Molte tradizioni riprendevano quelle dell’ Hogmanay scozzese. Eccone qualcuna.

 

 

Le visite

Il “primo passo” aveva inizio subito dopo mezzanotte. La prima persona da cui si riceveva una visita avrebbe dovuto portare con sè vari doni. Bevande e cibarie erano i benvenuti, dato che sarebbero stati distribuiti a tutti gli ospiti presenti. Così il visitatore si muniva di whisky, sale, carbone, frutta e dolci tipici, in particolare torte e biscotti. Il cerimoniale dello scambio di regali era interminabile, talvolta durava fino al giorno seguente. Si considerava di buon auspicio ricevere la prima visita dell’anno da un uomo scuro di capelli; i biondi non erano ben visti e spesso veniva loro impedito di varcare la soglia.

Le visite divennero un cardine del Capodanno vittoriano: uscire e andare a far visita agli amici era beneaugurante. Per il principio secondo cui ciò che si fa a Capodanno lo si fa per l’anno intero, fare vita sociale propiziava un anno intenso e pieno di opportunità. Chi rimaneva a casa correva il rischio di passare l’anno tra le proprie quattro mura, magari perchè costretto da una malattia.

 

 

A varcare le soglie delle case, tuttavia, erano esclusivamente individui di sesso maschile. Alle donne spettava il compito di ricevere, e i bambini che non avevano ancora compiuto il decimo anno rimanevano con loro. Nelle case, a Capodanno, era tutto un viavai di visite e visitatori: ci si presentava con un biglietto e si entrava subito a far parte della baraonda familiare. Molti fidanzamenti iniziarono proprio grazie alle visite di Capodanno. I giovani uomini e le giovani donne potevano conoscersi, incontrarsi, intrecciare liasons approfittando dell’andirivieni incessante. Le dimore dei benestanti si tramutarono nel punto di riferimento per chi puntava a un pasto luculliano: i loro rinfreschi erano memorabili così come le bevande che erano soliti offrire agli ospiti.

Intorno alla fine dell’800 le visite impazzavano. Si giunse a un punto di non ritorno quando divennero una sorta di competizione: tra gli uomini “vinceva” chi effettuava il maggior numero di visite, mentre le donne gareggiavano a colpi di biglietti da visita ricevuti. Ad imporre una svolta di tipo etico fu la morigeratezza tipica della società vittoriana. Le visite cominciarono a ridursi e si lasciò spazio a tradizioni più “innocue”.

 

 

I riti di buono e cattivo auspicio

Alcune azioni, a Capodanno, dovevano essere evitate assolutamente perchè di cattivo auspicio. Ad esempio pulire la casa e fare il bucato, oppure uscire portandosi dietro una lanterna: il fuoco doveva ardere esclusivamente nel camino per non attirare la mala sorte. Foriero di sventura era anche indossare un abito nuovo di zecca, mentre per i giovani uomini uscire con una manciata di monete nelle tasche avrebbe propiziato un prospero anno nuovo. Ascoltare una campana che suonava era un’altro indizio beneaugurale. Esisteva poi una tradizione molto particolare per scongiurare la fame: si usava prendere una torta e lanciarla contro una porta; il nuovo anno non avrebbe fatto mancare le provviste.

 

 

I canti di Capodanno

In questa tradizione rientra “Auld Lang Syne”, un’antica canzone scozzese che in Italia conosciamo con il nome di “Valzer delle Candele”: veniva (e viene tuttora) cantata nei paesi anglosassoni per congedarsi dall’ anno vecchio e, in generale, in ogni situazione che implichi una separazione (per esempio quando si termina il liceo e si consegue il diploma). Le parole del canto inneggiano ai bei momenti trascorsi con gli amici e al ricordo grato di quel periodo idilliaco.

In epoca vittoriana, inoltre, a Capodanno si diffuse l’usanza di spedire a parenti e amici delle bellissime cartoline di auguri illustrate, quelle che ammiriamo ancora oggi. Tra i soggetti predominavano bimbi o putti raffiguranti il nuovo anno e personaggi del folklore come i folletti e gli immancabili maiali, senza alcun dubbio emblemi di abbondanza e floridezza.

