Addio a Mary Quant, icona della Swinging London e brillante interprete di un mood epocale

Londra, 1963: Mary Quant si fa tagliare i capelli da Vidal Sassoon

 

“Non vedevo alcun motivo per cui l’infanzia non dovesse durare per sempre. Così ho creato abiti funzionali, in movimento, che permettessero alle persone di correre, saltare, di conservare la loro preziosa libertà.”

(Mary Quant)

Mary Quant è scomparsa giovedì mattina, a 93 anni. Un comunicato stampa riporta che la morte è sopraggiunta mentre la leggendaria designer si trovava nella casa che possedeva nel Surrey. Celebrata unanimemente come l’ideatrice della minigonna (nonostante la querelle con André Courrèges, che ne rivendicò più volte la paternità), pioniera della moda di un’era rivoluzionaria e anticonformista, Mary Quant è una delle supreme icone della Swinging London, “the place to be” degli anni ’60, una scoppiettante fucina di tendenze nei campi della moda e delle arti visive e figurative. A questo vortice creativo Quant aderì stravolgendo per sempre le regole dello stile: la minigonna, autentico emblema di emancipazione femminile, permetteva alle giovani donne di muoversi agevolmente lungo le vie cittadine e di prendere un autobus al volo per andare al lavoro ogni mattina.

 

 

La stilista londinese non aveva creato un semplice capo di abbigliamento, bensì l’ epitome di un mood epocale. Che accompagnò, non a caso, a collant coloratissimi, impermeabili e alti stivali in vinile (alternabili agli ankle boots con fibbia o zip laterale), gilet maschili da abbinare alla cravatta o al papillon. Il look che proponeva nelle sue boutique londinesi – Baazar, rimasta mitica, aprì i battenti a King’s Road nel 1955 – era il look per eccellenza della “It girl”, tant’è che fu proprio Twiggy a sfoggiare per prima la minigonna griffata Mary Quant. Ironia, praticità, disinvoltura e audacia rappresentavano le coordinate del signature style della designer. Imprenditrice a tutto tondo, Quant lanciò in seguito anche una linea make up. Nel frattempo si era fatta tagliare i capelli da Vidal Sassoon, che creò per lei un “bowl cut” geometrico imitatissimo, tramutandosi nella principale testimonial del proprio brand. In molti hanno paragonato l’eccezionale impatto che la moda di Mary Quant ebbe sulla società al clamore suscitato, all’ epoca, dalla musica dei Beatles: un confronto che non potrebbe essere più azzeccato. La sua fama si diffuse ben presto a livello planetario e il suo talento brillante le valse prestigiosi riconoscimenti.

 

 

Nel 1966 la Regina Elisabetta la insignì dell’ onorificenza di Ufficiale dell’ Ordine dell’ Impero Britannico “per il suo straordinario contributo al settore della moda”, e nel 2014 la onorò con il titolo di Dama Comandante dell’ Ordine dell’ Impero Britannico “per i servizi alla moda britannica”. Con Mary Quant scompare, quindi, non solo una stilista geniale e celebratissima, ma colei che seppe intercettare il prorompente desiderio di cambiamento degli Swinging Sixties per tradurlo in stile. E se la minigonna può essere definita un vero e proprio fenomeno di costume, anche la margherita che Mary Quant scelse come logo possiede un’ alta valenza simbolica: è una margherita minimal, dai petali iper arrotondati, pop al pari della corrente artistica che grazie a nomi del calibro di Andy Warhol, Roy Lichtenstein, Robert Rauschenberg e Jasper Johns imperava durante i favolosi, indimenticabili Swinging Sixties.

 

 

Foto: Mary Quant & Vidal Sassoon via Francesca Romana Correale from Flickr, CC BY-ND 2.0

Le rimanenti immagini sono di Jack de Nijs for Anefo, CC0, via Wikimedia Commons

 

Goodbye, Dame Vivienne

 

” L’ unico motivo per cui faccio moda è fare a pezzi la parola ‘conformismo’.”

