Il luogo

 

Stiamo annaspando in un caldo incredibile, questa settimana le temperature potrebbero innalzarsi fino a picchi di addirittura 45°. L’ estate è arrivata alla grande, travolgendoci con un’afa insolita per il mese del Solstizio: la calura è soffocante, persistente, e pare che non abbia nessuna intenzione di dileguarsi. Non a caso proviene dal Sahara, il deserto caldo più grande del mondo per estensione (ha una superficie di ben 9.000.000 km 2). Ecco come si spiega la sospensione nell’ aria di una fitta “pioggia” di sabbia che ogni tanto lascia tracce sui terrazzi e sui davanzali. Da sempre affascinata dai deserti, luoghi-non luoghi in cui l’ orizzonte viene continuamente plasmato dal vento, ho voluto saperne di più su questa landa che attraversa l’ Africa del Nord dall’ Oceano Atlantico fino al Mar Rosso. Vastissimo e sconfinato, il Sahara si snoda per 5000 km – interrotti dalla Valle del Nilo – e vanta un’ incredibile varietà di paesaggi: le dune di sabbia impresse nel nostro immaginario, in realtà, rappresentano solo il 30 per cento della sua superficie; altre aree sono composte da ghiaia e nuda roccia. A non presentare troppe variazioni sono le temperature, di giorno sempre molto alte, che in estate registrano punte di 45° o 50°. Il clima è estremamente arido, le escursioni termiche tra ore diurne e notturne  possono persino arrivare a 30° di differenza. Le piogge sono totalmente assenti, al contrario dei numerosi tipi di vento: hanno nomi affascinanti come “ghibli”, “simùn”, “khamsin”, “harmattan”, ed è proprio il ghibli l’artefice delle piogge di sabbia di questo torrido periodo.

 

 

Ma se la sabbia trasportata dal ghibli, o scirocco, è un fenomeno che anche Aristotele aveva rilevato in epoca pre-cristiana, non tutti sanno che il Sahara nasconde innumerevoli curiosità e meraviglie. Per esempio, svela a sorpresa delle splendide oasi di palme e laghi salati: si chiamano Awbari, Gardaya, Bajariya, e costituiscono attrazioni turistiche acclamatissime (non temete, non vi imbatterete mai in un assembramento ferragostano). Sapevate, poi, che il deserto del Sahara è stato scelto come location di cult movie del calibro di “Guerre Stellari” e “Alla ricerca dell’ arca perduta”? Il suo paesaggio illimitato, quasi lunare, non poteva lasciare indifferente il mondo del cinema. Nel Sahara del Sudan sono state scoperte 250 piramidi dalla misteriosa origine, a “misura d’uomo” anzichè maestose come quelle d’Egitto. Pare che derivino dai resti di una città esistita tra il 200 a.C. e il 300 d.C., ma non si è mai compreso a cosa servissero. Passando dalla storia alla fauna, anche la volpe più piccola del mondo, ebbene sì, si trova nel Sahara. Il suo nome è fennec o “volpe del deserto”, e a dispetto del corpo minuto esibisce due enormi orecchie che hanno la funzione di disperdere il calore.

 

 

Il fennec, diciamolo, “fa simpatia”. Non si può dire altrettanto della Ceraste cerastes, anche detta “vipera della sabbia” o “vipera cornuta del deserto”: è un serpente particolarissimo munito di corna e molto infido. Si mimetizza perfettamente con la sabbia per non farsi notare e, al momento opportuno, inietta un potente veleno nella sua vittima. Sia il fennec che la vipera cornuta si attivano in gran parte di notte e vivono rintanati nei rifugi del sottosuolo. Una curiosità sull’ acqua, sempre distante dall’ idea di deserto. Errore: in Tunisia, ai confini del Sahara, si trova il lago Chott El-Jerid. La sua superficie? 7000 km2, il che lo rende la più vasta distesa di acqua salata del Nord Africa. Chott El-Jerid è un angolo di incanto, anche perchè cambia aspetto in continuazione: d’estate i suoi cristalli di sale si addensano, asciutti, sul fondo di sabbia e argilla, mentre durante le stagione delle piogge si tramutano in una lamina acquosa dai colori cangianti (che si dice favoriscano i miraggi). Qui, a proposito di “Guerre Stellari”, il regista George Lucas fece atterrare le astronavi che appaiono nel primo film della saga. Concludo questa carrellata di aneddoti con una vera e propria chicca: dovete sapere che sul Sahara nevica persino. Strano a dirsi, eppure la neve cade di tanto in tanto sulla città di Ain Séfra, collocata nel bel mezzo delle dune dell’ Algeria. Il fenomeno è strettamente collegato all’ escursione termica, che di notte provoca un calo delle temperature fino a 0°. L’ ultima volta che i fiocchi di neve si sono posati sul deserto è stato, a tutt’oggi, tra il 2016 e il 2017. Un consiglio: se prevedete di viaggiare nel Sahara in un prossimo futuro, non perdetevi gli sbalorditivi tramonti sulle dune ed equipaggiatevi a dovere contro l’escursione termica per ammirare la meraviglia del cielo stellato che risplende sul deserto.

