New York ai miei piedi

 

“In teoria, avrei dovuto essere l’invidia di migliaia di ragazze come me di tutti i college d’America, le quali avrebbero dato chissà che cosa per trovarsi nei miei panni, anzi nelle scarpe di vernice numero sette che mi ero comprata da Bloodmingale’s nell’intervallo del pranzo, insieme a una cintura di vernice nera e a una pochette coordinata. E quando avessero visto la mia foto, sulla rivista per la quale noi dodici lavoravamo – bicchiere di Martini in mano, un corpino ridottissimo di lamè imitazione argento che spuntava da una gran nuvola di tulle bianco, su qualche terrazza sotto le stelle, circondata da un assortimento di anonimi giovanotti dalla struttura ossea americana al cento per cento, ingaggiati o presi in prestito per l’occasione – tutti avrebbero pensato: caspita, che vortice di mondanità. Lo vedi che cosa può succedere in America, avrebbero detto. Una ragazza vive per diciannove anni in un paesello sperduto, senza nemmeno i soldi per comprarsi una rivista, poi ottiene una borsa di studio per il college, vince un premio, poi un altro e finisce che ha New York ai suoi piedi, come se fosse la padrona della città. Peccato che io non ero padrona di niente, nemmeno di me stessa. Non facevo che trottare dall’albergo al lavoro ai ricevimenti e dai ricevimenti all’albergo e di nuovo al lavoro come uno stupido filobus. Sì, credo che avrei dovuto trovarla un’esperienza eccitante, come facevano quasi tutte le mie compagne, ma non riuscivo a provare niente. Mi sentivo inerte e vuota come deve sentirsi l’occhio del ciclone: in mezzo al vortice, ma trainata passivamente. Eravamo dodici in albergo. Tutte quante, con articoli, racconti, versi o pezzi pubblicitari, avevamo vinto il concorso organizzato da una rivista di moda il cui premio consisteva in un mese di praticantato a New York, completamente spesate, con in più montagne di buoni acquisto, biglietti per il balletto, inviti a sfilate di moda, sedute gratis da un famoso e costosissimo parrucchiere, occasioni per incontrare gente che aveva sfondato nel campo dei nostri sogni, nonchè lezioni di trucco personalizzate. (…) Io, a diciannove anni, non avevo mai messo il naso fuori dal New England, a parte quel mese a New York. Era la mia prima grande occasione e io cosa facevo? Stavo a guardare, lasciando che mi sfuggisse tra le dita come acqua. “

Sylvia Plath, da “La campana di vetro” (Mondadori, Oscar Moderni, traduzione di Anna Ravano)