(Vivienne Westwood,  1941 – 2022)

 

 

 

Foto: Mattia Passeri, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

 

Il close-up della settimana

 

Le illazioni sulle sue condizioni di salute si erano scatenate a partire da quando, alla Paris Haute Couture Week dello scorso Gennaio, non si era presentato per il saluto al pubblico al termine della sfilata di Chanel. Un comunicato diffuso dalla Maison attribuiva la sua assenza alla stanchezza, ma in molti hanno messo in dubbio questa spiegazione: l’ inesauribile energia di Karl Lagerfeld, la tempra teutonica che non aveva mai mancato di sfoggiare, erano pressochè proverbiali. E i rumours sono subito esplosi. Poi, il silenzio. Su Karl Lagerfeld più nessuna notizia fino alla mattina del 19 Febbraio, quando i media ne hanno annunciato la scomparsa: uno shock collettivo. Il designer tedesco si è spento all’ Ospedale Americano di Parigi a causa di un male incurabile.  Una morte, la sua, che lascia un vuoto immenso. Anche perchè il “Kaiser della Moda” era una figura già entrata nel mito, una leggenda vivente. Sembrava trascendere ogni coordinata associata all’età, all’ appartenenza ad un luogo e ad un’ epoca ben precisa: tutto, in lui, era iconicità pura. A cominciare dal look – inconfondibile ed immutabile nel tempo, un perenne total black rinvigorito da dettagli biker – per proseguire con il suo genio visionario, era come se fosse incluso tra gli “immortali” per diritto divino. Karl Lagerfeld vide la luce ad Amburgo in una data imprecisata, anche se dichiarò sempre di essere nato nel 1935. Figlio unico di una famiglia facoltosa, raccontava di aver passato l’ infanzia a disegnare e a leggere anzichè a giocare con gli altri bambini. Nel 1953, quando si trasferì a Parigi con la madre, la moda rientrava già tra le sue passioni. Dopo aver vinto il prestigioso Woolmark Prize, nel 1955 entrò nello staff di Pierre Balmain, dove rimase per tre anni prima di passare alla Maison Patou. Qui trascorse un quinquennio disegnando Haute Couture, poi si concesse un periodo sabbatico decidendo, infine, di tornare a Parigi e di aprire una piccola boutique.  All’ epoca iniziò a consultare Madame Zereakian, la veggente armena che annoverava Christian Dior tra i suoi clienti abituali: come riferì in seguito, gli fu predetto un gran “successo nella moda e nei profumi”. Nel 1965, la carriera di Karl Lagerfeld subì una decisa impennata. Fu allora che prese il timone di Chloé, con cui instaurò una collaborazione ventennale, e nello stesso anno approdò a Roma dove ottenne l’ incarico di direttore creativo presso la casa di moda delle sorelle Fendi, un ruolo (dal 1992 condiviso con Silvia Venturini Fendi) che ricoprì per il resto della sua vita. Instancabile, immaginifico, poliedrico, fu il primo free-lance della moda e commentò, con la consueta arguzia: ” Amo considerarmi un free-lance. Questa parola è l’unione di “free”, libero, come ho sempre voluto essere, e “lance”, che ricorda la parola francese “lancé”, com’era definita un tempo un’ ambita cortigiana. Io mi sento così, libero e mercenario”. Risale al 1983 – dieci anni dopo dalla morte di Mademoiselle Coco – la sua nomina alla direzione di creativa di Chanel, una carica a tempo indeterminato (come diremmo oggi) che lo elevò all’ Olimpo del fashion system. “Chez” Chanel, Lagerfeld diede vita ad un potente connubio tra l’ heritage della Maison e la contemporaneità più pop e iconica. Associò la sua immagine a muse che scopriva e che rendeva leggendarie (qualche nome? Claudia Schiffer, Vanessa Paradis, Alice Dellal, Carla DelevingneLily-Rose Depp e Kaia Gerber), scattò personalmente gran parte delle campagne pubblicitarie e riportò il brand ai fasti originari senza stravolgerne i codici.

 

L’ immagine con cui la Maison Chanel commemora Karl Lagerfeld nel suo website e sui social

