Dopo la magica notte di San Giovanni, tutto l’incanto della Superluna di Fragola

 

Dopo lo spettacolo delle superlune e del Solstizio, i meravigliosi eventi che ci regala il cosmo non accennano a diminuire. Ecco quindi che alla notte di San Giovanni, la più magica dei mesi caldi, seguirà un nuovo plenilunio mozzafiato: la Superluna di Fragola  è imperdibile per una serie di motivi. In primo luogo, sarà la prima luna piena dell’ estate e l’ ultima superluna dell’ anno. Pur non essendo un’ autentica superluna, poi, dato che il plenilunio apparirà diverse ore dopo dal suo perigeo, si presenterà grande e luminosa, una visione d’ incanto nel cielo di Giugno. Non raggiungerà, certo, le dimensioni della Superluna di Sangue dello scorso Maggio, posizionata alla minima distanza dalla Terra anche rispetto alle altre Superlune del 2021, ma sarà molto piacevole osservarla e godere del suo chiarore. La fase di perigeo della Luna di Fragola si è verificata ieri. Stasera, il plenilunio sarà visibile dalle 20.40 in avanti e potremo ammirarlo addirittura fino a sabato mattina. Ma perchè viene chiamata Luna di Fragola? In realtà, non è l’unico nome con cui è stata battezzata. Nel Nord America la appellarono così le tribù che vivevano tra gli Stati Uniti e il Canada, dato che coincideva con lo spuntare delle prime fragole. Gli europei, prima che questi frutti venissero importati dall’ America, le avevano dato il nome di Luna Rosa, ispirandosi alla “regina dei fiori” che a Giugno conosce il suo massimo splendore. Tra le tante denominazioni spicca quella di Luna di Miele: viene subito in mente il viaggio di nozze, e non a caso. Forse, dal momento che il mese di Maggio inaugura la stagione dei matrimoni, ci si ricollegava al classico viaggio che gli sposi effettuano dopo il sì. Stasera, dunque, occhi puntati verso il cielo per vedere la splendida Superluna di Fragola (potete ammirarla anche on line nei vari siti di astronomia). Ma intanto, spazio alle tradizioni più suggestive del 24 Giugno  come la classica  “acqua di San Giovanni”, una bacinella in cui diverse specie di erbe e fiori sono state messe a bagno ed esposte alla rugiada della fatata notte appena trascorsa. Di mattina, si usava lavarsi con quest’ acqua dalle virtù miracolose; in particolare, veniva utilizzata per difendersi dalla sfortuna, dalle energie negative e dalle malattie. Tra meraviglie cosmiche e antiche tradizioni, insomma, un fatto è certo: si preannuncia una giornata ad alto tasso di suggestività.

 

 

 

 

 

Calendimaggio, un’ode a Flora e a Dioniso

Sir Lawrence Alma-Tadema, “Spring” (1894), particolare

Il 1 Maggio, oltre che Festa del Lavoro, è anche Calendimaggio. Ne parlo con due giorni di ritardo, ma non importa: l’ incanto che circonda questa ricorrenza rimane intatto. Con il Calendimaggio, gli antichi popoli festeggiavano la Primavera ormai giunta al suo apice. Il nome deriva da “calende”, ossia il primo giorno del mese (calcolato in base alla luna nuova) del calendario romano. Durante le “calende” di Maggio si celebrava Flora, la dea della fioritura, e venivano compiuti numerosi rituali. Uno di questi vedeva protagonisti gli alberi, emblemi della natura e della sua fertilità ritrovata, associati alla prosperità immancabilmente: la tradizione voleva che i giovani uomini, la notte del 30 Aprile, si inoltrassero nei boschi per procurarsi rami fioriti o interi arbusti.

