Il vin brulé, la bevanda del Natale e dell’Inverno

 

E’ il protagonista principale di ogni mercatino natalizio: il vin brulé, la famosissima bevanda calda a base di vino rosso, zucchero e spezie, riscalda e  promuove piacevoli pause all’insegna dell’euforia e della convivialità. Potremmo definirlo il drink più gettonato dell’Avvento, quando il freddo si fa intenso e nasce il desiderio di “sintonizzare” l’anima e il corpo con la magica atmosfera del periodo. Il nome “vin brulé”, in francese, significa letteralmente “vino bruciato”; per le sue caratteristiche, questa bevanda dapprima si diffuse nei più gelidi paesi europei. In seguito, l’usanza di bere il cosiddetto vino cotto si è estesa a livello mondiale. Le origini del vin brulé si perdono nella notte dei tempi. Pare che la sua ricetta sia stata elaborata nella Grecia antica; è ad essa che i romani si ispirarono per la preparazione di una bevanda a base di vino caldo, zafferano e miele che battezzarono conditum paradoxum. Alcune testimonianze su questo drink ci sono pervenute grazie a Marco Gavio Apicio, gastronomo e scrittore vissuto tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.: nel suo libro di ricette “De Re Coquinaria”, Apicio descrive la bevanda come un delizioso mix di vino caldo, spezie – tra cui risalta il pepe – e miele in abbondanza. Nell’antica Roma, la conditum paradoxum si soleva bere dopo i pasti per favorire la digestione.

 

 

 

L’ abitudine di consumare vini speziati coinvolse anche il Medioevo; all’epoca trionfava l’Ippocrasso, un vino fermentato aromatizzato con spezie e dolcificato con miele. Successivamente, il vino cotto divenne un must nelle zone flagellate dal clima rigido, come le Alpi, l’Italia Settentrionale e i paesi del Nord Europa. Con il passar del tempo, il vin brulé è andato affermandosi come bevanda invernale per eccellenza. Il suo consumo prosegue a tutt’oggi, e ogni stato o regione ha rigorosamente mantenuto la ricetta del vin brulé locale. Generalmente, infatti, per prepararlo si utilizza il vino rosso riscaldato dolcificato con zucchero e aromatizzato con spezie quali la cannella, i chiodi di garofano, l’anice stellato e la noce grattugiata. Per intensificare il sapore del composto si aggiungono fette o scorze di agrumi (arance, limoni o mandarini) e mele. A seconda delle zone, tuttavia, esistono molteplici varianti della ricetta.

 

 

Mentre in quasi tutta la Germania, ad esempio, il vin brulé è esclusivamente a base di vino rosso, in Austria e nel Nord Italia viene utilizzato anche il vino bianco. Nel Bel Paese si registrano differenze persino da regione a regione: in Veneto si chiama “vinbruè” e si prepara sostituendo il vino con lo Chardonnay o il Pinot bianco; per aromatizzarlo si opta per la mela, la cannella e i chiodi di garofano. Consumare “vinbruè” è una tradizione associata al “panevin”, le sere antecedenti all’Epifania, quando nel Nord-Est si usa accendere grandi falò propiziatori. In Romagna, e in particolare a Faenza, il vin brulé è il “bisò”: si realizza con del Sangiovese quasi bollente e si beve durante la “Nott de bisò”, all’imbrunire del 5 Gennaio. Il nome “bisò” pare derivare dall’ espressione “biì sò”, “bevete, su!” in dialetto romagnolo, ma altre teorie rimandano a “Bischoff”, in tedesco “cardinale”, alludendo alla specifica tonalità di rosso (rosso cardinale, appunto) del vino cotto.

 

 

Tra i paesi europei in cui il vin brulé viene consumato regolarmente troviamo la Germania (dove prende il nome di Glühwein), il Regno Unito (in cui è stato battezzato mulled wine), la Francia (patria del vin chaud) e la Scandinavia: in Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia e Svezia si chiama glögg ed è, tra l’altro, la bevanda tradizionale del giorno di Santa Lucia. Per affrontare il grande freddo, agli ingredienti classici del vin brulé sono stati aggiunti vodka e rum, cannella in abbondanza, zenzero, cardamomo, uva passa e mandorle pelate.

 

 

Ma qual è, esattamente, la gradazione alcolica del vin brulé? Con ovvie differenze determinate dal vino di base, rientra tra gli 11 e i 14 gradi. C’è da considerare, però, che l’etanolo evapora se sottoposto a temperature maggiori di 80°C; l’alcolicità della bevanda, inoltre, presenta variazioni legate sia al tempo che al modo di cottura. Va valutato poi un altro aspetto, parlando di questa bevanda natalizia: il suo effetto benefico. Il vin brulé vanta buone proprietà disinfettanti, corroboranti e riscalda istantaneamente il corpo. I chiodi di garofano possiedono virtù antibatteriche, mentre i tannini del vino hanno il potere di contrastare i virus; la scorza d’arancia è antibatterica, ricca di vitamina C e come tutti gli agrumi contiene esperidina, un potente antiossidante, e pectina, che protegge l’apparato gastrointestinale e facilita la digestione. Il vino cotto, insomma, è un efficace concentrato di proprietà salutari. Non è un caso che venga utilizzato persino per combattere i malanni stagionali!