 

Illustrazioni

Immagine di copertina via Royce Bar from Flickr, CC BY-NC-ND 2.0 DEED

Immagine n.5 e n.6 dall’alto SMU Central University Libraries, No restrictions, via Wikimedia Commons

 

La colazione di oggi: la casetta di pan di zenzero, tra tradizione, arte e gusto

 

Tradizione natalizia tipica della Germania e dell’ Europa del Nord, la casetta di pan di zenzero è diffusissima anche negli Stati Uniti. In tedesco si chiama  Lebkuchenhaus o Pfefferkuchenhaus  e viene considerato il dolce più goloso e conosciuto preparato con il famoso impasto speziato (“pepparkakor” il suo nome in svedese). Ho già parlato di questa pasta biscotto a base di miele, melassa e zucchero di barbabietola aromatizzati con zenzero, cannella e chiodi di garofano (rileggi l’articolo qui), stavolta voglio soffermarmi sulla casetta e sulla sua storia. Prepararla non è molto difficile, sono le decorazioni a renderla un’opera d’arte: la pasta dev’essere compatta, dopodichè si taglia in modo da formare le parti di una casa. I pannelli, una volta cotti, si assemblano delineando la struttura di un’abitazione. Per unirli vengono usati la glassa o lo zucchero fuso; la glassa, ricoperta di zucchero a velo, serve anche a creare l’effetto neve o dettagli specifici del dolce, come le tegole. Confetti, zuccherini colorati e caramelle completano l’opera, dando un aspetto oltremodo invitante alla casetta. Lo zenzero, che ha una lunga durata di conservazione, contribuisce a mantenerla integra per molto tempo.

 

 

La preparazione dell’ impasto si avvale, oltre che del pan di zenzero, di farina, uova, burro, noce moscata e cacao; al fine di rendere la pasta sufficientemente compatta, la si lascia indurire per alcune ore. Con il pan di zenzero si possono realizzare dolcetti dalle forme più disparate: alberi di Natale, stelle, cuori (basti pensare a quelli, tipici, dei mercatini natalizi tedeschi), renne, fiocchi di neve, animali, cavalieri, santi protettori sono ed erano le più diffuse. Questi dolci cominciarono ad essere prodotti in Germania sotto forma di biscotti (i Lebkuchen) tra il XIII e il XIV secolo. Norimberga, in particolare, considerata la “capitale mondiale del pan di zenzero”, divenne celebre per i capolavori artistici che i fornai realizzavano con il pan di zenzero nel 1600. Nel resto d’Europa, la golosissima pasta biscotto arrivò nel XIII secolo. In Svezia il “pepparkakor” venne diffuso dagli immigrati tedeschi, mentre pare che gli omini al pan di zenzero fossero abitualmente preparati alla corte di Elisabetta I Tudor a cavallo tra il XV e il XVI secolo.

 

 

Nel XVII secolo, produrre dolci al pan di zenzero si tramutò in una professione che rientrava in una corporazione specifica. Le creazioni erano elaboratissime, impreziosite da elementi ornamentali, e coniugavano il gusto con la pura bellezza; a Natale, venivano vendute soprattutto nei mercatini e nelle bancarelle poste in prossimità delle chiese. La produzione “artistica” di pan di zenzero, in Europa, divenne una realtà consolidata nelle città di Norimberga, Lione, Praga, Pest, Torùn e in molti altri centri sparsi tra la Germania, la Polonia e la Repubblica Ceca. Con la massiccia emigrazione tedesca negli Stati Uniti, successivamente, la tradizione invase paesi a stelle e strisce come il Maryland e la Pennsylvania. Ma come nacque l’usanza delle casette al pan di zenzero?

 

 

La loro origine viene fissata a Norimberga, dove tra il 1500 e il 1700 i mercanti erano soliti importare enormi quantità di spezie quali appunto lo zenzero, la cannella, il pepe e le mandorle, mentre l’apicoltura a cui era consacrata la foresta reale garantiva una produzione di miele continua. Secondo una leggenda, la creazione delle prime casette risalirebbe proprio a quell’epoca: un fornaio che viveva nella città tedesca cominciò a prepararle sostituendo la farina con le mandorle per destinarle a sua figlia, affetta da una patologia rara. Secondo gli studiosi, invece, la casette al pan di zenzero vennero prodotte a partire dal 1800: in seguito alla pubblicazione della fiaba “Hansel e Gretel” dei Fratelli Grimm, nel 1812, un gran numero di fornai pensò di riprodurre la casa di leccornie con cui la strega attira i due protagonisti. Inutile dire che fu il pan di zenzero a plasmare quelle casette, che prontamente andarono a ruba. Questo dolce si impose durante le festività natalizie, e a tutt’oggi nulla è cambiato.

