Libertà

 

“Quando rientrai a Parigi nel settembre 1929 la cosa che subito m’inebriò fu la mia libertà. L’avevo sognata fin dall’infanzia, quando con mia sorella giocavo a fare “la ragazza grande”. Ho già descritto con quale passione l’avessi invocata da studentessa. E d’un tratto, ecco che la possedevo; ad ogni gesto che compivo mi meravigliavo della mia leggerezza. La mattina, appena aprivo gli occhi, mi sentivo stordita di felicità. (…) Pagavo una pigione alla nonna, e lei mi trattava con la stessa discrezione delle altre pensionanti; nessuno controllava le mie entrate e le mie uscite. Potevo rientrare all’alba o leggere a letto per tutta la notte, dormire in pieno mezzogiorno, restarmene murata per ventiquattr’ore di seguito, scendere improvvisamente in strada. Facevo colazione con un bortsch da Dominique, pranzavo alla Coupole con una tazza di cioccolata. Mi piacevano il cioccolato, il bortsch, le lunghe sieste e le notti di veglia, ma soprattutto mi piaceva vivere a mio capriccio. Non c’era quasi nulla che me lo impedisse. Constatavo con gioia che il “serio dell’esistenza” di cui gli adulti mi avevano intronato le orecchie, in realtà non era un peso troppo greve. Dare i miei esami, certo non era stato uno scherzo; avevo duramente penato, avevo avuto paura di non farcela, avevo cozzato contro ostacoli, stancandomi. Adesso non incontravo resistenze da nessuna parte, mi sentivo in vacanza, e per sempre. Qualche lezione privata, e un incarico al Liceo Victor Duruy, mi assicuravano il pane quotidiano; questi lavori non mi davano alcuna noia, poichè, eseguendoli, mi sembrava di dedicarmi a un gioco nuovo: giocavo alla persona adulta. Darmi d’attorno per trovare delle lezioni private, discutere con le direttrici e coi genitori degli allievi, combinare il mio bilancio, contrarre prestiti, rimborsarli, calcolare, tutte queste attività mi divertivano poichè le compivo per la prima volta. Ricordo l’allegria che mi diede ricevere il mio primo stipendio. Avevo l’impressione d’imbrogliare qualcuno.”

Simone De Beauvoir, da “L’età forte” (Einaudi)

 

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