 

 

 

La colazione di oggi: tornano le arance, un must autunnale

 

A Novembre, puntuali, tornano a ravvivare il grigiore con il loro colore vibrante. Un colore che ha preso spunto dal loro nome, perchè è proprio alle arance che si ispira l’arancione. Proveniente dalla Cina e dall’Asia del sud-est, il Citrus Sinensis (questo il nome botanico dell’arancio, una pianta appartenente alla famiglia delle Rutacee) venne importato in Europa dai marinai portoghesi. Secondo alcuni studiosi il suo ingresso nel Vecchio Continente risalirebbe al XV secolo, mentre altri affermano che l’albero approdò in Italia, più precisamente in Sicilia, molto tempo prima grazie ai romani e passando per la Via della Seta. Nel IX secolo furono gli Arabi a reintrodurre l’arancio nell’isola, quando ebbe inizio la conquista islamica della Sicilia. Non è un caso che un frutto siciliano chiamato “melarancia” venga citato in più d’un libro della Roma antica: i tomi sono datati al I secolo d.C. E sempre nella città eterna, un arancio che San Domenico piantò intorno al 1200 fa bella mostra di sè nel chiostro del convento di Santa Sabina; tuttavia, non se ne conosce la provenienza. E’ certo, invece, che il termine “portogallo” equivalga a dire “arancia” in diverse lingue, tra cui il rumeno, il greco, l’arabo, l’albanese e l’italiano del 1800. Peraltro, il frutto del Citrus Sinensis prende il nome di “portogallo” in molti dialetti della nostra penisola: ciò sembra confermare, almeno apparentemente, la diffusione ad opera dei portoghesi della pianta.

 

 

Ma veniamo alle caratteristiche di questo frutto, tondeggiante e tinto di un vivace color arancio. Ha una forma sferica, una buccia spessa e increspata; la dolcezza dei suoi spicchi, succosissimi, contrasta con accenti aspri che ne rendono ancora più intrigante il sapore. Le arance cominciano a maturare a Novembre, mese in cui vengono raccolte le prime varietà. Un periodo ideale, considerando la loro efficacia nel prevenire i malanni della stagione fredda. Iniziare la giornata con delle arance, anche in versione spremuta, è un’ottima idea: regalano energia e sono ricche di vitamina C, un noto rafforzante del sistema immunitario. In più, contengono pochissime calorie e un indice glicemico talmente esiguo da permettere anche ai diabetici di consumarle. Le loro virtù sono innumerevoli: oltre a racchiudere acqua in dosi massicce, le arance sono un’autentica miniera di fibre come la pectina, la lignina e la cellulosa, che accentuano il senso di sazietà e fanno sì che gli zuccheri e i grassi vengano assorbiti in quantità moderate. Il licopene, contenuto soprattutto nelle arance rosse, è un carotenoide dalle spiccate doti antiossidanti e antinfiammatorie; contrasta le patologie cardiovascolari, oculari e ossee (come l’osteoporosi). La vitamina C è un po’ il “marchio di fabbrica” di questo frutto: favorisce un adeguato assorbimento del ferro e del calcio, è un potente antiossidante e un toccasana per le difese dell’organismo. La vitamina A (o retinolo) mantiene in salute la pelle e gli occhi e assicura un buon funzionamento sia del sistema immunitario che del metabolismo. Le vitamine del gruppo B, essenziali per la produzione dei globuli rossi, tengono sotto controllo i livelli di omocisteina e si rivelano portentose per il sistema nervoso. Tra i sali minerali contenuti nell’arancia risaltano il ferro (imprescindibile per il benessere del’organismo), il rame (antiossidante efficacissimo contro le patologie cardiovascolari), il potassio (ottimo per la salute dei muscoli) e il calcio (benefico in particolare per le ossa, i denti e la coagulazione sanguigna). Le antocianine e i polifenoli, di cui l’arancia abbonda, sono degli importanti antiossidanti.

 

 

I benefici che apporta il consumo di arance, quindi, sono molteplici. La vitamina C contrasta le infezioni potenziando le difese immunitarie, le fibre regolarizzano i livelli di colesterolo, gli antiossidanti combattono i radicali liberi e mantengono sotto controllo la pressione poichè fluidificano il flusso sanguigno. I citroflavonoidi contenuti nell’arancia, inoltre, svolgono una valida azione nei confronti della fragilità capillare. E non è finita qui: incrementando la formazione dei succhi gastrici, il frutto del Citrus Sinensis facilita la digestione, mentre la funzione antiossidante degli antociani incentiva il metabolismo. Le fibre, infine, hanno virtù diuretiche e impediscono ai grassi e agli zuccheri di essere assorbiti troppo velocemente (con buoni risultati anche per la linea).