John William Waterhouse, “Flora and the Zephyrs” (1897), particolare

Li avrebbero posti davanti alle finestre o ai portoni delle fanciulle a mò di rito di corteggiamento. Ma gli alberi venivano trapiantati nei luoghi più disparati, come le piazze, i cortili, addirittura accanto alle abitazioni delle personalità del villaggio. Probabilmente questi riti si ricollegavano all’ “albero cosmico” su cui per nove giorni e nove notti si rifugiò Odino, la massima divinità della mitologia norrena, prima che apprendesse la potente simbologia delle rune celtiche. Tra le usanze più famose e amate, tuttora diffusa in molte zone d’ Italia, c’è poi quella dei Canti del Maggio: il primo giorno del mese (o la notte precedente), i “maggianti”, anche detti “maggerini”, si recano di casa in casa – o percorrono le vie dei borghi, soprattutto in tempi di Covid – cantando versi gioiosi e pieni di brio intrisi di termini dialettali. Si tratta perlopiù di stornelli, accompagnati da chitarre, tamburelli e violini, che inneggiano al risveglio della natura e al ritorno di Dioniso (originariamente, il dio della vegetazione). In onore all’ allegria che sprigionano questi canti, i maggianti ricevono omaggi enogastronomici: un bicchiere di buon vino, una fetta di dolce, delle uova, uno spuntino…Simili soste consentono di osservare da vicino gli ornamenti a base di rose, viole, foglie di ontano e maggiociondolo sfoggiati dai maggerini, tutti fiori e piante tipici del mese appena iniziato e ricorrenti nel Cantamaggio. Che questa tradizione sia connotata da una forte valenza propiziatoria è ovvio, e anche qui risiede il suo fascino; non è un caso che affondi le radici presso popoli che attribuivano valori ben precisi alla ciclicità della natura: in particolare i Celti, affiancati dagli abitanti dell’ antica Etruria e dai Liguri.

Charles Daniel Ward, “The Progress of Spring” (1905), particolare

Per concludere, cari lettori di VALIUM: è Maggio, uno dei mesi più belli dell’ anno. La Primavera è esplosa in pieno e l’ Estate, con la sua afa, è ancora lontana. Mi piace pensare ai 28 giorni che ci aspettano immaginando di avventurarmi, rigorosamente al tramonto, lungo un sentiero fiancheggiato da cespugli di rose…

La colazione di oggi: l’uovo, tra benefici e simbolismi primordiali

 

A pochi giorni da Pasqua, non si può prescindere dal mangiare uova: che siano di cioccolato, bollite, convertite in glassa o presenti nell’ impasto di deliziosi dolci tipici, il loro appeal rimane invariato. Ma sapevate che proprio all’ uovo sono associati innumerevoli, e soprattutto antichissimi, significati simbolici? Da sempre emblema di rinascita, l’uovo era un auspicio di fecondità. Rappresentava la potenza generatrice ed incarnava l’ archetipo della Creazione. Non sono pochi i popoli che, molti millenni orsono, credevano che avesse dato origine all’ Universo: il motto “Omne Vivum ex Ovo” (“ogni essere vivente proviene da un uovo”) ribadisce e rinforza questa teoria. La forma dell’uovo non contiene spigoli, perciò rimandava alla perfezione; in più, il tuorlo (giallo come il sole, dunque vessillo di energia e di vigore) veniva collegato al “maschile”, mentre l’ albume (bianco come la luna e dalla consistenza che richiama il liquido amniotico) si associava al “femminile”. L’ unione tra maschile e femminile era inevitabilmente connessa al concetto di procreazione. Nacque così il mito dell’ Uovo Cosmico, generatore di vita per un gran numero di civilità remotissime. A Creta e nella Caldea, su piedistalli appositi posti nelle tombe, si usava posare uova di struzzo come augurio di rinascita. Per il Taoismo l’ uovo è a tutt’oggi il Grande Uno, l’ embrione primordiale, e un significato simile gli conferivano anche le Bahyrivha Upanisad, dei testi indiani a carattere mistico-filosofico dove veniva definito “Embrione d’Oro”. Il Buddhismo lo identifica con l’ Anno, emblema del Tempo Cosmico, mentre nella mitologia giapponese cielo e terra (Izanagi e Izanami) erano uniti in un grande uovo al cui centro risiedeva un germe che originava la vita. Risale invece all’ antica tradizione alchemica il paragone con il mito della Fenice che, ciclicamente, risorgeva dall’ uovo sorto dalle sue ceneri. Gli alchimisti vedevano nella struttura dell’ uovo una rappresentazione dei quattro elementi (terra, acqua, aria e fuoco), e proprio la schiusa di questo embrione corrispondeva alla nuova dimensione – spirituale ed iniziatica – dell’uomo.