 

 

 

La colazione di oggi: i macarons, un tripudio di colori e di dolcezza

 

Solo a guardarli, mettono allegria. I loro colori vivaci attirano e conquistano l’occhio ancor prima della gola. E poi, fanno pensare subito a Maria Antonietta e agli invitanti dolci di cui era ghiotta: chi ha visto il film che Sofia Coppola le ha dedicato, sa bene di cosa sto parlando. I macarons, in effetti, hanno un’ apparenza talmente variopinta e briosa da risultare uno dei regali che si preferisce fare oppure ricevere. Meritano appieno, quindi, di diventare i protagonisti della nostra colazione di oggi. Com’è ben noto, questi pasticcini multicolor nascono in Francia (almeno, nella loro definitiva versione) e sono costituiti da due cialde tondeggianti unite da uno strato di ganache (panna e cioccolato bianco), marmellata o crema al burro. Uno dei loro punti di forza è quello di non contenere glutine, per cui anche i celiaci possono gustarli senza problemi, ma l’ autentico atout dei macarons ha un nome ben preciso: farina di mandorle.

 

 

La farina di mandorle, infatti – insieme allo zucchero a velo, allo zucchero, agli albumi d’uovo e ai coloranti alimentari – è l’ ingrediente fondamentale dei  due gusci che li compongono. Ed è proprio dalla farina di mandorle che deriva la maggior parte delle proprietà e dei benefici dei pasticcini tanto amati dalla Maria Antonietta di Sofia Coppola. Abbiamo già parlato delle virtù delle mandorle, in questa rubrica (rileggi qui l’articolo): considerate che la farina viene ottenuta semplicemente dalla loro macinazione. Per elencare i suoi benefici, l’ intero blog non basterebbe…Potremmo dire che, in sintesi, la farina di mandorle è ricca di un gran numero di micronutrienti e che può essere considerata una vera miniera di energia. In più, contiene dosi abbondanti di magnesio, un antidoto contro l’ insonnia, la depressione e qualsiasi tipologia di stress. La farina ricavata dalle mandorle si avvale poi di molteplici proteine vegetali, e oltre al magnesio vanta un’ alta quantità di calcio (un toccasana per le ossa) e di ferro (essenziale per la formazione dell’ emoglobina). E’ molto importante anche il fatto che la contraddistinguano dei grassi buoni, i cosiddetti “omega 3”: ciò contribuisce a far calare il colesterolo e a tenere la glicemia sotto controllo. Altri ingredienti contenuti in questo alimento sono le vitamine E e del gruppo B, gli acidi grassi insaturi e ulteriori minerali quali il fosforo e lo zinco.

 

 

In cucina, la farina di mandorle viene utilizzata prevalentemente nei prodotti di pasticceria: macarons come pure amaretti, pasta di mandorle, guarnizioni di dolci; la troviamo, ad esempio, grattugiata sui gelati e sui budini, o in qualità di ingrediente base di dolci veri e propri quali i baci di dama, le crostate, le torte di mele, le torte di carote…Con questo tipo di farina si prepara persino il pane.