 

 

Dell’ arancia esistono molte varietà, ammontano a oltre 100. Le differenze principali possono essere ricondotte a due tipologie: arance dolci e arance amare (le prime le compriamo dal fruttivendolo, le seconde si utilizzano in ambito cosmetico e per la produzione di marmellate dal gusto particolare), arance bionde e arance rosse (la distinzione riguarda essenzialmente il colore della loro buccia). Qualche nome delle numerose varianti? Ci sono le Navel, le Tarocco, le Moro, le Sanguinello, le Belladonna, le arance alla vaniglia…Ma quel che ci interessa ora è come includere questo succoso frutto nella prima colazione.

 

 

La classica spremuta d’arancia è un toccasana, però prima di prepararla bisognerebbe osservare qualche accorgimento. Innanzitutto, non va mai bevuta a digiuno: l’acido citrico contenuto nel frutto potrebbe risultare difficilmente digeribile o provocare acidità di stomaco. Sempre per questo motivo, chi soffre di patologie gastriche dovrebbe evitare l’aranciata o perlomeno consumarla dopo qualche pasto, foss’anche solo un toast o un dolcetto. Le arance possono essere mangiate a spicchi o tagliate a fette, lo spunto ideale per una prima colazione coi fiocchi: arricchiscono il porridge e i pancake, diventano deliziosi biscotti (se volete strafare, immergetele nel cioccolato fuso). Con il succo, la polpa e la scorza di arancia si preparano dolci sfiziosissimi, dalle torte al pan d’arancio siciliano, dai ciambelloni alla crema di arancia passando per i muffin, il rotolo e le crostate. Cercate qualche ricetta? Cliccate qui. E dato che a Natale manca poco più di un mese, vi suggerisco di provare le scorze di arance candite: sono una ghiottoneria unica (qui la ricetta), anche in questo caso – volendo – da intingere nel cioccolato fuso per esaltarne al massimo il sapore. Se invece optate per una colazione essenziale e super salutare, puntate sulla marmellata di arancio spalmata sulle fette biscottate o  su una fetta di pane; è una prelibatezza “minimal”, ma dalla bontà garantita.

 

 

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La cornucopia: storia, leggende e miti legati al “corno dell’abbondanza”

Carel Van Savoyen, “Un’ allegoria dell’abbondanza” (1651)

Che cos’è la cornucopia? Considerata un emblema dell’iconografia autunnale, oggi è perlopiù associata al Giorno del Ringraziamento che si celebra in America. Le sue origini, in realtà, sono antichissime ed affondano le radici nel Vecchio Continente. “Cornucopia” è un nome che deriva dall’ unione dei termini latini “cornu”, “corno”, e “copia”, “abbondanza”: questo corno dell’abbondanza, non a caso, viene raffigurato come un grande cono che strabocca di frutta, fiori, verdura o monete d’oro. La simbologia, evidente, rimanda alla fertilità della terra, ai doni del raccolto, e al tempo stesso alla fortuna. Perchè la fortuna è la “condicio sine qua non” per ottenere un ricco raccolto. E se la nascita della cornucopia viene generalmente fatta risalire alla mitologia greca, non sono pochi gli studiosi che la ricollegano ad un periodo antecedente alla civiltà ellenica: una dea italica, la dea Abundantia, aveva infatti come simbolo una cornucopia che la accompagna in tutte le sue rappresentazioni. Abundantia era la dea che dava vita e nutrimento ad ogni creatura vivente, ma anche la dea della fortuna e della prosperità. Il suo aspetto era quello di una giovane donna con una corona di fiori sul capo e un mantello verde impreziosito da decori floreali color oro. Regge nella mano destra una cornucopia ricolma di frutta e nella sinistra un mazzo di spighe. L’enorme corno dell’abbondanza rimanda al corno degli animali dai quali si ricava il latte: i bovini e i caprini, all’epoca, fornivano un prezioso mezzo di sostentamento.

 

Jan Bruegel, “Allegoria dell’ abbondanza” (XVII sec.)

Ma Abundantia era anche una dea lunare, il cui corno simboleggiava il corno della Luna, e in quanto tale era dotata di un ricco patrimonio interiore; regnava sul mondo dei vivi e su quello dei morti, ecco perchè in molte opere viene ritratta con una cornucopia vuota. Capace di dare la vita così come la morte, la dea proteggeva gli antenati delle famiglie romane. Gli spiriti protettori degli antenati, infatti, i cosiddetti Lari, sono raffigurati con una cornucopia in mano proprio come la dea Abundantia. La dea, inoltre, propiziava il benessere economico familiare e la conclusione di affari redditizi e vantaggiosi, da qui la miriade di monete che straripano dal suo corno. Con il passar degli anni, la figura di Abundantia venne assorbita da svariate dee del Pantheon romano, su tutte la dea Fortuna (divinità del Caso e del Destino). La dea Fortuna e i Lari erano figure veneratissime nell’ antica Roma:  vegliavano sulla gens e favorivano la sua prosperità. Agli spiriti protettori degli antenati si dedicava addirittura un larario, una sorta di sacrario domestico. Tuttavia, va detto che la cornucopia non era un’esclusiva della dea Abundantia o della dea Fortuna. Anche Cerere (divinità delle messi e dei raccolti), Tellus (divinità della Terra) e Proserpina (dea dell’ agricoltura e dell’ oltretomba) venivano associate al corno dell’ abbondanza: ciò costutuiva l’emblema della loro natura trina, che inglobava cioè cielo, terra e inferi. La madre di tutti gli dei e delle creature viventi, come abbiamo già visto, aveva il potere di dare la vita ma anche di toglierla.