 

 

Anche il Cristianesimo affidò all’ uovo il significato simbolico di “principio di vita”, ricollegandolo alla festività della Resurrezione. L’ uovo, di conseguenza, a Pasqua assume un ruolo centrale. Non è un caso che in alcune località italiane viga l’usanza di benedire le uova durante la messa,  prima di consumarle tutti insieme sul sagrato. Preparato in svariati modi o nella classica versione in cioccolato, l’uovo rientra tra le tradizioni più celebri della domenica di Pasqua. La consuetudine di scambiarsi e regalarsi uova ha radici molto lontane nel tempo; la ritroviamo tra i popoli della Persia, dell’ Egitto e della Grecia antica, dove venivano donate per festeggiare la rinascita primaverile. Con il Cristianesimo, la simbologia pagana che lo associava al risveglio della natura fu soppiantata e l’uovo passò ad emblematizzare la resurrezione di Cristo, la sua transizione dalla morte alla vita. Ma quali sono le  proprietà dell’ uovo dal punto di vista nutrizionale? Potremmo dire che è un alimento pressochè “completo”. Ricco di proteine e di elementi nutritivi, contiene un’ alta quantità di vitamine e minerali: alla vitamina A, E, B6, B12 e D, un toccasana per le ossa, si uniscono il ferro, il potassio, il calcio e il fosforo. Le proteine dell’ uovo immagazzinano l’ intera gamma degli amminoacidi essenziali per l’uomo; sono racchiuse nell’ albume, mentre le vitamine vengono custodite nel tuorlo. Qualunque sia l’uovo che deciderete di gustare a Pasqua, comunque, penso che sia importante tener sempre presente l’ affascinante, suggestiva storia connessa alla sua simbologia primordiale.

 

 

 

La festa di Santa Lucia in Svezia: il trionfo della luce sul profondo buio del Nord

 

In Svezia, prima dell’ avvento del calendario gregoriano, la festa di Santa Lucia coincideva con il Solstizio d’Inverno: era una ricorrenza significativa, che preannunciava il trionfo della luce sul buio imperante. Ma se le celebrazioni furono anticipate al 13 Dicembre, la loro valenza è rimasta inviariata. L’ oscuro e interminabile inverno scandinavo, quella notte, viene squarciato da un tripudio di bagliori. Una giovane donna che impersona Santa Lucia, sfoggiando una corona di candele fiammeggianti, capeggia una processione composta da un gruppo di sue coetanee. Indossano tutte un abito bianco stretto in vita da una fascia rossa, ognuna regge in mano una candela accesa. L’ effetto che sortisce la parata è irresistibile, altamente suggestivo: miriadi di fiammelle baluginano nel buio e i dolci canti delle donne trasportano in un’ atmosfera incantata. La canzone trainante è “Santa Lucia”, l’ antico brano (risale al 1849) scritto a Napoli da Teodoro Cottrau, ma il testo è differente, incentrato sulla vittoria della luce sulle tenebre invernali. Man mano che la processione avanza, il magnetismo che  sprigiona raggiunge il suo apice. Si rimane letteralmente ipnotizzati da quella visione magica, da quel connubio onirico di cori e luci che invade ogni città della Svezia. A Stoccolma la processione attraversa la metropoli fino a raggiungere lo Skansen, il museo all’ aperto, mentre nel Duomo, nello Storkyrkan e nelle chiese del Gamla Stan (la città vecchia) si tengono concerti di Santa Lucia da mattino a sera.

 

 

Ogni particolare della sfilata possiede una forte valenza emblematica: l’abito bianco simboleggia la purezza di Santa Lucia, la fascia rossa il sangue del suo martirio, le candele il fuoco che si rifiutò di divorarla con le sue fiamme, quando fu condannata al rogo. Le stesse candele, tuttavia, rimandano a significati molteplici e sono anche una metafora della luce che sconfigge il buio. Secondo la tradizione svedese, la Santa viaggiava di città in città regalando leccornie ai bimbi. Un’ usanza che non si è persa, a giudicare dalle celebrazioni che hanno preso piede nel 1927: da allora in poi, si è sempre fatto riferimento a queste ultime. Proprio quell’ anno ebbe inizio la consuetudine di eleggere una “Lucia” in ogni centro urbano e una “Lucia” nazionale, selezionata oggi tramite la TV di Stato. Le giovani donne scelte, durante le processioni del 13 Dicembre,  visitano svariati luoghi (piazze, teatri, ospedali, centri commerciali, residenze per anziani, chiese e via dicendo) distribuendo i tipici dolcetti allo zenzero – i Pepparkakor – e intonando i canti tradizionali del Luciadagen.