Nel 1980 il designer fondò un marchio, Lagerfeld, che 24 anni dopo intrecciò il suo nome a H&M inaugurando la fortunata serie delle co-lab tra luxury e fast fashion. “Non ho mai avuto problemi a rompere le regole perchè non ne sono mai stato vittima”, disse, ed alla grande intelligenza abbinò sempre la curiosità, la cultura, l’ autoironia, l’incredibile talento di saper parlare a un pubblico di ogni età e di ogni ceto. Il terzo millennio vide il designer iper attivo: disegnò i costumi di scena per star del calibro di Madonna e Kylie Minogue, coltivò la sua passione per la fotografia e l’architettura, nel 2010 instaurò una breve collaborazione con Hogan e fu insignito della Legion d’ Onore francese. Due anni dopo, ebbe inizio una delle liason più importanti della sua vita: quella con Choupette, la gatta birmana che “daddy” Karl rese una vera e propria star, e pare che alla dolcissima felina sia andata parte della sua eredità miliardaria. La sua eredità stilistica, invece, è appena stata raccolta dalla fashion studio director di Chanel Virginie Viard, che per 30 anni lo ha affiancato assiduamente. E’ a lei che spetterà il compito, come dichiara il Presidente della Maison Bruno Pavlovsky citando Lagerfeld, di “continuare ad abbracciare il presente e inventare il futuro”. “Preferisco essere considerato un evoluzionista che un rivoluzionario, uno a cui piace riformare le cose in modo costruttivo. I rivoluzionari puri non sono mai arrivati da nessuna parte, nemmeno nella moda”, affermò ancora il designer: e non c’è dubbio che il suo genio, la sua visione, il suo straordinario intuito, lo abbiano portato molto, molto lontano. Con quel pizzico di mistero che ha sempre avvolto la sua vita in un’ eterea allure da fiaba. Ma la moda non è, d’altronde, una fiaba stessa?

 

Foto a inizio articolo di Christopher William Adach da Flickr, CC BY-SA 2.0

 

 

Il close-up della settimana

 

Addio a un leggendario couturier: sabato scorso, nel suo castello nei pressi di Parigi, si è spento Hubert de Givenchy. Aveva 91 anni. Aristocratico per nascita e nei modi, uno charme innato, Givenchy ha indissolubilmente associato il suo nome a quello di Audrey Hepburn, che rese un’ autentica icona di stile. Fu lui a vestirla in film memorabili quali “Colazione da Tiffany” (1961), “Sabrina” (1956), “Vacanze romane” (1953), ma anche nella vita quotidiana. Il loro fu un sodalizio magnifico e inattaccabile dal tempo, che neppure la morte della diva riuscì a spezzare: nell’ immaginario collettivo rimarranno “lo stilista e la sua musa” per antonomasia. Chi potrà mai scordare il tubino nero che Audrey indossava in “Colazione da Tiffany”? A Hubert de Givenchy va il merito di aver reinventato questo evergreen del guardaroba che creò Coco Chanel e di averlo reso iconico. Pensare che quando incontrò la Hepburn per la prima volta, nel 1953, il couturier aveva fondato la sua Maison da appena un anno. Prima di allora il conte Hubert James Marcel Raffin de Givenchy, nato a Beauvais nel 1927, aveva studiato all’ Ecole Nationale Superieure des Arts di Parigi e aveva mosso i primi passi nella moda negli atelier di Jacques Fath, Robert Piguet, Lucien Lelong e Elsa Schiaparelli. Nel 1952, galvanizzato dal successo di Christian Dior, aveva aperto una Maison propria battezzandola Givenchy. Un anno dopo, la sua prima collezione era stata acclamatissima anche grazie a un capo-signature, la blusa Bettina, che il couturier aveva dedicato alla sua modella, musa e addetta stampa Bettina Graziani: una blusa dal taglio essenziale, ma impreziosita da maniche “danzanti” che seguivano la gestualità del corpo.

 

 

Quando la produzione del film “Sabrina” lo contattò per proporgli di creare 15 costumi di scena, Hubert de Givenchy rimase letteralmente conquistato dalla personalità di Audrey Hepburn e dalla sua allure; tra i due scoccò un “coup de foudre” professionale che li rese  inseparabili. Aggraziata, sofisticata, affascinante, l’ attrice incarnava alla perfezione l’ideale femminile della Maison di cui divenne una naturale portavoce. Hubert de Givenchy creò i costumi per buona parte dei film in cui recitò e “monopolizzò” il suo guardaroba, ma Givenchy annoverava tra le clienti fisse anche VIP del calibro di Jacqueline Kennedy, la principessa Grace di Monaco, Marella Agnelli, l’ imperatrice Farah Palahvi, la duchessa di Windsor e movie star come Marlene Dietrich, Greta Garbo, Ingrid Bergmann e Lauren Bacall. Ricerca, ingegnosità creativa e iconicità sono i tre elementi lungo i quali si snodò tutta la carriera del designer:  l’ abito a sacco, il cappotto Balloon, l’ abito Baby Doll, l’ abito a palloncino e l’ abito a bustino sono creazioni che, lanciate negli anni ’50, rimangono dei veri e propri capi cult.