 

Noel Coypel, “L’abbondanza” (1700 ca.)

Passiamo ora alla mitologia greca, dove le origini della cornucopia si intrecciano a due suggestive leggende. La prima vede protagonista Zeus, ovvero Giove, re e padre di tutti gli dei dell’ Olimpo. Zeus nacque dall’unione dei Titani Crono e Rea. Crono, suo padre, un giorno ebbe una premonizione: in futuro, uno dei suoi figli l’avrebbe spodestato. Così, decise di divorare la sua prole per impedire che si verificasse l’evento che tanto temeva. Rea, però, scoprì il piano di Crono e riuscì a nascondere Zeus in una grotta dell’ isola di Creta. Lì lo lasciò con Amaltheia, una capra che lo crebbe e lo nutrì con il suo latte. Esistono versioni della leggenda secondo cui Amaltheia sarebbe invece stata la ninfa proprietaria della capretta che allattò Giove. Figlia del Titano Oceano, la ninfa utilizzava uno dei corni dell’animale per nutrire Zeus: lo riempiva di frutta, miele, latte e tutto ciò che serviva per sostentare il piccolo figlio di Crono. La leggenda vuole che quando Giove crebbe, e divenne il re degli Olimpi, volle dimostrare la propria gratitudine alla capra innalzandola nel cielo con il suo corno e dando origine alla costellazione del Capricorno (da “caprum”, capra, e “cornu”, corno). L’altra versione del racconto narra invece che Zeus, una volta cresciuto, staccò un corno della capretta e lo dotò di poteri straordinari: bastava esprimere un desiderio e si sarebbe riempito di tutto ciò che veniva anelato. Ecco quindi come nacque la cornucopia, il corno dell’ abbondanza, per la mitologia greca. Ma esiste una seconda leggenda sulla sua genesi.

 

Frans Snyders, “Cerere e Pan” (1615-1620 ca.)

Acheloo, divinità fluviale greca, aspirava a sposare Deianira, la bellissima figlia di Eneo, il re degli Etoli. Ma anche Eracle, nato da Zeus e Alcmena, aveva chiesto la sua mano. Tra i due pretendenti scoppiò una lotta senza esclusione di colpi; Eneo annunciò quindi avrebbe dato Deianira in sposa al vincitore dello scontro. Acheloo e Eracle combatterono furiosamente: Acheloo, essendo un dio, approfittò delle sue doti trasformandosi dapprima in un serpente, poi in un drago, infine in un uomo con la testa di bue. Ma fu proprio grazie a quest’ultima metamorfosi che Eracle ebbe la meglio. Quando Acheloo si scagliò contro di lui per trafiggerlo con le sue corna, Eracle le afferrò e gliene strappò una. Acheloo cadde a terra stremato, la lotta era stata vinta dal figlio di Zeus. Vedendo il corno a terra, le Naiadi (ninfe delle acque) corsero a raccoglierlo e lo riempirono di frutta, fiori e ogni ben di Dio. Da quel momento in poi, il corno divenne sacro e fu considerato un simbolo di abbondanza: era nata la cornucopia.

 

Jan Bruegel Il Vecchio, “Le ninfe riempiono la cornucopia” (1615)

Gki emblemi a cui è legata la cornucopia, vale a dire la fertilità, la prosperità e l’abbondanza, rimangono più o meno gli stessi in tutte le civiltà che l’hanno adottata. Gli antichi Celti la scolpirono su una statuetta che raffigurava Epona, dea dei muli e dei cavalli, ma anche tra le mani di Olloudious, un dio che i Romani equipararono a Marte. Pare che per le popolazioni celtiche la cornucopia si associasse anche alla guarigione, mentre i persiani la collegavano alle offerte sacrificali con le quali i re omaggiavano dei. Ovidio nomina la cornucopia nelle “Metamorfosi”, il suo capolavoro, citando la leggenda di Eracle (ribattezzato Ercole dai Romani) e Acheloo. A Roma, intorno al II secolo d.C., la cornucopia rimandava prevalentemente alla dea Fortuna e ai Lari. Nel Medioevo, invece, il corno dell’ abbondanza si arricchì di un’ ulteriore valenza: l’onore. Ovvero l’abbondanza combinata con il prestigio e con il valore. In una miniatura dell’ Evangelario di Ottone III risalente all’anno 1000, quattro personificazioni delle province imperiali omaggiano Ottone III, Imperatore del Sacro Romano Impero, con preziosi doni. Inutile dire che tra essi spicca una cornucopia.

 

Evangelario di Ottone III, miniatura della scuola di Reichenau (1000 ca.)