 

 

Le parate non sono ad appannaggio esclusivo del gentil sesso: anche i ragazzi partecipano, interpretando vari ruoli. Ci sono gli stjärngossar (ragazzi stella), che indossano un cappello conico adornato di stelle color oro, i tomtenissar (gli elfi di Babbo Natale), che illuminano il cammino con le loro lanterne, altri ancora indossano costumi che li tramutano in omini al pan di zenzero viventi.  Ai cori di Sankta Lucia, i “maschietti” alternano canzoni imperniate sulla storia di Santo Stefano (il primo martire cristiano). Ma quando e come nascono, queste tradizioni? Alcuni le fanno risalire ad un’ antica usanza in vigore presso le famiglie protestanti tedesche: il rito del Christkind prevedeva che i doni di Natale venissero distribuiti da eteree donne-angelo. Nel 1700, tra le classi abbienti svedesi cominciò ad imporsi  il Kinken Jesus, probabilmente un’evoluzione di quella consuetudine; la vigilia di Natale, ragazze con il capo incoronato di candele visitavano le case e donavano dolcetti ai più piccoli. Altri studi individuano l’ origine delle celebrazioni di Santa Lucia nei Cantori della Stella, un’ antichissima tradizione svedese: a Natale e nei giorni dell’ Avvento, giovani angeli biancovestiti si esibivano in gorgheggi natalizi nel corso di svariati eventi. Donne in candide vesti e con corone di candele pare che abbiano fatto la loro apparizione, a Santa Lucia, nei dintorni del lago di Vänern alla fine del ‘700. Un secolo dopo, questa usanza si diffuse in molteplici zone della Svezia.

 

 

I festeggiamenti di Santa Lucia, nelle “lande delle nevi” scandinave,  continuano ad esercitare un fascino immenso. La tradizione della Santa che reca in dono luce e bonbon viene perpetrata anche in famiglia, dove la figlia maggiore è solita dare il buongiorno ai propri cari con caffè e dolci caratteristici indossando un abito bianco, una sciarpa rossa e una corona di candele. A proposito di tipicità dolciarie, non si può tralasciare di citare i Lussekatter: queste deliziose focaccine a forma di “S” esaltano il gusto delle uvette e dello zafferano e si accompagnano alla perfezione con del buon Glögg caldo, un vino speziato che ricorda il nostro vin brulé.

 

 

 

 

 

 

 

Foto della processione di Fredrik Magnusson, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, via Wikimedia Commons

 

 

“To my Valentine”, il rito più romantico di San Valentino

 

La parata di vintage card che VALIUM ha pubblicato a Natale (clicca qui per rivederla), merita un sequel in occasione di San Valentino. Eh già: la tradizione tutta anglosassone delle “Valentine” annovera card magnifiche, davvero troppo belle per essere trascurate. Inviarne una all’ amato (o all’ amata) rappresenta tuttora un must del San Valentino negli USA e nel Regno Unito. Ma com’è nata questa usanza? Pare che abbia origini antichissime, addirittura risalenti alla Guerra dei Cent’Anni. Si dice che nel 1415, dopo la battaglia di Azincourt, Charles d’Orléans inviò un romanticissimo biglietto alla consorte mentre era prigioniero nella Torre di Londra. Oggi, quella cartolina viene considerata il prototipo delle Valentine ed è stata addirittura esposta al British Museum. Il duca d’ Orléans introdusse inconsapevolmente un rito che ha attraversato i secoli con il suo alone di profonda poesia. Le cartoline di San Valentino, nel 1500, erano ormai una tradizione consolidata, ma fu durante l’ epoca vittoriana che conobbero un vero e proprio boom.

 

 

In quel periodo in Inghilterra fu introdotto il Penny Post, una spedizione al costo di un Penny per l’ invio della corrispondenza. La nuova tariffa, decisamente economica, incrementò l’ usanza degli Auguri del 14 Febbraio in modo esponenziale. La grafica delle cartoline divenne sempre più ricca: carta intagliata a effetto pizzo, fotografie ritoccate, rebus e acrostici proliferavano, alternando la tenerezza agli enigmi incentrati sul nome della persona amata. Ad essere raffigurati erano soprattutto Cupido e dolci angioletti affiancati da fiori, cuori, colombe, ghirlande floreali….tutti rispondenti a un simbolismo ben preciso. Gli angeli fungono da trait d’union con il divino, mentre il linguaggio dei fiori lancia messaggi inequivocabili. La colomba è un emblema di amore puro, impersonato anche dai bambini frequentemente riprodotti sulle card. E se la rosa rossa  rappresenta la passione, è tutto fuorchè carnale il sentimento che celebrano le cartoline. La ricorrenza di San Valentino viene associata all’ amore autentico, eterno: la freccia di Cupido punta dritta al cuore e lo fa suo per sempre.