 

 

Nel 1957, grazie a un’ alleanza tra lo stilista e suo fratello Jean-Claude, nacque la Parfums Givenchy.  Il primo profumo che porta la sua firma, L’ Interdit, era stato destinato in esclusiva ad Audrey Hepburn e quando venne commercializzato quell’ anno stesso, la diva ne fu eletta testimonial. Fu una novità senza precedenti: mai, prima di allora, una fragranza aveva avuto una star a prestarle il volto. Nel 1959 Hubert de Givenchy dedicò due profumi al pubblico maschile, Monsieur de Givenchy e Eau de Vétiver,  e sempre all’ uomo si rivolgeva Givenchy Gentleman, la linea di prêt-à-porter inaugurata nel 1969. Maestro di eleganza, nel 1980 il couturier fu insignito della Legion d’Onore francese, ma otto anni dopo decise di abbandonare il fashion system e cedette la sua Maison al colosso del lusso LVMH. Con Hubert de Givenchy se ne va il guru di uno chic innovativo contraddistinto da forti connotati identificativi: Hubert de Givenchy ha saputo precorrere i tempi intuendo il potente valore dell’ iconicità.

 

Photo: dall’ alto verso il basso

“Hubert de Givenchy adjusts Bettina, 1952”

“The ‘Bettina Blouse’, 1952”

via Kristine on Flickr, CC BY-NC 2.0

“Audrey Hepburn” via Ultra Swank on Flickr, CC BY-NC-SA 2.0

 

Gianni Versace, gli anni ’90 e le supermodel: 10 ad d’autore

 

I loro nomi sono entrati nella leggenda: Carla Bruni, Cindy Crawford, Christy Turlington, Yasmeen Ghaouri, Linda Evangelista, Naomi Campbell, Nadja Auermann, Helena Christensen, Stephanie Seymour…Gli anni ’90 segnano il loro boom e il boom assoluto di una nuova tipologia di diva, le supermodel. Tutti le cercano, tutti le vogliono, tutte le copiano. E già, perchè non esiste ragazza che non ammiri la loro bellezza radiosa e indomita, quell’ incedere regale in passerella. Non è un caso che proprio su una catwalk esplode la supermodel-mania: a dare il la al fenomeno è Gianni Versace, che chiude la sua sfilata Autunno/Inverno 1991 con il “quartetto d’oro” formato da Naomi Campbell, Linda Evangelista, Cindy Crawford e Christy Turlington. Il momento è irripetibile, un’ esplosione di glamour allo stato puro. Da quell’ istante, il connubio “Versace – supermodel” si tramuterà in una costante ad alto tasso iconico del fashion-biz. Il designer calabrese trapiantato a Milano ha sempre dotato di forti connotati identificativi la sua estetica, curando l’ immagine a 360°. La lunga collaborazione con Richard Avedon e poi con Bruce Weber, Irving Penn, Steven Meisel e molti altri top names della fotografia ha dato vita a campagne pubblicitarie storiche, tuttora radicate nell’ immaginario collettivo: a fare da protagoniste, le supermodel ormai assurte al ruolo di star assolute. Gianni Versace le adora, le lancia, ne fa le sue muse. Per Naomi Campbell è un pigmalione che la Venere Nera oggi ricorda con struggente emozione, colui che la promuove a Catwalk Queen. Il gruppo delle cosiddette “Big Six”, che oltre a Naomi include 5 top del calibro di Claudia Schiffer, Cindy Crawford, Linda Evangelista, Kate Moss e Christy Turlington, nei ’90 domina incontrastato.  Il waif è ancora di là da venire. Trionfano il lusso, il glamour a dosi massicce, il tipo fisico statuario delle “Big Six”, che diventano richiestissime e pronunciano frasi come quella – mitica – di Linda Evangelista “Non ci svegliamo mai per meno di 10.000 $ al giorno”. A 20 anni dalla scomparsa di Gianni Versace, VALIUM celebra il suo geniale intuito con una selezione di 10 memorabili scatti d’autore tratti dalle campagne pubblicitarie della Maison. Denominatore comune, l’ appartenenza al “favoloso” decennio dei ’90 e  le celeberrime testimonial: quelle supermodel che hanno incarnato lo stile e il mood Versace con incredibile potenza impattante.