 

 

Nel 1800, le casette “raggiunsero” anche il Regno Unito: Thomas Hardy le cita in “Jude l’oscuro”, che apparve sotto forma di romanzo nel 1895, mentre nel ricettario “Dinner With Dickens: Recipes Inspired by the Life and Work of Charles Dickens”, uscito non molti anni orsono, la casetta di pan di zenzero è inclusa tra i dolci associati alla vita e all’opera di Dickens.

 

 

Oggi, a Norimberga vengono prodotte annualmente più di 70 milioni di casette. La città tedesca può essere considerata la città simbolo di questo dolce natalizio, che ha ottenuto peraltro il marchio IGP (Indicazione Geografica Protetta). Tuttavia, la gingerbread house rientra a pieno titolo anche tra le tradizioni natalizie del Nord Europa: il pan di zenzero, ricco di calorie, è un valido aiuto per contrastare le temperature polari della penisola scandinava. Nei paesi in cui la casetta è diffusa, inoltre, la tipicità gioca un ruolo molto importante. In famiglia, nei giorni che precedono il Natale, ci si riunisce tutti insieme per preparare il dolce; in Germania è possibile trovarlo in ogni mercatino nel periodo delle festività. In Svezia, la ricorrenza di Santa Lucia coincide con l’inizio della preparazione delle casette. In determinati luoghi vengono creati dei maestosi villaggi al pan di zenzero: il più grande a livello mondiale è Pepperkakebyen, costruito in Norvegia dagli abitanti di Bergen; notevoli e molto conosciuti sono anche Gingertown, la città di pan di zenzero realizzata a Washington, e il villaggio dell’ Hotel Marriott Marquis di New York, che contiene persino un treno.

 

 

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Yule, il Solstizio d’Inverno degli antichi Celti, e le sue tradizioni

 

Le giornate sono brevi
Il sole una scintilla
stesa sottile tra
buio e buio.
(John Updike)

 

E’ arrivato l’Inverno. E l’ha fatto silenziosamente, mentre tutti dormivano: erano le 4,27 di stamattina quando è entrato ufficialmente. Oggi è il giorno più corto dell’anno, quello che i popoli germanici della tradizione pre-cristiana chiamavano Yule. Le vibrazioni cosmiche sono potenti, quasi palpabili, come per renderci partecipi di questo importante momento di trasformazione: l’oscurità è al suo apice, ma già da domani comincerà gradualmente a lasciar spazio alla luce. L’atmosfera sospesa ci invita ad assaporare attimo per attimo l’arrivo dell’Inverno astronomico. Gli antichi popoli hanno sempre celebrato la nascita del “nuovo Sole”: basti pensare ai romani e al Dies Natalis Solis Invicti, “invitto” sulle tenebre imperanti, o alla ricorrenza celtica di Yule, dove si festeggiava il Sole Bambino. Sia il Dies Natalis Solis Invicti che Yule cadevano in un periodo compreso tra il 22 e il 25 Dicembre (il calendario Giuliano fissava il Solstizio proprio in questa data), quando il Sole, nell’emisfero Nord, sembra fermarsi nel bel mezzo del cielo. “Solstizio” deriva infatti dal latino “Solstitium”, un termine che unisce “sol” (sole) e “sistere” (fermarsi). Dal punto di vista astronomico significa che il Sole, nel suo moto apparente lungo l’ellittica, raggiunge il punto di declinazione minima. Ma anche se il Solstizio sancisce la nostra massima distanza dall’astro infuocato, possiamo assaporare la magia di questi momenti nella consapevolezza della sua rinascita. Dopo la notte più lunga dell’anno il Sole tornerà a sorgere e ci regalerà, giorno dopo giorno, dei minuti di luce in più.