 

 

Negli Stati Uniti le Valentine si diffusero intorno al 1800, e con l’artista Esther Howland raggiunsero l’apice dell’ estro illustrativo: le card che creava erano adornate di nastri, di merletti, non di rado anche di foglie e petali. Alla raffinatezza delle sue opere si contrapponevano elaborati esemplari che spaziavano tra il pop up e il 3D. Nei primi anni del ‘900, la Norcross si impose come azienda leader nella produzione di Valentine, un dato indicativo ai fini di rilevare quanto fosse radicata questa tradizione. Attualmente, come ben sappiamo, gli auguri di San Valentino vengono inviati soprattutto via smartphone, con le app di messaggistica. Il che mi ispira una considerazione: dovremmo ripristinare il rito delle Valentine. E’ di gran lunga più poetico, ma non solo. Oltre che le coppie, di questo “ritorno al cartaceo” potranno beneficiare i single. Che cosa c’è di più romantico, infatti, che rivelare i nostri sentimenti per iscritto – e tramite un gesto vagamente d’antan – a chi vorremmo come partner? Se siamo sulla stessa lunghezza d’onda, il prossimo San Valentino lo passeremo in coppia. Garantito!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Una Valentine di Esther Howland

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Foto, dal basso verso l’alto.

N. 2 via Joe Haupt from Flickr, CC BY 2.0

N. 18 via Joe Haupt from Flickr, CC BY-SA 2.0

N.5  via Dave from Flickr, CC BY-ND 2.0

N. 17  via Peter -J – Pann from Flickr, CC BY 2.0

N. 11 via National Library of Norway [No restrictions]

N. 13 via Dave from Flickr, CC BY-ND 2.0

N. 12 via Peter-J-Pann from Flickr, CC BY 2.0

 

 

Merry Vintage Christmas

 

Natale non è Natale, senza un tocco vintage. La stessa iconografia di questa festa rimanda ad un passato divenuto mitico: il focolare acceso, Babbo Natale e la sua slitta di renne, le fiabe lette davanti al camino…quell’ atmosfera magica che tra luci, addobbi e pacchi regalo trasporta in una dimensione dove realtà e fantasia si intrecciano e le tradizioni si fondono con leggende che, in questo periodo, potrebbero persino risultare veritiere. Oggi, tra social e tecnologia padroneggiata a menadito, i bambini subiscono sempre di meno la fascinazione del Natale. Lo spirito a cui si associava un tempo, intriso di meraviglia e di stupore, però non è andato perso: lo testimoniano le cartoline di auguri d’antan ormai tramutatesi in preziosi oggetti da collezione. La prima ad uso commerciale apparve nel 1843, quando il businessman inglese Henry Cole commissionò ad un disegnatore 1000 Christmas Card da far stampare e da inviare ai propri cari.

 

 

Fu proprio durante l’età vittoriana che le cartoline natalizie conobbero un vero e proprio boom, propagatosi ulteriormente con lo sviluppo dell’ industrializzazione. All’ epoca soggetti come Babbo Natale, gli angeli, l’albero di Natale, i paesaggi innevati e soprattutto un’ infanzia felice, unita nell’ incantata attesa della vigilia, predominano, ma le illustrazioni variano anche a seconda delle tradizioni locali. Nel mondo anglossasone, dove i cardini delle festività natalizie si intersecano più marcatamente con la leggenda, prevalgono immagini e personaggi fantasiosi, come usciti da una fiaba. Ma in generale la gioia, la sorpresa e un pizzico di enigmaticità, probabilmente scaturita dal mistero che aleggia sul Natale, la fanno da padrone. Nella seconda metà dell’ Ottocento, la voga delle Christmas Card approda oltreoceano e spedire i propri auguri diventa un must al punto tale che i postini faticano a recapitare la copiosa corrispondenza. La Germania detiene allora la supremazia nella produzione di cartoline natalizie, che esporta negli States in quantità industriali. Solo nel 1915, con l’avvento sul mercato della Hallmark, le Christmas Card diventano una realtà in tutto e per tutto Made in USA.

 

 

Oltre un secolo dopo, il panorama degli auguri natalizi è completamente cambiato. L’ era di Internet e delle comunicazioni via e-mail o messaggistica, tuttavia, non ha relegato nel dimenticatoio le cartoline: saranno antichi reperti, testimonianze di un’ epoca ormai lontana, però non cesseranno mai di affascinare. Perchè possiedono lo straordinario atout di rappresentare la quintessenza del Natale, ovvero quel mood, quello stato d’animo che poco ha a che fare con la tecnologia ma molto, moltissimo, con la fiaba.