(Photo: Christy Turlington, Nadja Auermann, Cindy Crawford, Stephanie Seymour e Claudia Schiffer by Richard Avedon, 1994)

Christy Turlington, Linda Evangelista e Helena Christensen by Herb Ritts, 1991

Naomi Campbell e Kristen MacMenamy by Steven Meisel, 1993

Nadja Auermann, Christy Turlington, Claudia Schiffer, Cindy Crawford e Stephanie Seymour by Richard Avedon, 1994

Claudia Schiffer by Richard Avedon, 1994

Niky Taylor by Bruce Weber, 1990

Nadja Auermann e Claudia Schiffer by Richard Avedon, 1995

Stephanie Seymour by Richard Avedon, 1994

Shalom Harlow, Aya Thorgren e Kate Moss by Richard Avedon, 1993

 

Claudia Schiffer, Naomi Campbell e Christy Turlington by Irving Penn, 1992

 

 

Un ricordo di Anita Pallenberg

 

Modella, attrice, icona…Ma soprattutto musa. Dei Rolling Stones e di un’ epoca che ribalta in toto gli stereotipi del “femminile”. E’ così che Anita Pallenberg, scomparsa il 13 Giugno scorso, verrà sempre ricordata: It girl dei 60s, impone un ideale di bellezza che alla silhouette slanciata ed ai capelli color platino coniuga un fortissimo carisma. Pensare a lei solo in virtù dei love affair che intrecciò, prima con Brian Jones e poi con Keith Richards, non le rende giustizia. Il suo è un appeal magnetico, mixato a una personalità travolgente e ad uno spiccato senso di indipendenza. Nata nel 1942 a Roma da padre italiano e madre tedesca, molla gli studi a 16 anni e vola a New York dove frequenta la Factory di Andy Warhol e si unisce al Living Theatre. Tornata in Europa, debutta a Parigi come modella. La sua carriera la vede di nuovo in viaggio, in giro per il mondo sul set dei vari photoshoot. E’ proprio durante una delle sue trasferte che conosce Brian Jones: il colpo di fulmine tra Anita e il chitarrista dei Rolling Stones scocca a Monaco, nel backstage di un concerto della band, e da quel momento ha inizio una liason che durerà un biennio. Corre l’ anno 1965, la Swingin’ London esplode. Anita Pallenberg e Brian Jones sono una coppia speculare che detta stile: lo stesso caschetto biondo, le ruches da dandy, i cappelli a tesa larga e le scenografiche pellicce diventano i loro basic. Nonostante tutto, l’ intesa naufraga definitivamente durante un viaggio in Marocco ad alto tasso di litigi. E’ a questo punto che entra in scena Keith Richards; con lui Anita torna a Londra e inizia una convivenza che si snoda tra family life e eccessi, alternando alla nascita di tre figli – Marlon nel 1969, Dandelion Angela nel 1972 e Tara, morto appena 10 settimane dopo, nel 1976 – una quoditianità vissuta “on the wild side” in toto.

 

 

Anita, in quel periodo, consolida la sua funzione ispiratrice: è piena di interessi, brillante, parla fluentemente cinque lingue, affascina chiunque grazie al suo magnetismo potente. Negli anni di Biba e Mary Quant, la “musa dei Rolling” adotta un look iconico in cui trionfano boa di struzzo, suit damascati in lamè, jabots, caftani bohemien e gioielli di stampo etnico. La sua carriera di modella, intanto, lascia il posto ad un esordio come attrice che consacrerà con “Barbarella” (1967) la sua fama. Nel film di Vadim interpreta un’ avveniristica Regina Nera e affianca Jane Fonda in una delle più celebri – e bollenti – sci-fi comedy di sempre, dopodichè appare in pellicole come “Candy” (1968) di Christian Marquand, “Dillinger è morto” (1969) di Marco Ferreri, “Performance” (1970) di Cammell e Roeg, dove recita con Mick Jagger, e svariati documentari sui Rolling Stones (“Sympathy for the Devil” di Jean-Luc Godard (1968), solo per citarne uno). Al cinema vero e proprio torna nel 2007, quando appare in “Mister Lonely” di Harmony Korine e “Go Go Tales” di Abel Ferrara. Il Nuovo Millennio inizia per Anita con un bagaglio di vita e di ricordi davvero da leggenda. Nel 1980 la love story con Richards è terminata, ma “l’era dei Rolling” le ha lasciato in eredità una splendida amicizia: quella con Marianne Faithfull, storica ex di Mick Jagger, un legame mai venuto meno nel corso del tempo. Il suo ruolo di icona di stile rimane indiscusso, riannodando un fil rouge con la moda che la vede iscriversi al Central Saint Martins College di Londra, sfilare per noti designer e mettersi in gioco, a sua volta, come stilista. Adorata da celebs e top (come dimostra il feeling instaurato con Kate Moss), Anita Pallenberg è destinata a rimanere impressa nella memoria collettiva come un’ affascinante musa che accanto ai top names del rock ha immancabilmente brillato di una magica, inconfondibile luce propria. E se vi sembra poco…