 

 

Ma torniamo ai macarons. Siete curiosi di sapere qualcosa in più sulla loro storia e sugli aneddoti che li riguardano? Eccovi serviti. Pare che sia in realtà Venezia, la loro città natale (ma la ricetta originale potrebbe derivare dal Medio Oriente). In Francia vengono introdotti nel 1533, da un cuoco, in occasione del matrimonio tra Caterina de’ Medici e il futuro Re Enrico II di Valois. E’ subito boom di gradimento, urge quindi identificarli con un nome ben preciso: nel 1552 François Rabelais, il noto scrittore e umanista francese, decide che si chiameranno “macarons” in omaggio alle loro origini italiane. Il termine, naturalmente, deriva da “maccheroni” e designa il popolo dello Stivale, ma è del tutto privo di connotazioni sarcastiche o dispregiative. Quando approdano in Inghilterra, i golosissimi dolcetti spopolano soprattutto a corte e vengono denominati “macaroon”, rimandando alla pronuncia francese molto in voga. La storia dei macarons, tuttavia, include più di una versione. A Nancy, in Francia, le suore del Monastero delle Dames du Saint-Sacrement preparano degli speciali biscotti destinati a Caterina, la nipotina di Caterina de’ Medici, che soffre di seri problemi gastrici e digestivi. I biscottini compiono un miracolo, la bimba riesce a digerirli perfettamente: pare che si tratti di un “archetipo” di macarons. Nel 1793, dopo aver abbandonato il Monastero, due suore utilizzano la ricetta per confezionare dei biscotti da vendere dapprima a domicilio e poi in una pasticceria tutt’ oggi attiva, la Maison des Soeurs Macarons. Ai biscotti viene dato il nome di “Macarons de Nancy” ed è inutile dire che la città francese rivendichi di aver dato i natali ai dolcetti. Anche nel corso del pranzo di matrimonio tra Luigi XIV (“il Re Sole”) e Maria Teresa d’Asburgo, tenutosi nel 1660 a Saint-Jean-de-Luz, i macarons riscuotono un successo enorme. All’ epoca, però, sono molto diversi da come li conosciamo oggi. L’idea della doppia meringa e della crema al centro appartiene a Pierre Desfontaines: nel 1930, il nipote di Louis Ernest Ladurée – fondatore della celebre pasticceria parigina battezzata con il suo cognome – unisce due mezze cialde con uno strato di ganache al cioccolato. Il macaron nell’ attuale versione nasce ufficialmente, e da quel momento in poi viene considerato il capolavoro per eccellenza della “patisserie française”.

 

 

 

 

“Fashion Confidential”: dietro le quinte della moda con Mariella Milani

Un ritratto fotografico di Mariella Milani (foto © Simona Filippini)