 

 

 

Cartoline, dall’ alto verso il basso: eccetto le nn. 3, 7, 8, 9, 11, 14, 16, 18, 22, tutte via Dave from Flickr, CC BY-ND 2.0

Cartolina n. 17 via Rawpixel from Flickr, CC BY 2.0

 

La magia immutabile della notte di San Giovanni

 

La notte di San Giovanni, tra il 23 e il 24 Giugno, è intrisa di simbologia esoterica e di magiche rivelazioni. Nella mia città – Fabriano – precede i festeggiamenti per il Santo Patrono (San Giovanni Battista, appunto), e forse anche per questo le ho sempre dedicato svariati post. Ma il profondo fascino che questa notte esercita, in ogni caso, rimane innegabile. Secoli orsono, la ricorrenza di San Giovanni fu fissata al 24 Giugno con il probabile scopo di sovrapporre le celebrazioni cattoliche in onore del Santo ai rituali pagani per il Solstizio d’Estate. Tradizioni comuni, credenze condivise da tutte le più antiche civiltà europee, hanno consacrato la notte di San Giovanni alle virtù propiziatorie e alla divinazione. Astrologicamente, l’ ingresso del sole nel segno del Cancro – segno d’acqua dominato dalla luna – sancisce l’ unione tra fuoco e acqua, tra maschile e femminile, tra luce e ombra: un connubio da cui non possono che scaturire energie benefiche, originate da una complementarietà che diviene principio vitale per eccellenza. Ripercorrere le usanze associate a questa notte fatata ci avvolge ogni volta in un turbinio di fascinazioni, perchè è proprio il loro incanto che contribuisce a rendere unico, caratteristico e del tutto suggestivo il nostro patrimonio ancestrale.

 

Gli antichi Celti usavano accendere grandi falò in cima alle colline e far rotolare ruote infuocate lungo i loro pendii. Il fuoco ha una valenza purificatrice e beneaugurante sin da tempi remotissimi: anche far transitare il bestiame tra due falò e scavalcare le fiamme saltando mentre si esprime un desiderio viene considerato di buon auspicio. Il fuoco, inoltre, ha la facoltà di allontanare le malattie e gli spiriti maligni. Non sorprende che la tradizione dei falò rimanga quindi una delle più diffuse in tutta Europa.

Si attribuiscono proprietà prodigiose alla rugiada, alla guazza che si stende sui prati, tanto che un’usanza vuole che una donna desiderosa di diventare madre si rotoli o si stenda, nuda, tra l’erba bagnata.

Ad alcune erbe sono attribuiti poteri incantati e vengono utilizzate con funzioni guaritrici, propiziatorie o per proteggersi dai malefici.

L’iperico – o erba di San Giovanni– è pianta “del  Solstizio” per eccellenza: anticamente, i viandanti erano soliti percorrere i loro tragitti nascondendone un mazzetto sotto la giacca per proteggersi dalle entità malefiche. Altre piante, invece, come la ruta, la verbena, il vischio, la lavanda, il timo, il finocchio, la piantaggine e l’artemisia, venivano bruciate nei falò del Solstizio per attirare buoni auspici.

Le erbe, insieme ai petali dei fiori (su tutti, quello della ginestra), costituiscono gli ingredienti fondamentali dell’ acqua di San Giovanni, una delle tradizioni più antiche sviluppatesi nel fabrianese: immerse in una bacinella piena d’acqua durante la notte, venivano utilizzate per lavarsi la mattina seguente ritenendo che rinvigorisse la pelle e l’ organismo.

Anche il noce, albero magico per le streghe che lo attorniavano appena calavano le tenebre del 23 giugno, ricopre un ruolo particolare: dalle noci raccolte nottetempo, infatti, si ricava il  Nocino, un liquore i cui eccipienti includono un mix di cannella, alcool, chiodi di garofano, acqua e zucchero.

Tra le pratiche divinatorie a cui maggiormente si ricorreva rientrano, nel territorio della “città della carta”, quella di predire il futuro tramite la forma assunta dal bianco di un uovo versato in un bicchiere e poi esposto alla rugiada notturna. In particolare, la “divinazione dell’uovo” dava indicazioni sul futuro sposo alle ragazze in età da marito.