Photo:

“Anita Pallenberg” via Miriam-Assai on Flickr, CC BY-ND2.0

“ellemay67keithanitadetail” via lobstar28 on Flickr, CC-BY-NC-ND 2-0

 

Tributo a Giulio Cingoli, Maestro del cartoon italiano

” Guardare un animatore mentre sta movimentando un personaggio è divertente perchè sul suo viso passano tutte le espressioni che sta disegnando. Il suo disegnare è una recita.”

Giulio Cingoli, da “Il gioco del mondo nuovo”

Milano, 1954, Piazza della Scala. Nella foto in bianco e nero Giulio Cingoli è ritratto di profilo, sullo sfondo di una coltre di nebbia.  Accanto a lui, Arnaldo Pomodoro in quel che si scoprirà essere un abile fotomontaggio: i due artisti si erano immortalati a vicenda nella cornice della piazza nebbiosa divenuta quasi onirica, irreale. Un’ immagine che potrebbe essere la metafora della vita di Giulio Cingoli, Maestro dell’ animazione italiana e creativo che ha ripartito il suo genio tra pubblicità, cartoon e regia. Giulio si è spento ieri, a 90 anni, nella Milano che aveva coronato il suo sogno oltre mezzo secolo prima:  nato ad Ancona dove lavorava all’ ufficio del Genio Civile, piantò baracca e burattini inseguendo il desiderio di diventare illustratore. Impresa non facile in un’ era che inneggiava al mito del “posto fisso”, tant’è che a suo padre fece credere, per anni, che nella città meneghina lavorasse come impiegato. E fu proprio tra le brume di Milano che trionfò “il pupazzettaro”, come lo chiamavano ad Ancona. A soli 26 anni divenne il primo “fornitore” RAI di cartoons e nel 1962 fondò lo Studio Orti, società di produzione e punto di riferimento per coloro che ruotavano attorno al cinema di ricerca ed alle nuove arti figurative. Il boom dello Studio Orti lo portò a lavorare con nomi del calibro di Zavattini, di Fellini (per il quale collaborò al Satyricon), a realizzare cartoons, documentari, film sperimentali e spot pubblicitari (ricordate il celebre spray che gli insetti “Li ammazza stecchiti”?). La sua liason con la TV proseguì con il lancio di programmi come Nonsolomoda, Videosera e, nell’ ’87, della RaiTre di Angelo Guglielmi.  Nel 2002 tornò al suo vecchio amore per l’ animazione dirigendo Johan Padan a la descoverta delle Americhe, film ispirato a un monologo di Dario Fo che riscosse grande successo a Venezia. Recentemente, Cingoli aveva trovato persino il tempo di dare alle stampe un libro autobiografico, Il gioco del mondo nuovo, pubblicato per i tipi di Baldini & Castoldi nel 1996. Ma nonostante il successo, nonostante i numerosi riconoscimenti ottenuti – il premio IBTS Immagina (1990 e 91), il premio Asifa alla carriera (1995), l’ Attestato di Civica Benemerenza del Comune di Ancona (2003), l’ inserimento nell’ elenco dei 100 marchigiani illustri del Resto del Carlino (2005), solo per citarne alcuni – il “pupazzettaro” non si tramutò mai in un “homo oeconomicus”: riaffiorano flash della sua aria svagata, delle sue continue divagazioni da artista e, al tempo stesso, della sua saggezza profonda. Quel che segue è un estratto dall’ intervista che mi concesse per Innovazione e tradizione, periodico edito dalla Fondazione Carifac e dalla Cassa di Risparmio di Fabriano e Cupramontana, nel 2005.