Durante il Medioevo, dunque, l’accezione di abbondanza a cui rimanda la cornucopia si amplia, fondendosi a doppio filo con il lustro delle persone e dei luoghi. Non sono rare, infatti, le personificazioni di città, aree geografiche ed elementi naturali ritratte accanto ad una cornucopia; da allora, il corno dell’abbondanza appare di frequente nella simbologia araldica e lo ritroviamo persino sulle bandiere di determinati stati, uno dei quali è il Perù. Oggi la cornucopia viene associata soprattutto al Thanksgiving Day degli USA e del Canada. Il perchè è evidente: questa festa celebra l’abbondanza del raccolto dell’anno precedente e le sue benedizioni. La cornucopia, di conseguenza, quel giorno fa bella mostra di sè accanto al tacchino, alle patate dolci, alla salsa di mirtilli e alla torta di zucca. Naturalmente, è colma di frutta e verdura di stagione: zucche, uva, fichi, mele, noci, pere, granturco, cavolfiori…Cosa simboleggia, ormai lo sapete a memoria. E voi, quando inserirete la cornucopia tra le vostre decorazioni autunnali?

 

La cornucopia, imprescindibile sulla tavola del Thanksgiving

Pietro Paolo Rubens, “Cerere e due ninfe” (1624)

Dettaglio del Salone dell’Abbondanza alla Reggia di Versailles

Maarten de Vos, “Abbondanza” (1584)

Luca Giordano, “Maria Anna di Neuberg, regina di Spagna, a cavallo” (1693-94)

Jan Bruegel Il Giovane, “Allegoria dell’ Abbondanza” (1625)

Jan van Kessel Il Vecchio, “I quattro continenti: Europa” (XVII sec.)

Pietro Paolo Rubens, “L’unione di Terra e Acqua” (1618 ca.)

Una cornucopia contemporanea

Agnolo Bronzino, “Allegoria della Felicità” (1564)

 

Immagini dei dipinti (Public Domain) via Wikimedia Commons

 

Ibiza: il fascino ineguagliabile della “Isla Blanca”

 

” Ibiza è pazzesca. La chiamano la Isla Blanca e la leggenda vuole che nessun ibicenco si permetterebbe mai di salutarti senza un sorriso. “
(Antonio Errigo)

 

Fu fondata dai Fenici nel 654 a.C.: la chiamarono Ibossim, era un porto importante nel bel mezzo del Mediterraneo. I Romani e i Greci si incantarono di fronte alle produzioni vinicole, ai giacimenti di marmo e piombo, alle folte pinete locali. Tant’è che furono proprio i Greci a dare a Ibiza e Formentera il nome di “Pitiuse” (dal greco “Pityûssai”, ovvero “ricoperte di pini”). All’epoca Ibiza, la più frizzante tra le isole che compongono l’arcipelago delle Baleari, era nota per la produzione di sale, lana, pesce secco o salato e salsa di pesce. Oggi, dire Ibiza equivale a “vita notturna”, “divertimento”, “clubbing à gogo”. Ma è veramente così? In realtà, la cosiddetta “Isla Blanca” è un’ isola estremamente versatile, dalle molteplici sfaccettature. Vanta un’ ottantina di spiagge di tutti i tipi, dalla più incontaminata alla più prettamente turistica, città pittoresche e intrise di testimonianze storiche, indizi della cultura hippie che incluse Ibiza, a suo tempo, tra le location cult del movimento…La Isla Blanca, soprattutto, sfoggia una natura rigogliosa e paesaggi mozzafiato: cale, baie e insenature si alternano lungo la sua costa frastagliata. I tramonti sono spettacolari, un’autentica attrazione turistica. Celebre è soprattutto il calar del sole che si ammira dalla baia di Sant Antoni, in colori intensi che esplorano tutte le gradazioni del rosso. E poi, certo, ci sono i locali: le discoteche iconiche, i ristoranti affacciati sul mare, i sunset bar, chiringuitos per tutti i gusti…ma ci arriveremo più avanti.

 

 

A Ibiza, innanzitutto, la natura riveste un ruolo molto importante. Il verde la invade: tutto merito del clima mediterraneo, caratterizzato da una flora eterogenea. Oltre alla macchia mediterranea, sull’ isola proliferano gli olivi, i fichi, i mandorli, le carrube, i cactus, le palme da dattero, ogni genere di albero da frutto. Non è un caso che nell’ entroterra siano disseminati agriturismi e tenute agricole in cui alloggiare. Sono sempre molto suggestivi, costruiti nello stile tipico dell’ isola, in linea con i valori eco e bio e all’ insegna dello slow food. A proposito di natura, è tassativa una visita al Parco Naturale di Ses Salines: si estende – per un totale di 14mila ettari – nel sud di Ibiza e comprende l’area nord di Formentera. Il Parco è un inno alla biodiversità del Mediterraneo, include una vasta tipologia di habitat sia terrestri che marini. I suoi fondali, completamente ricoperti della pianta acquatica Posidonia, nel 1999 sono stati decretati Patrimonio dell’Umanità UNESCO. Anche la fauna del Parco, naturalmente, è molto ricca: le specie di volatili incluse nell’area ammontano ad oltre 210,  tra le quali spiccano le aquile pescatrici e i falchi pellegrini. Il paesaggio spazia dagli stagni alle scogliere rocciose, dalle saline ai rilievi sabbiosi, ma ingloba anche bellissime spiagge ed isolotti: risaltano (per citarne solo alcuni) le spiagge di Sa Caleta e Ses Salines e gli isolotti des Freus e des Penjats.

