Befana e tradizioni: dal carbon dolce ai falò della vigilia dell’Epifania

 

“La Befana vien di notte”, come recita un’antica filastrocca. E se ai bimbi buoni riempie la calza di regali, quelli cattivi da lei ricevono soltanto carbone. Ma non si tratta di carbone vero e proprio: il carbone della Befana è uno dei dolci più noti associati a questa ricorrenza. Si tratta di un carbone di zucchero tinto di nero grazie a un colorante alimentare e tagliato in svariati pezzi. Ma dove nasce una simile tradizione e perchè proprio il carbone? Il motivo rimanda a un’usanza molto diffusa nell’ Italia Nord-orientale: i falò della vigilia dell’ Epifania. In epoca pre-cristiana, i falò avevano valenza purificatrice e propiziatoria presso molte popolazioni. I Celti, ad esempio, li utilizzavano per attirarsi la benevolenza delle divinità. Pare che l’usanza di dare alle fiamme fantocci che simbolizzavano il “vecchio”, ovvero il passato, fosse un rituale di matrici sia celtiche che romane. Nella Roma antica, i festeggiamenti in onore di Diana (la dea della Natura) si tenevano a distanza di dodici giorni dal Solstizio d’Inverno e prevedevano il falò di un fantoccio emblematico dell’anno appena trascorso; la stessa Diana veniva raffigurata come un’ottuagenaria, incarnando la duplice figura di Madre Natura e dell’anno vecchio. In tempi più recenti, questo tipo di fuochi si è tramutato in uno dei riti più diffusi della sera antecedente all’Epifania: le fiamme sono una potente allegoria del vecchio che brucia, del passato che viene distrutto per lasciar spazio al nuovo, a un futuro migliore. La tradizione, un cardine della cultura agreste, è tipica di regioni italiane quali il Veneto, il Friuli Venezia-Giulia e l’Emilia Romagna; chi ha visto “Amarcord” di Fellini ricorderà il “falò della vecchia” proprio all’inizio del film, anche se in quel caso inaugurava la Primavera. Il rituale prende nomi diversi a seconda della zona: in provincia di Treviso e di Venezia è il “panevìn”, a Padova la “fogherata”, nel Veneto dell’est la “casera”, a Parma e Reggio Emilia la “fasagna”.

 

 

Nonostante le differenti denominazioni, il procedimento è simile in ogni regione: sul calar della sera, il fantoccio che rappresenta il vecchio viene sistemato su una pira di legna; quando il falò comincia ad ardere, il parroco benedice il fuoco con l’acqua santa e lo scoppiettio che le gocce originano tra le fiamme, secondo un’antica tradizione, simboleggerebbe il diavolo che, furente, abbandona il falò. Molto importante è decifrare i presagi associati alla direzione del fumo e delle faville del fuoco: sono immancabilmente riferiti al raccolto e all’abbondanza dei frutti che la natura elargirà (o meno) dopo il suo risveglio. Gli uomini presenti, talvolta, si servono di un forcone per “aizzare” la produzione di scintille. Mentre il falò arde, la comunità si riunisce e trascorre momenti all’insegna della convivialità: nelle regioni del Nord-Est, ad esempio, è comune degustare una torta chiamata “pinza” accompagnata dal vin brulè. Tornando al carbon dolce, è facile intuire il link che lo connette ai fuochi dell’Epifania. Il carbone si associa direttamente a quei falò propiziatori, diviene il loro simbolo e al tempo stesso il simbolo della Befana. Con il passar del tempo, regalare carbone cominciò ad essere identificato come una “punizione” destinata ai bambini che non si comportavano bene. In realtà, il carbon dolce che lo rappresenta è una vera e propria delizia per il palato: potete prepararlo in casa seguendo una delle tante ricette disponibili in rete oppure comprarlo bell’e pronto ed inserirlo in una calza adeguatamente decorata.