 

 

 

Feria de Abril

DOLCE & GABBANA

Quest’ anno, nonostante il nome, cadrà di Maggio: ma la sua suggestività non verrà certo meno. La Feria de Abril di Siviglia, che ha inizio la seconda domenica successiva a Pasqua, è una scoppiettante festa in cui la cultura flamenca regna sovrana. Per una settimana (nel 2019, dal 4 all’ 11 Maggio), nella città dell’ Alcazar sarà un tripudio di “jinetes” (cavalieri) che indossano il tipico cappello “cordobés”, “tablao” animati da “bailaoras” in lunghi abiti a balze tempestati di pois, luci disseminate in tutto il recinto – il “Real” – che delimita la Feria. Il ritmo delle nacchere cadenzerà la melodia delle “sevillanas”, colonna sonora non stop di celebrazioni all’ insegna delle più antiche tradizioni andaluse: la prima notte di festa verrete travolti dal delizioso odore del “pescaito” (pesce fritto), che nelle “casetas” si è soliti offrire insieme alle prelibatezze gastronomiche locali. Ai pregiati vini di Jerez de la Frontera e di Sanlùcar de Barrameda si alternerà il frizzante aroma del “rebujito”, cocktail per eccellenza della Feria de Abril, e tutto intorno saranno suoni, balli e canti che intrecciano la loro storia con il “duende” gitano, la quintessenza del flamenco. In omaggio alla Feria de Abril, VALIUM seleziona cinque outfit che sembrano inneggiare al suo mood: alternano un’ impronta gipsy alla spettacolarità del caratteristico “traje”, e vibrano di suggestioni ataviche, viscerali, dal fascino potente. Sprigionando una passionalità che racchiude lo spirito stesso del “duende”.

 

CAROLINA HERRERA

CARMEN MARCH

PACO RABANNE

RODARTE

 

 

 

Ritratto del Brasile

Un nuovo progetto editoriale direttamente dal Brasile, curato dal Creative Director Pier Fioraso e scattato dal fotografo Andre Costa, svela in una serie di immagini evocative le proposte più calde tra calzini, boxer e mantyhose della collezione Uomo Cult Edition di Emilio Cavallini. La calza si fa alleato must. Mixando sapientemente gli elementi sporty ai più iconici motivi, si declina in una vera e propria esaltazione della fisicità: il complemento ideale di una daily life che ai ritmi convulsi contrappone istanti di magia inebriante.

I capi Cavallini, i paesaggi mozzafiato brasiliani e la plasticità scultorea dei corpi dei modelli sono gli elementi base di un racconto che crea tra testo e foto una sintonia perfetta: VALIUM lo propone in una “long version” inedita.

L’ ARTE DELLA CAPOEIRA

Flessuosità, leggerezza, potenza: tre elementi che si intersecano al ritmo  dei tamburi di antichi riti tribali. Il corpo è uno strumento nella Capoeira, arte marziale brasiliana le cui origini sprofondano nei secoli. Gesti che sfidano senza perdere la grazia, giocatori che si fronteggiano senza mai sfiorarsi, virtuosismi acrobatici tra cielo e terra…Intrisa di una forza magica, la Capoeira tramuta la lotta in danza e affida i suoi passi a Ogun, il dio Orisha della guerra.

 

I corpi volteggiano, le percussioni impazzano. Atletici ma armoniosi, i “capoeiristas” si lanciano in piroette, improvvisano capriole in aria: un inno alla libertà sullo scenario torrido di un Brasile che alterna spiagge candide e foreste sterminate.

AMICI-RIVALI

L’ agilità si tramuta in dote irrinunciabile, punto di forza di un duello privo di armi che si ispira alle movenze ferine di difesa e attacco. Alla base, un allenamento quotidiano per rassodare i muscoli e una squisita abilità nel padroneggiare la ginga, matrice ed esito di tutti i movimenti.

BRAZILIFICATION DEL CORPO

E’ nelle gambe che si concentra la forza massima. L’ intero corpo si scolpisce per generare energia, ma catapultarsi nella roda (il cerchio umano che circoscrive le esibizioni) richiede una vera e propria attitude artistica. Il capoeirista fa della gestualità poesia, fonde lo spirito al suo involucro esterno in un fluire inarrestabile di evoluzioni.

 

EQUILIBRIUM

L’ equilibrio è una costante: condizione imprescindibile per donare ritmo alla lotta e concrete basi alla coordinazione. Dall’ equilibrio si origina lo swing, un mix perfettamente calibrato di movimento, creatività e tensione. E l’orizzonte della mente si fa sconfinato, mentre l’ intuito si affina con l’ incalzante sottofondo del berimbau.