 

 

“Natura” significa anche “genuinità”, artigianalità, gusto per il “fatto a mano”. Se cercate oggetti e souvenir speciali da portarvi a casa dopo il vostro viaggio, fate un salto al mercatino hippy di Es Canar: l’artigianato è un must in questo luogo iconico dell’ isola. E’ sorto nel 1973, quando l’ Hotel Club Punta Arabì strinse un accordo con gli hippie che avevano invaso Ibiza. I responsabili dell’ Hotel suggerirono loro di vendere ai turisti i prodotti che creavano artigianalmente o che acquistavano in giro per il mondo. La proposta fu accolta con molto entusiasmo, anche perchè all’epoca l’isola non era ancora una meta del turismo di massa. Dalle cinque bancarelle iniziali, il mercatino di Es Canar è passato alle 500 odierne. Se cercate abiti, gioielli, accessori e tutto quanto di più sfizioso possa esistere, delizie gastronomiche e birra artigianale comprese, dovete visitarlo assolutamente. Lo trovate ogni mercoledì da Aprile fino a Ottobre. Alcuni, tuttavia, preferiscono il mercatino hippie di Las Dalias considerandolo meno turistico: è aperto il sabato, ma nel periodo estivo rimane attivo anche di domenica e il lunedì e martedì si svolge in orario serale, dalle 19 all’ una. Las Dalias è fantasioso, variopinto, una gioia per gli occhi. Basti pensare che in estate raduna fino a 20.000 persone. Il mercatino è nato nel 1985 accanto all’ omonimo bar, un locale frequentato da artisti e musicisti di spicco. Nel 2015, le famiglie che lavoravano a Las Dalias erano già 350.

 

 

Mi accorgo di non avervi detto ancora qual è la lingua originaria di Ibiza. Nella “Pitiusa” si parla l’ “ibizenco”, una variante del catalano (diffuso nelle Baleari sotto forma di dialetto, ma diverso in ogni isola). Niente paura, però: lo spagnolo è la lingua ufficiale e l’anima cosmopolita dell’ Isla Blanca fa sì che si comunichi normalmente anche in inglese, tedesco e italiano. Continuando a focalizzarci sulla natura, è d’obbligo citare le principali spiagge. Se amate gli scenari selvaggi, raggiungete Aguas Blancas: è piuttosto nascosta, circondata su tre lati da imponenti scogliere sormontate da una fitta vegetazione. Il mare è cristallino, il fondale roccioso. Chi pratica lo snorkelling, qui trova il suo paradiso. Aguas Blancas è una spiaggia naturista, ma se il nudismo vi fa storcere il naso sappiate che non dovete necessariamente adeguarvi.

 

 

Sa Caleta è una spiaggia molto celebre, contraddistinta da uno straordinario ambiente naturale. La delimitano scogliere dal colore rossiccio e un mare limpido. Posizionate lateralmente alla spiaggia risaltano le pittoresche capanne di legno dei pescatori, mentre al centro, proprio affacciato sul mare, si estende il ristorante di pesce Sa Caleta: un must see imperdibile in tipico stile mediterraneo. Se invece amate Ibiza per il divertimento e le folli nottate che offre, Playa d’en Bossa è la spiaggia che fa per voi. Si presenta come un lunghissimo litorale sabbioso dove ci si può rilassare sugli esotici Bali Beach Beds a baldacchino o prendere il sole full time. Chi ama gli sport acquatici può praticarli tutti (o quasi) in attesa della movida serale: i chiringuitos e i beach bar si moltiplicano, come le feste in spiaggia,  e i più iconici club della nightlife sono a un passo di distanza. Qualche nome dei locali più in? Il famosissimo Pacha, l’Amnesia (indimenticabili i suoi schiuma-party), l’Ushuaia, l’Hi e, last but not least, l’esclusivo beach club Blue Marlin Ibiza fondato dall’ italiano Mattia Ulivieri.

 

 

La spiaggia di Ses Salines appartiene al Parco Naturale di Ses Salines ed ha tratti quasi tropicali: inserita in un panorama mozzafiato, esibisce una sabbia di un bianco abbagliante e un mare terso. Dietro la spiaggia è situato un fitto bosco di conifere.

 

 

Vediamo ora quali sono i centri abitati più interessanti da visitare a Ibiza. Eivissa, la capitale, concentra in sè i due volti principali dell’isola: la scatenata vita notturna e la storia, gli scorci panoramici, la suggestività. Marina Botafoch e Ibiza Nueva sono i due porti turistici dove stazionano gli yacht dei Vip. Le star che approdano a Ibiza provengono da tutto il mondo e la maestosità dei loro yacht (in certi casi simili a castelli galleggianti) lascia sbalorditi. In queste zone della città, ovviamente, si susseguono i ristoranti stellati, le boutique dei grandi marchi, caffè e bar di assoluto prestigio. E’ qui che trovate il Casinò, ma anche locali e club ultra-luxury come il Lìo, il Club Chinois, il Pacha e il Blue Marlin.