In TV, al Tg2, incastonati tra le notizie di cronaca, sport ed economia, spiccavano i servizi dedicati alla moda: erano piacevoli parentesi, preziose oasi di evasione dove una voce fuori campo commentava, con garbo unito a una sottile arguzia, le creazioni più sublimi proposte dai couturier e i look di volta in volta chic, minimal o eccentrici che sfilavano in passerella. Quella voce, inconfondibile, apparteneva a Mariella Milani, giornalista e critica di moda che vanta una carriera di ben 33 anni in RAI. Per me, televisivamente parlando, dire “fashion world” e dire “Mariella Milani” sono ancora oggi un tutt’uno. Adoravo il suo eloquio, la sua narrazione; il suo modo di raccontare la moda che risultava coinvolgente per qualsiasi tipologia di spettatore, dall’ “archetipa” casalinga di Voghera ai più quotati esperti del fashion system. Con lei, quel mondo spesso considerato effimero, esclusivo, distante dalle esigenze della gente comune, si calava felicemente nella realtà quotidiana. La Milani era in grado di esaltare l’ eccellenza sartoriale di un abito e, al tempo stesso, di illustrare con bonaria ironia certe eclatanti stravaganze. Inutile dire che il pubblico televisivo, perlopiù ancorato al concetto di portabilità dei capi, la venerasse. Questo suo tipo di approccio, che contribuiva senza dubbio ad avvicinare la moda alle masse, probabilmente scaturiva da un background professionale che aveva incluso ruoli di conduttrice del Tg2, cronista d’assalto, inviato speciale, capo redattore, autrice di reportage…Settori molto lontani dalla moda ma quanto mai contigui alle problematiche sociali, agli umori della gente. Un’ esperienza culminata con “Diogene”, la sua, rubrica quotidiana che la vedeva nelle vesti di paladina dei diritti dei consumatori. Al “fashion”, la Milani è approdata nel ’94 e sarà lei stessa, nella conversazione che segue, a raccontarci in che modo. Va detto che, da allora, il suo amore per la moda (seppure mantenendo sempre un occhio critico) si è elevato a livello esponenziale. Oggi del “regno delle passerelle” parla su Instagram, dove organizza dirette, dialoghi virtuali con i protagonisti del Made in Italy e con le influencer più significative, cura speciali rubriche incentrate sui capi cult, su mitici designer e sulle icone di stile. Ma oltre ad occuparsi di moda sul suo feed, Mariella Milani ha deciso di approfondirne il mondo: ce lo presenta in un volume, “Fashion Confidential“, pubblicato per i tipi di Sperling & Kupfer nel Febbraio scorso. La passione per il cinema dell’ autrice si riflette in tutti i capitoli, i cui titoli citano quelli di film pertinenti con l’argomento trattato; nelle pagine del libro, tuttavia, sono la moda e soprattutto il suo universo il nucleo portante. Perchè in “Fashion Confidential”, con estrema competenza e il consueto tono  tra l’ironico e il disincantato, di moda si parla a tutto campo: personaggi, eventi irripetibili (un esempio? La leggendaria sfilata di Fendi lungo la Grande Muraglia cinese), talenti eccelsi e mai dimenticati, ricordi personali e aneddoti, ma anche atmosfere, zone d’ombra, mood e modelli comportamentali si alternano in un pot-pourri ricco di sfaccettature. Ampio spazio, naturalmente, è dedicato al profondo mutamento che l’ avvento del Covid-19 ha imposto al settore. E’ un mondo in continuo divenire, il fashion world, e oggi lo è più che mai; gli influencer la fanno da padroni e la digitalizzazione si estende a macchia d’olio. Cosa pensa Mariella Milani di tutto questo? Lo scopriremo leggendo il suo libro o ascoltandolo, in versione podcast, ogni lunedì su Spotify Italy (qui trovate il link) e sulle principali piattaforme di podcast hosting. Intanto, però, godetevi questa brillante intervista che mi ha fatto l’ onore di concedermi.

Ha iniziato a raccontare la moda nel 1994, con la RAI, ma il suo background annoverava settori totalmente differenti: si è occupata di cronaca, di dossier, di difesa dei diritti del cittadino, e ha esplorato universi, come quello della criminalità organizzata, ben distanti dal glamour delle passerelle. Come ha vissuto questo totale cambio di rotta?

Ho iniziato quasi per caso, per una proposta che ironicamente definisco “indecente”. Mi occupavo di tutt’altro ma, come spesso accade in RAI, la mia redazione era stata chiusa e l’allora direttore del Tg2 Clemente Mimun volle affidarmi la moda perché la raccontassi con un tono dissacrante e ironico, adatto a un pubblico generalista. Confesso che inizialmente mi sembrava riduttivo, avendo affrontato mondi ben più insidiosi, ma con la curiosità di una bambina – che mi appartiene ancora oggi – mi sono buttata a capofitto in un’avventura assolutamente nuova.

La moda, comunque, non le era indifferente…Penso agli impeccabili tailleur Armani che amava indossare, di cui peraltro parla nel suo libro. Come e quando è scoccata la scintilla con il pianeta dello stile?

È iniziata esattamente quando, negli anni Ottanta, mi è stata affidata la conduzione dell’edizione delle 13 del Tg. Volevo apparire come una giornalista seria e affidabile e niente come una giacca o un tailleur di Armani, simbolo indiscusso del power dress, avrebbero potuto darmi l’autorevolezza che cercavo. Devo confessare che dilapidavo fortune nelle sue boutique…

 

L’ immagine che Mariella Milani ha scelto per il suo profilo Instagram e per il podcast di “Fashion Confidential”

Il suo debutto come giornalista di moda e di costume risale agli anni ’90, l’epoca d’oro degli stilisti-superstar, del boom del Made in Italy e delle top model. Com’è stato immergersi in quel mondo ambitissimo dove il lusso, il sogno e la fantasia a briglia sciolta (basti pensare alle favolose creazioni di John Galliano per Dior Haute Couture) rappresentavano i vessilli supremi?