Vive a Milano da ormai 53 anni. Quali ricordi, delle Marche, si porta dentro e cosa la colpisce della realtà marchigiana attuale?

Quando ci si separa da persone e territori, tornando si pretende che nulla sia cambiato. Mentre si accetta ogni sorpresa da terre sconosciute, non si accetta il luogo natio modificato. Dove si è nati si ritorna per recuperare cose perdute. Ma è solo una speranza perché il luogo dei ricordi, col tempo, si è tutto trasformato. La vita è un racconto di vita, come ci insegna il nostro poeta di Recanati: il racconto di vita è quello che riusciamo a percepire di noi stessi, sia che giriamo il mondo, sia che restiamo fermi dove siamo… Faccio fatica a non sovrapporre le immagini delle Marche stampate dentro di me, del mio tempo, con quelle viscerali vissute con me da sempre. Quando vengo nelle terre dell’infanzia e della giovinezza, mi guardo attorno per rinverdire i ricordi, ma non penso a una trasformazione. Tutto si riempie di tutto. Una cosa è certa, la nostra terra è accoglientissima e serena. Le rocce sul mare sono figurazioni nostalgiche e le colline raccontano una strana pace. La gente sembra tranquilla, ma da qui a una soddisfazione diffusa non mi misurerei. La felicità non è di moda.

Il manifesto del film “Johan Padan a la descoverta delle Americhe”

“Milano faticherà sempre a produrre cinema, sarà un cinema molto civile e umano (…) Il grande circo carnale si può fare solo dove soffiano venti caldi e stravolgenti.”, scrive ne ‘Il gioco del mondo nuovo’. Hai mai pensato di spingersi tra i venti di scirocco della capitale per avvicinarsi al cinema fatto di attori in carne ed ossa?

No. Fo mi ha fermato per strada e mi ha fatto la proposta per il ‘Johan Padan’, ma di cartoons si trattava. Purtroppo uno dei produttori si è messo in competizione contro me e Fo, nella speranza di poter firmare anche lui, come autore. I conflitti con questo produttore hanno creato molte difficoltà e gravi mutilazioni alle scene. Il cinema ormai è cresciuto su tecnologie sofisticatissime, al punto che un produttore può imporre soluzioni con le sue attrezzature digitali, ignorando le richieste della regia. Il risultato è un conflitto permanente. Io non ho lavorato con grandi attori, ma questo produttore mi ha fatto capire quanto è difficile governare un film.

Come è nata l’idea di adattare cinematograficamente proprio quel determinato testo di Fo?

Ho conosciuto Fo e Franca Rame in RAI, durante la sfortunata serie della ‘Canzonissima’ del ’62, ritenuta dalla RAI troppo politica. Da allora, ci siamo sempre frequentati. Io e Fo abitiamo nello stesso quartiere. Filmavo sempre i suoi spettacoli ed era fatale che prima o poi ci saremmo misurati con un lungometraggio.

La copertina de “Il gioco del mondo nuovo”

A Arnaldo Pomodoro la lega un solido rapporto di amicizia iniziato a Milano, ai tempi del vostro comune impiego al Genio Civile; entrambi, ‘emigrati’ dalle Marche perseguendo sogni e passioni. Cosa è rimasto, in voi, di profondamente marchigiano?

Arnaldo e io siamo stati legati da una preveggenza. Lui era geometra al Genio Civile di Pesaro, io geometra al genio Civile di Ancona. Le nostre vite si sono incrociate più volte, ma non ci siamo mai incontrati. Poi, io ho chiesto il trasferimento al Genio Civile di Milano e lui pure. Qui ci siamo incontrati, quasi come se tutto il resto fosse stata una premonizione: a Milano, abbiamo contemporaneamente lasciato l’ufficio del Genio Civile e abbiamo costruito i nostri studi. Sempre unito l’uno all’altro. Arnaldo ha fatto un percorso straordinario e io l’ammiro molto, siamo legati da tutto…

In che modo pensa che la vostra ‘marchigianità’ vi abbia supportato (o meno) nella ricerca dell’affermazione professionale al di fuori della terra nativa? 