 

 

 

Natale è nell’aria

 

Al 25 Dicembre manca poco più di un mese, ma l’atmosfera natalizia inizia a insinuarsi in tutte le città. Luminarie appena installate, vetrine vestite a festa, decorazioni e proposte regalo fanno già parte dello scenario di questo fine Novembre. Cominciamo a tirar fuori l’albero, gli addobbi, libri di ricette che ci guidino nella preparazione di piatti e dolci tradizionali…Il caminetto prende il posto dei caloriferi, senza dubbio meno suggestivi, le candele baluginano poeticamente al calar del crepuscolo; il freddo porta con sè la pioggia, il nevischio, su certe alture anche la neve. Natale è nell’aria: i suoi bagliori e i suoi profumi ravvivano l’anonimo grigriore novembrino. L’odore di fumo che fuoriesce dai comignoli è già un indizio, il sentore della ritrovata intimità familiare. Godiamoci appieno questo periodo, che ci accompagna verso l’Avvento.VALIUM lo celebra con la nuova photostory, un racconto per immagini intriso di una gioia atavica: quella che, ormai da secoli, fa da preludio alle feste natalizie.

 

 

Foto via Pexels e Unsplash

 

Un cielo di segni

 

“Puerto de Pollensa. Illa d’Or. Le case riposavano quiete nell’aria immobile, ciascuna avvolta in un delicato velo di fumo. Il viandante annega nella loro sfera come in anelli d’incenso, poiché il legno odoroso del pino montano alimenta la fiamma dei focolari. Il piacere che si prova in queste passeggiate solitarie è dovuto certamente anche al fatto che chi le compie omnia sua secum portat, come voleva il filosofo Biante. La nostra coscienza ci accompagna come uno specchio sferico, o meglio come un’aura il cui centro siamo noi. Le belle immagini penetrano in quest’aura e in essa subiscono un mutamento atmosferico. Così, noi passiamo oltre un cielo di segni come sotto aurore boreali e arcobaleni. Questo squisito sposalizio con il mondo, seguito da un nobile evento di riproduzione, fa parte dei supremi piaceri a noi destinati. La terra è la nostra eterna madre e donna, e come ogni donna fa, anch’essa dona qualcosa alla nostra ricchezza.”

Ernst Junger, da “Percorsi Balearici”

 

Giorni della Merla, i più freddi dell’anno

 

“Se li gljorni de la merla voli passà, pane, pulenta, porcu e focu a volontà!

(Proverbio marchigiano)

 

“Se vuoi passare bene i giorni della Merla, pane, polenta, maiale e focolare acceso a volontà”: ecco il significato del proverbio di cui sopra. Il 29, il 30 e il 31 Gennaio sono i cosiddetti “Giorni della Merla”, i giorni più freddi dell’anno. VALIUM ne ha parlato diverse volte (leggi qui l’articolo del 2022), ma è sempre affascinante approfondire questa tradizione che affonda le radici nel folclore italiano: mitologia, leggende e proverbi si fondono in un amalgama antichissimo e molto suggestivo. La merla è la protagonista assoluta dei racconti popolari in questione. Nella leggenda più diffusa, sfoggia un piumaggio immacolato e viene puntualmente presa di mira da Gennaio, che quando la vede uscire dal suo nido scatena tempeste di neve, gelo e vento di tramontana. La merla, stanca dei suoi dispetti, mette in atto un piano: il 31 Dicembre fa provviste in abbondanza e si ripromette di chiudersi in casa finchè il nemico non se ne andrà. Il 28, all’ epoca l’ultimo giorno del mese, esce però dalla sua tana per sbeffeggiarlo. Gennaio si infuria come non mai. Chiede in prestito tre giorni a Febbraio e provoca una tremenda bufera. La merla è costretta a rifugiarsi in un comignolo, dove rimane fino al 31 Gennaio. Riesce a salvarsi, ma quando fuoriesce di lì si accorge che le sue piume sono completamente, irrimediabilmente nere a causa del fumo…Questa photostory è un omaggio ai giorni della Merla: predominano la neve, il ghiaccio, il gelo, i paesaggi imbiancati. I colori ricorrenti sono il bianco, il grigio e il marrone. Lo stesso bianco che si associa sì alla tonalità della neve, ma anche a quella del cielo “nordico” e glaciale di Gennaio. E in questo cielo immenso, monocorde, lasciamo vagare lo sguardo mentre un freddo pungente ci raggela il viso.