Non posso nascondere che all’inizio mi sentivo un’aliena catapultata in un universo sconosciuto. Mi chiedevo come avrei potuto catturare l’attenzione del pubblico del telegiornale, generalista per definizione… al professore universitario o alla “famosa” casalinga di Voghera non sarebbe certo importato nulla della lunghezza degli orli delle gonne ma, con ironia e un pizzico di irriverenza, sono riuscita a trovare il mio stile e il mio posto in quell’universo patinato e accattivante.

Quali eventi, personaggi o situazioni ricorda, di quel periodo, a titolo emblematico del suo splendore? Nel libro che ha scritto ne cita molti; ce ne menzioni qualcuno per chi non l’ha letto ancora.

Sicuramente la sfilata di John Galliano per Dior nel Foyer de l’Opera di Parigi nel 1998 è uno dei momenti più belli che ho vissuto nella moda. Eleganza e sontuosità senza eguali… e non a caso è anche uno dei prossimi racconti che farò nel Podcast di “Fashion Confidential”. Altra esperienza meravigliosa è stata la sfilata di Fendi sulla Grande Muraglia cinese nel 2007: ottanta metri di passerella per il primo – e unico credo – show visibile anche dalla Luna.

A proposito del suo libro, uscito di recente: “Fashion Confidential” ha come sottotitolo “Quello che nessuno vi ha mai raccontato sul mondo della moda”. Come è nata l’idea di esplorare un universo – che conosce ormai a menadito – da un’angolazione diversa, potremmo dire “da dietro le quinte”?

Per vocazione – e scelta – sono sempre stata una giornalista senza peli sulla lingua e il mio libro non poteva certo avere un approccio diverso… Volevo raccontare il mio punto di vista perché sono consapevole di aver vissuto anni che non torneranno più e se non avessi messo la mia esperienza nero su bianco, sarebbe andata perduta.

 

La copertina di “Fashion Confidential”, edito da Sperling & Kupfer

Pensa che il pianeta moda venga a tutt’ oggi mitizzato? E a suo parere, per quale motivo?

Assolutamente sì. La moda viene vista come un sogno, un mondo aspirazionale ma credo che questo succeda perché, in realtà, pochi sanno cosa ci sia davvero dietro le quinte. Non è tutto party e bling-bling, è prima di tutto un lavoro per milioni di persone e spesso ci si dimentica di questo aspetto.

L’ avvento del web, e soprattutto della pandemia di Covid, hanno stravolto radicalmente le coordinate del fashion system. Cosa ci aspetta in tal senso? La moda continuerà a mantenere il suo appeal o la digitalizzazione dilagante e le nuove priorità esistenziali lo ridimensioneranno definitivamente?

Panta rei, tutto scorre, diceva Eraclito… e, anche se gli anni che ho vissuto non torneranno , credo che nulla sia definitivo. Il mondo della moda è stato messo a dura prova negli ultimi anni e nell’ultimo periodo in particolar modo, ma spero – soprattutto per i giovani – che ci sarà un nuovo Rinascimento.

Nell’introduzione di “Fashion Confidential” scrive: “La vera moda è eccessiva, geniale, carismatica, ironica, sempre capace di reinventarsi, in bilico tra sogno e realtà”. Quali designer o Maison dell’era pre-pandemica assurgerebbe ad esempi di questa sua opinione?

Sicuramente Yves Saint Laurent, Valentino Garavani, Azzedine Alaïa, Cristobal Balenciaga, Rei Kawakubo… ma sono tanti per citarli tutti.

La sostenibilità e il concetto del “buy less, buy better” saranno i cardini della moda post-Covid?