Nei bar di Brera, a Milano, dove si incontravano poeti, scrittori, pittori, scultori, attori, ecc. mi chiamavano ‘il pupazzettaro’, esattamente come ad Ancona. Tutto ci cambia attorno e per noi è una ginnastica infinita quella di modificarci. Mentre, contemporaneamente, tutto resta sempre come siamo.  Il pittore Cazzaniga, caro amico milanese, sceso a Portonovo per appropriarsi di una natura e di un clima estraneo a lui, ha portato a Milano quadri bellissimi di fiori e ambienti, come se fosse nato là. Poi, per nostalgia, la nebbia del nord l’ha risucchiato…La ‘marchigianità è un insieme di dolcezze e di misure. Penso le Marche come un genio dell’equilibrio, saggio (assieme all’Umbria), colto, ancora un po’ contadino, con una civiltà del vivere rara e non esibita. Non so se industrie manufatturiere troppo grandi non ne possano alterare lo stile di vita. Forse la mia distanza me la fa immaginare più dolce di quanto non sia, ma le terre natie si pensano e si sognano così.

Come vorrebbe essere maggiormente ricordato dai posteri? Regista, illustratore, cartoonist, pubblicitario o…?

Ad Ancona mi chiamavano ‘il pupazzettaro’. Spero di restare così.

 

 

Photo courtesy of Giulio Cingoli

Un ringraziamento alla Fondazione Carifac e a Veneto Banca per aver autorizzato la pubblicazione

 

 

 

 

Il close-up della settimana

E poi, all’ improvviso, capita che in un freddo giovedì d’ inverno, moderatamente ravvivato dalle luci e dalla frenesia natalizia, arriva una notizia sconvolgente: Franca Sozzani è scomparsa ieri all’ età di 66 anni, dopo una lunga malattia di cui solo gli intimi erano a conoscenza. Non esistono parole per esprimere lo sgomento, lo stupore, il dolore che porta con sè questa breaking news. Se ne andata la “Signora della Moda”, come l’ hanno definita, ma anche un’ icona, una donna impegnata nel sociale, una mentrice. Non lo sapevo, allora, ma è a lei che è associato il mio primo incontro con la fashion press: era il 1980 e io – non ancora neppure una teen – diventai una fan assidua di Lei, che avevo scoperto in un negozio di “moda giovane” (all’ epoca si chiamavano così) della mia città. Proprio in quell’ anno  Franca Sozzani fu nominata Direttore del magazine, e non potrò mai più dimenticare l’ entusiasmo che provavo nello sfogliare quelle pagine effervescenti, la sensazione di sentirmi già grande. Dal timone di Lei a quello di Vogue Italia, per il super Direttore,  il passo è stato breve. E con Vogue si è imposta per la sua sovversiva impronta estetica, il coinvolgimento di fashion photographers che hanno mirabilmente tradotto la sua filosofia e la sua idea di stile, l’ audacia delle immagini e l’ impegno nei temi. Qualche esempio? Il Black Issue completamente dedicato all’ Afro-American glamour, o il numero in cui celebrava le curvy sfidando gli standard di bellezza. Oppure, ancora, l’edizione Cinematic, che denunciava – ancora una volta attraverso i memorabili scatti di Steven Meisel – la violenza sulle donne prendendo come spunto gli horror movies: dei veri e propri gesti rivoluzionari per chi riduce la moda a un mondo di lustrini. Alle sue battaglie sociali (che nel 2014 le sono valse, tra l’ altro, una nomina ad Ambasciatrice ONU contro la Fame del World Food Program) Franca Sozzani ha affiancato un’ intensa attività di fashion scouting. Intuitiva, propositiva, geniale, il suo ruolo di promotrice di talenti è proverbiale e si è concretizzato nel leggendario “Who’s Next” oltre che in innumerevoli iniziative. Non è un caso che noi aficionados la ricordiamo anche per il dialogo che aveva saputo instaurare con i lettori tramite il suo Blog di Vogue.it. Dal Blog del Direttore sono partiti straordinari progetti come la Vogue Encyclo, un’ enciclopedia ad ampio spettro realizzata con il nostro contributo, e tutta una serie di proposte e di collaborazioni. Un credo, quello di Franca Sozzani, che si fondava sulla libera espressione delle proprie peculiarità, sulla valorizzazione degli atout individuali. “La consapevolezza dell’ unicità è la base per poter lottare per i propri sogni”, scrisse nel suo Blog qualche anno fa: un insegnamento che conservo a tutt’ oggi come un tesoro prezioso. Grazie, Direttore.

biancoPhoto by Manfred Werner (Tsui) (Opera propria) [CC BY-SA 3.0 (http://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)], attraverso Wikimedia Commons