 

 

Dalt Vila (ossia “città più alta”) è invece il centro storico di Eivissa, una splendida testimonianza dei popoli e delle culture che nei secoli si sono avvicendati sull’ isola: dai fenici ai romani, dai cartaginesi agli arabi e  ai catalani. Dalt Vila è arroccata su un monte. Uno dei suoi segni distintivi è rappresentato dalle mura difensive che nel Rinascimento fecero costruire re Carlo I e Filippo II di Spagna per proteggerla dagli attachi dei francesi e degli ottomani. La città alta consta di un labirinto di viuzze tortuose e acciottolate che rivela vedute panoramiche di rara bellezza: il percorso in salita è ricco di bastioni e ampie terrazze da cui godersi la visuale. Al centro storico si accede tramite una porta cittadina posta alla fine di un ponte levatoio in pietra. Il Portal de Ses Taules permette di raggiungere Plaza de Vila,  la piazza principale di Eivissa; da lì è possibile inoltrarsi nell’ intreccio di stradine che progettò Giovan Battista Calvi. Dalt Vila non manca di ristoranti iper suggestivi: tra i suoi bastioni e nei luoghi panoramici si cena a lume di candela, godendo della splendida vista del Mediterraneo, seduti su enormi cuscini posizionati sui gradini acciottolati…Non perdetevi la Cattedrale di Nuestra Senora de las Nieves, la Chiesa del Hospitalet, il Castello Almudaina e il Museo d’Arte Contemporanea, famoso a livello mondiale.

 

 

Sant Antoni de Portmany è una città tipicamente turistica, meta delle orde di giovani che approdano a Ibiza in cerca di una scatenata vita notturna. La denominazione “Portmany” proviene dal latino “Portus Magnus”: un riferimento alla baia del luogo, che fungeva da grande porto naturale. Nata come villaggio di pescatori, negli anni ’50 la città ha iniziato a popolarsi di hotel e resort di ogni tipo. Chi cerca la movida la trova qui, ma a Sant Antoni si può ammirare anche il più bel tramonto dell’ isola. Basta raggiungere il Sunset Strip, percorrendo il lungomare a partire dal porto: in questa zona si trovano locali notissimi come il Cafè del Mar, il Mambo, il Savannah, detti appunto “sunset cafés”. Ci si siede a sorseggiare tranquillamente un cocktail contemplando il sole che cala con le note dei ritmi di tendenza in sottofondo. A Sant Antoni, straripante di beach bar e club, si tengono inoltre i “boat party” più belli di sempre: feste in barca  organizzate rigorosamente al tramonto (e quando, sennò?).

 

 

Santa Eularia des Riu evidenzia uno scenario agli antipodi da Sant Antoni: è una città tranquilla, immersa nella natura, contraddistinta dalle tipiche abitazioni bianche ibizenche. Il lungomare è punteggiato da palme da datteri, nel centro urbano proliferano gallerie d’arte, eleganti boutique e ristoranti di grido. A Santa Eularia, infatti, potete gustare tutte le prelibatezze enogastronomiche dell’ isola. Nei paraggi della città, dove scorre l’unico fiume di Ibiza (chiamato proprio Santa Eularia des Riu), non mancate di visitare l’area dei caratteristici mulini.

 

 

Sant Josep de Sa Talaia, a circa 15 km da Eivissa, si trova a sud dell’isola ed è collocato ai piedi della montagna più alta di Ibiza, Sa Talaia appunto. Dal punto di vista architettonico, Sant Josep è rimasto lo stesso d’un tempo: le case sono bianche, edificate nel tradizionale stile ibizenco, abbondano le chiese e le torri difensive del 1600 e 1700. Le spiagge che circondano la città sono numerosissime, tutte baie deliziose e molto frequentate; Sant Josep, inoltre, è situato di fronte a una serie di isolotti tra cui il celebre Es Vedrà. Il centro urbano prolifera di negozi, ristoranti, bar, pizzerie, boutique, ma lo stile di vita è a misura d’uomo. Impossibile non visitare gli importanti i siti archeologici nei dintorni, l’insediamento fenicio di Sa Caleta e quello punico-romano di Ses Paises; da visitare tassativamente sono anche la grotta naturale di Cova Santa e il Puig de Missa, una collina da dove si gode il panorama più spettacolare di Sant Josep. Sulla cima della collina, affacciata su una valle in cui scorre il fiume Santa Eularia, è situata un’imponente chiesa seicentesca dichiarata Bene di Interesse Culturale. Accanto alla chiesa sorge il Museo Etnografico di Ibiza.

 

 

Voglio concludere le segnalazioni relative ai luoghi con un posto magico, l’isolotto di Es Vedrà. Svettante sul mare con la sua altezza di 380 metri, quest’isola rocciosa è posizionata di fronte alla spiaggia di Cala d’Hort (sulla costa sud-ovest di Ibiza). Le leggende che circondano Es Vedrà sono innumerevoli: c’è chi dice che la abitino le Ninfe del Mare, altri affermano che sia popolata dalle Sirene. Secondo alcuni sarebbe addirittura un residuo di Atlantide, il leggendario impero sommerso. Ma una cosa è certa. Pare che, nei suoi paraggi, i radar e le bussole magnetiche impazziscano rendendo impossibile la navigazione. Durante il tramonto, Es Vedrà si ammanta di un alone di puro incanto. Per ammirarla alla perfezione, è consigliabile osservarla da una delle torri difensive di Sant Josep de Sa Talaia: la Torre de Savinar.