“Svuota la tua mente. Sii senza forma. Senza limiti…”

Il Brasile, l’ oceano. Le onde che, con il loro andirivieni, cadenzano i giorni e le stagioni. Gli spazi immensi di quel mare che un tempo ha unito la terra carioca e l’ Africa, con i suoi rituali. Proprio come l’ acqua il capoeirista ha movimenti fluidi, privi da ogni vincolo ingombrante. Il suo è innanzitutto uno “state of mind”.

ALLA RICERCA DELLA LIBERTA’

Coreografie acrobatiche e una perfetta sintonia tra corpo e mente: tutto questo è la Capoeira, ode suprema all’ emancipazione umana. Fondali assolati, atmosfere incandescenti, un’indolenza sensuale che sfocia in un tripudio di gioia e di vigore. E’ il mood “do Brasil” nella quintessenza, un’ esplosiva  dichiarazione di esistenza in vita. L’ esplorazione delle infinite potenzialità che il connubio tra le good vibes dell’ Aché, lo spirito e l’ espressione corporea preziosamente racchiude.

Credits:

Photographer: Andre Costa
Creative Director: Pier Fioraso
Editor: Silvia Ragni
Fashion Assistant: Elaine Fioraso
Models: Alex Calado, Gil Tatzu

Location: Boa Viagem, Recife – Brasil

Per la collezione completa e altre proposte: www.emiliocavallini.com

Hanami

 

“Cadono i fiori di ciliegio sugli specchi d’acqua della risaia: stelle, al chiarore di una notte senza luna.”

(Yosa Buson)

Sono molteplici, gli haiku giapponesi che celebrano i fiori di ciliegio: il sakura, fiore nazionale, è protagonista dell’ evento più caratteristico, più spettacolare della cultura e della tradizione nipponica. Narra un’antica leggenda che, in origine bianchi, i petali di ciliegio fossero divenuti rosa dopo che un imperatore ordinò che sotto le loro fronde fiorite venissero seppelliti dei valorosi Samurai caduti in battaglia. Da allora, dopo che gli alberi ne ebbero assorbito il sangue, la loro tonalità cambiò per sempre e furono assunti a simbolo dello splendore e della caducità dell’esistenza. Il ciliegio, che al momento della fioritura espande i suoi petali creando impalpabili nuvole rosa, esprime in quel preciso istante tutta la sua meraviglia: una meraviglia di breve durata, legata ad un’ intensa ma fragile, effimera bellezza. Esattamente come la vita è un dono magnifico ma precario, destinato ad appassire, senza facoltà alcuna di mantenere la sua sfolgorante grazia. In tutto il Giappone l’ Hanami, dal significato letterale di ‘guardare i fiori’, è un fenomeno che viene accuratamente pianificato durante il corso dell’ anno: già alla fine dell’ inverno, l’avanzamento dello sbocciare dei fiori e gli aggiornamenti sulla fioritura vengono seguiti con attenzione ed estremo interesse dalla popolazione, costantemente mantenuta updated da notiziari e tg.

 

 

La Primavera rappresenta il culmine di questa fibrillazione: al fiorire dei ciliegi, in aprile, la tradizione vuole che i giapponesi srotolino lunghe stuoie azzurre sotto gli alberi fioriti e che, sotto la splendida ‘tettoia’ di corolle, si dedichino a un relax conviviale che include il sorseggiare sakè, la conversazione, la contemplazione della natura e l’assaggio di delizie quali il sakura mochi, dolcetti a base di riso tinti prevalentemente di bianco e rosa. La notte diviene un momento ancora più magico, grazie alla luce soffusa delle lanterne di carta e al bagliore lunare: propizia il romanticismo e il ritrovo degli innamorati. Momenti di assoluto incanto che godono, nell hic et nunc, della magnificenza floreale senza pensare al prossimo futuro, alle giornate in cui i petali si staccheranno poco a poco dai rami lasciando svanire l’affascinante malia dell’ Hanami. Un fenomeno naturale, visto con serenità se pensiamo che, nell’ ottica dei kamikaze, persino il suicidio viene paragonato alla caduca grazia dei fiori di ciliegio: “Se solo potessimo cadere come fiori di ciliegio in primavera, così puri, cosi luminosi” recita l’ haiku di un soldato ventiduenne. Un concetto che ribadisce, in sè, tutta l’assoluta poesia racchiusa tra i petali di quello che Yukio Mishima definisce “Il fiore per eccellenza.”