Assolutamente sì, la sostenibilità è una priorità per la moda – e la società in generale. Non a caso ho dedicato a questo tema due capitoli del libro…

Cito ancora dal suo libro: “se sei una persona di valore ma non hai un potere reale o virtuale, hai poche speranze”, dichiara, rivolgendosi ai tanti giovani che vorrebbero dedicarsi alla comunicazione della moda. Eppure la moda è anche cultura, genialità creativa, fenomeno di costume, espressione. Privilegiare la visibilità a discapito del valore non rischia di relegarla allo stereotipo che la associa unicamente all’ apparenza, all’effimero?

Al di là di rischi e stereotipi, purtroppo questa è la realtà e non si può fingere di non vederla. Posso dire, però, che negli ultimi tempi si stanno riscoprendo il valore della qualità e della competenza e questo non può che essere un bene anche se, al primo posto, per emergere nella moda è fondamentale avere le relazioni giuste.

 

 

La moda è una geniale combinazione di arte e marketing. Oggi, tuttavia, i vari influencer hanno pressoché soppiantato la figura del giornalista, il web ha spodestato la carta stampata e molte riviste si vedono costrette a chiudere i battenti. Cosa pensa di questo fenomeno?

Analizzando il grande successo raggiunto, attraverso i social, da influencer e blogger – diventati i nuovi brand ambassador – ho riflettuto su una parola: democratizzazione. Credo siano da ritrovarsi in questo bisogno, che era evidentemente impellente, le ragioni un tale cambiamento. Il digitale è stato una sorta di “tana libera tutti” e l’informazione classica non ha tenuto il passo con l’evoluzione degli ultimi anni. È rimasta pressoché immobile, ancorata a un linguaggio e a strumenti quasi obsoleti e questo ha fatto sì che perdesse terreno.

Che consiglio darebbe a un giovane che sogna un futuro nel giornalismo di moda?

Spesso mi viene chiesto come poter fare il mio mestiere ma la verità è che nemmeno io so rispondere. È un lavoro che si è fortemente evoluto e, come dicevamo, il digitale ha avuto un impatto non indifferente. Sicuramente un’esperienza all’estero potrebbe essere molto utile per capire da che parte sta andando il mondo e cosa aspettarci dal futuro e soprattutto avere uno sguardo più cosmopolita.

Nel suo libro non risparmia critiche, sempre benevole e ironiche, al cosiddetto “circo della moda”. Lo definisce “un universo (…) popolato da designer spesso isterici e narcisisti, modelle dive o trattate come numeri, buyer considerati star, star, stylist, influencer, giornalisti, fotografi e PR (…) occupati in funamboliche capriole per dimostrare di essere il perno della giostra. Non è tutt’oro quel che luccica?

Ebbene no. È ora di sfatare questo mito. (sorride, ndr)

 

 

Tra pandemia, cambiamenti climatici e emergenza ambientale, si preannuncia un futuro contrassegnato dall’ incertezza. Crede che un nuovo Rinascimento sia possibile, che la moda possa tornare ai suoi proverbiali fasti, o vede più impellente un mutamento radicale del sistema?

L’ultimo capitolo del mio libro si chiama “Il sipario strappato”, dal famoso film di Hitchcock. Ho scelto questo titolo perché, anche se non c’è futuro senza passato, gli anni d’oro che ho vissuto non torneranno e siamo difronte a un momento di grande cambiamento. Concludo con la frase di un visionario come Steve Jobs: “think different”, perché penso che la moda debba davvero iniziare a pensare in modo diverso.

Vorrei concludere questa intervista con una riflessione. La moda è, da sempre, espressione dei tempi: lo stile hippie, ad esempio, incarnava la nascita di un mondo nuovo e di nuovi ideali. Oggi, l’attenzione dei giovani si concentra prevalentemente sul marchio e sui modelli di sneakers che è imprescindibile avere. Dove finisce la moda e dove comincia l’omologazione? Non a caso, lei ha concluso il suo libro citando appunto lo slogan “Think different” di Steve Jobs…

Senza sapere quale fosse l’ultima domanda l’ho preceduta… credo che l’omologazione sia una delle cause della disaffezione dei consumatori a cui la moda doveva far fronte anche prima che scoppiasse la pandemia. Finché l’imperativo sarà esclusivamente vendere, continuerà a esserci sicuramente più omologazione che moda.