 

 

 

Odori nella notte limpida

 

“La notte era limpida e lui si sentiva la testa limpida e fredda come l’aria. Sentiva l’odore dei rami di pino sotto di sé, l’odore degli aghi schiacciati e quello più acuto della resina dei rami recisi. “Pilar” pensò. “Pilar e l’odore della morte. Questo è l’odore che mi piace. Questo è il trifoglio appena tagliato, la salvia calpestata quando uno cavalca dietro un armento, il fumo della legna e delle foglie che bruciano d’autunno. E’ l’odore della nostalgia, l’odore del fumo dei mucchi di foglie che bruciano l’autunno nelle strade del Missoula. Quale odore preferiresti sentire? L’ erba dolce che gli indiani adoperano nei loro cesti? Il cuoio affumicato? L’ odore della terra a primavera dopo la pioggia? L’odore del mare quando uno cammina in mezzo alle ginestre su un promontorio in Galizia? O il vento di terra quando si avvicina a Cuba nell’oscurità: l’odore dei fiori di cactus, di mimosa e delle viti marine? O preferisci l’odore del prosciutto fritto, la mattina, quando hai fame? O quello del caffè del mattino? O di una mela quando la mordi? O di un frantoio quando si prepara il sidro, o del pane appena sfornato? Ma allora devi aver fame” pensò, e si girò su un fianco e si mise a sorvegliare l’ ingresso della caverna alla luce delle stelle riflesse dalla neve. “

Ernest Hemingway, da “Per chi suona la campana”

 

 

 

Una passeggiata d’inverno

 

” Eppure, mentre la terra giù in basso sonnecchiava, da tutte le regioni dell’aria superna si riversava vivace un polverio di fiocchi piumosi, come se una nordica Cerere dominasse il cielo facendo piovere su ogni campo la sua argentea semenza. Dormiamo. E finalmente ci ridestiamo alla tacita realtà di una mattina d’inverno. La neve ricopre ogni cosa, calda come cotone, o frana giù dal davanzale. Fioca, dall’ ampia impannata, dalle lastre di vetro rabescate dal gelo trapela una luce arcana, in grado di esaltare l’accogliente tepore della nostra stanza. Profondo è il silenzio del mattino. Il piancito scricchiola sotto i nostri piedi mentre ci accostiamo alla finestra per guardare all’ esterno, volgendo per un lungo tratto fosforescente gli occhi sulla campagna. Vediamo i tetti ristare intirrizziti sotto il loro fardello di neve. Stalattiti di ghiaccio frangiano gronde e staccionate, mentre nel cortile irte stalagmiti rivestono qualche oggetto sepolto. Alberi e arbusti levano da ogni parte candide braccia al cielo; e dov’erano muri e recinti, vediamo fantastiche forme spiccare in archi bizzarri sullo sfondo di quel panorama cupo, quasi che nella notte la natura avesse sparso per i campi alla rinfusa i suoi freschi abbozzi per farli servire da modelli all’ arte dei mortali. Silenziosamente, mettiamo mano al chiavistello e apriamo la porta, lasciando che si richiuda alle nostre spalle facendo ricadere il paletto, e allunghiamo un passo all’ esterno affrontando l’aria tagliente. Le stelle hanno già perduto un po’ del loro scintillio; l’orizzonte è cinto da un orlo di bruma opaco, plumbeo. A oriente, uno sfrontato bagliore vivida proclama il prossimo avvento del giorno, mentre lo scenario a occidente ci appare ancora indistinto e spettrale, e come velato da una fosca luminescenza tartarea, che lo fa assomigliare al regno delle ombre. (…) Nel cortile, le orme fresche della volpe o della lontra ci fanno rammentare che ogni ora della notte è gremita di eventi, e la natura primitiva continua a operare e a lasciare tracce sulla neve. (…) In lontananza, frattanto, oltre i cumuli bianchi e attraverso le finestre impolverate di neve, scorgiamo il lume precoce del contadino emettere, pari a una smorta stellina, un brillio smarrito, come se proprio allora si stessero salutando laggiù i primi albori di qualche austera virtù. E, ad uno ad uno, ecco che tra alberi e nevi da ogni comignolo comincia a levarsi un fil di fumo. “