 

 

Tornando a Yule, la festa celtica del Solstizio di cui VALIUM ha già parlato tante volte (rileggi qui uno degli articoli), è interessante esaminare alcuni rituali giunti fino ai giorni nostri che, molto spesso, fanno parte delle tradizioni del Natale. L’albero solstiziale, ad esempio, era un abete (sempreverde simbolo di immortalità rispetto al gelo invernale) che veniva decorato con un tripudio di campanelli e mini rappresentazioni del Sole. In cima all’albero, a mò di puntale, svettava una stella a cinque punte, emblema dei cinque elementi della natura. L’albero veniva allestito rigorosamente all’interno delle case per offrire un rifugio agli spiriti che popolavano la foresta. Il ceppo di Yule, anche questo un argomento trattato approfonditamente da VALIUM (rileggi qui l’articolo che gli ho dedicato), veniva acceso a Yule utilizzando un grosso ciocco di quercia. Le famiglie lo bruciavano nel camino della propria casa per allontanare le entità maligne che si nascondevano nell’oscurità. Prima di compiere questo rito, però, al ceppo venivano legati i rametti di alcune piante dalla valenza simbolica: l’edera, associata al dio del Solstizio; l’agrifoglio, che incarnava l’anno che volgeva al termine; il tasso, emblema della morte dell’anno; la betulla, rappresentazione del nuovo inizio e delle nuove vite. I rametti dovevano essere annodati al ceppo con un nastro rigorosamente rosso, e il ceppo si accendeva usando il tizzo che risaliva all’anno prima. Il ceppo di Yule veniva lasciato ardere l’intera notte e si riaccendeva la sera dopo, un rituale che andava compiuto per dodici giorni di seguito. Infine, le ceneri si spargevano in giardino per proteggere le piante (allontanano i parassiti) e scongiurare la negatività.

 

 

Il ramo dei desideri era un’usanza che consisteva nell’appendere un ramo di grandi dimensioni nell’atrio della propria dimora. Ciò veniva fatto nove giorni prima di Yule dopo aver effettuato ulteriori operazioni: il ramo doveva essere tinto di vernice dorata e decorato con nastri di carta rossa. Tutte le persone che avrebbero varcato la soglia di casa potevano esprimere un desiderio trascrivendolo sui nastrini di carta, che poi venivano accuratamente ripiegati e legati al ramo. La sera del Solstizio, una volta acceso il focolare, si lasciava ardere anche il ramo dei desideri: il fumo avrebbe raggiunto gli dei, che forse li avrebbero esauditi.

 

 

I Celti consideravano il vischio di quercia una pianta sacra, tant’è che aveva la facoltà di raccoglierlo solo il Sommo Sacerdote servendosi di un falcetto d’oro. I Druidi, successivamente, lo immergevano in una bacinella dorata ricolma d’acqua che distribuivano al popolo: al vischio, magico in quanto cresceva su rami e tronchi di molti alberi pur essendo privo di radici ed emblema di immortalità in quanto sempreverde, si attribuivano portentose proprietà guaritrici. La quercia, per i Celti, era un simbolo della presenza divina sulla terra. E sulla quercia si scagliava frequentemente la folgore, il che collimava con la credenza che il vischio scendesse dal cielo insieme ai lampi, emblemi  della discesa sul suolo terrestre delle divinità. Alle sue virtù guaritrici si aggiungevano quelle propiziatorie, associate alla fertilità (dato il suo aspetto simile allo sperma) e al buon auspicio. Non è un caso che il vischio sia onnipresente a tutt’oggi tra le decorazioni natalizie: attirerebbe l’abbondanza e la fecondità, prova ne è il fatto che gli innamorati usano baciarsi sotto il vischio in segno beneaugurale.

 

 

L’agrifoglio, per i Celti d’Irlanda, si legava al Solstizio poichè le ghirlande che venivano realizzate con questa pianta erano un’emblema della ruota dell’anno. Nell’ “isola di smeraldo”, a Natale, vige tuttora l’usanza di decorare le case con molteplici ghirlande di agrifoglio; la tradizione vuole che si rompano e si lancino all’esterno della casa dopo le feste per rappresentare il termine delle tenebre e la rinascita della luce.

 

 

Auguro un Buon Solstizio d’Inverno a tutti e mi raccomando, non dimenticate di accendere molte candele in casa: la fiamma che balugina nel buio è un omaggio alla luce che rinasce, a poco a poco, nell’oscurità.

 

 

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