 

Henry David Thoreau, da “Una passeggiata d’inverno” (ed. Lindau, 2019. Primo racconto del libro omonimo)

La luce della Città

 

” D’inverno, come in nessun’altra città al mondo, calava la quiete sulle vie e sui vicoli tanto della Città alta, sulle colline, che della Città bassa, che si stendeva lungo le anse del Dnepr intirizzito, e tutto il rombo delle macchine si perdeva all’interno degli edifici di pietra, si smorzava e diventava un borbottio sordo. Tutta l’energia della Città, accumulata nel corso di un’estate di sole e temporali, si profondeva in luce. Dalle quattro del pomeriggio la luce cominciava ad ardere nelle finestre delle case, in tondi globi elettrici, nei lampioni a gas, nei fanali delle case con i numeri illuminati, e nelle vetrate a tutta parete delle centrali elettriche, che evocavano il pensiero del futuro elettrico dell’umanità, terribile e irrequieto, con le loro finestre a tutta parete dove si vedevano le ruote scatenate delle macchine che giravano senza posa, squassando fino alla radice le fondamenta stesse della terra. Scintillava di luce e traboccava luce, riluceva e danzava e baluginava la Città, nelle notti, fino al mattino, e al mattino si spegneva, indossava il fumo e la nebbia. “

Michail Bulgakov, da “La guardia bianca”

 

 

Ottobre e il popolo dell’ Autunno

 

” In primo luogo era ottobre, un mese eccezionale per i ragazzi. Non che tutti i mesi non siano eccezionali. Ma ce ne sono di buoni e di cattivi; come dicono i pirati. Prendete settembre, un mese cattivo: cominciano le scuole. Considerate agosto, un mese buono: le scuole non sono ancora incominciate. Luglio, ecco, luglio è veramente splendido: niente scuola. Giugno, senza dubbio, giugno è il migliore di tutti, perchè le porte delle scuole si spalancano e settembre è lontano un miliardo di anni. Ma adesso guardate ottobre. Le scuole sono cominciate da un mese, e voi ve la prendete più calma, tirate avanti. Avete il tempo di pensare all’ immondizia che scaricherete sul portico del vecchio Prickett, o al costume da scimmia che indosserete alla festa dell’ YMCA l’ ultima sera del mese. E se è già il 20 ottobre e tutto odora di fumo e il cielo è color arancio e grigio cenere al crepuscolo, sembra che Halloween non verrà mai, in una pioggia di manici di scopa e in un fiottare sommesso di lenzuola agli angoli delle strade. Ma in un anno strano, buio, lungo e assurdo, Halloween venne in anticipo. Un anno Halloween venne il 24 ottobre, tre ore dopo mezzanotte. A quell’ epoca, James Nightshade, che abitava al 97 di Oak Street, aveva tredici anni, undici mesi e ventitrè giorni. Il ragazzo che abitava alla porta accanto, William Halloway, aveva tredici anni, undici mesi e ventiquattro giorni. Entrambi stavano per raggiungere i quattordici anni: già i quattordici anni tremavano nelle loro mani. E poi vi fu quella settimana d’ottobre in cui divennero adulti di colpo e non furono mai più giovani…”

 

Ray Bradbury, da “Il popolo dell’ autunno”