 

 

Un finale all’ insegna dell’ happy hour per celebrare la vagheggiatissima Isla Blanca. Ecco alcune bevande tipiche che vi consiglio assolutamente di provare!  Le hierbas ibicencas vantano una tradizione bicentenaria e si ottengono mixando l’alcol con delle erbe aromatiche all’anice. Di solito, nei ristoranti offrono un chupito di hierbas a conclusione del pasto. Il tinto de verano è una sorta di sangria priva di frutta: viene preparata combinando il vino rosso con la gassosa, e si serve con molto ghiaccio. La frigola è un liquore al timo dal colore aranciato. E’ tassativo rinfrescarlo con del ghiaccio abbondante. Se poi cercate qualcosa da accompagnare al vino, optate per un pintxo ibicenco: è un delizioso stuzzichino realizzato, ad esempio, con dei gamberi all’aglio infilzati in un bastoncino e serviti su una fetta di pane.

 

 

Foto via Pexels, Pixabay e Unsplash

 

L’ idromele: il fascino nordico del “nettare degli dei”

 

Se pensate che la più antica bevanda alcolica sia il vino, forse non conoscete l’idromele. E’ un fermentato dalle origini remotissime e la sua storia è estremamente affascinante: i Celti e i popoli germanici lo consideravano sacro e lo definirono “nettare degli dei”, poichè a loro dire era un dono celeste; ma anche perchè, in effetti, al nettare era direttamente associato. L’ idromele viene ottenuto dalla fermentazione del miele, che combinato con l’acqua e con il lievito dà vita ad una bibita dal discreto tasso alcolico (oscilla tra i 6 e i 18 gradi). Il fatto che derivasse dal polline, che rimandasse alla laboriosità delle api e all’ acqua pura di sorgente lo collegava ai concetti di perenne rinascita e di trasformazione, paragonandolo a una potente linfa vitale. Non è un caso che, proprio presso gli antichi Celti ed i Germani, l’idromele fosse ritenuto la bevanda dell’ immortalità. Prima ancora che l’uomo si dedicasse alla domesticazione della vite, dunque, si diffuse l’ usanza di sorseggiare la raffinata bibita a base di miele. Il suo nome proviene dal greco “hydor”, ovvero “acqua”, e “méli”, “miele”, mentre il termine anglosassone “mead” risale all’ inglese antico “meodu”. Inizialmente, l’idromele si sorbiva soprattutto nelle corti e durante le cerimonie religiose. In particolare, è stato accertato che nel lasso di tempo compreso tra il IX e il I secolo a.C. i Druidi ne facessero uso in occasione delle ricorrenze che sancivano i cicli stagionali: Samhain (il Capodanno celtico), Yule (il Solstizio d’ Inverno), Imbolc (la nostra festa della Candelora), Ostara (l’Equinozio di Primavera), Beltane (la festa del primo maggio), Litha (il Solstizio d’Estate), Lughnasadh (il culmine dell’estate) e Mabon (l’ Equinozio di Autunno). Il consumo di idromele si integrava con i rituali effettuati durante quelle feste, giacchè il suo tasso alcolico favoriva l’alterazione degli stati di coscienza e facilitava il contatto con il divino. Per i Celti, il “nettare degli dei” possedeva un valore simbolico potentissimo. Recipienti con depositi di idromele sono stati rinvenuti nei sepolcri di svariati principi vissuti tra il VI e il IV secolo a.C.: di questa bevanda pregiata, infatti, gli aristocratici facevano scorta per portarla con sè anche nel Sidh, l’ Oltretomba celtico. 

 

 

Gli appassionati di cultura Vichinga e di mitologia norrena sapranno già che l’idromele (chiamato mjöðr nelle lande del Nord) riveste un ruolo molto importante per il mondo scandinavo precristiano. Le leggende lo fanno risalire alla capra Heidrun, che racchiudeva idromele nelle sue mammelle, e raccontano che era la bevanda più amata dal dio Odino e dagli Asi, gli dei nordici che governavano il cielo. Sempre secondo la mitologia norrena, per impossessarsi dell’ idromele Odino si tramutò di volta in volta in serpente e in aquila, mentre Thor, il dio del tuono, riuscì a impadronirsene strappandolo ai giganti. Un’ altra leggenda ancora vede protagonista il vate Kvasir. Costui, durante un viaggio intrapreso per erudire il popolo, una notte pernottò presso l’ alloggio di due fratelli nani, Fjalarr e Galarr. I nani lo uccisero, versarono il suo sangue in delle coppe e aggiunsero del miele per addolcirlo. La fermentazione prodotta da quella miscela diede vita all’ idromele, una magica bevanda che conferiva il dono della saggezza e della poesia a chiunque la assaporasse. Adesso, una piccola curiosità: sapete da cosa deriva la locuzione “luna di miele”? Secondo una tradizione medievale, ai neo-sposi si usava regalare idromele in una quantità sufficiente per un mese lunare; il calendario gregoriano fu infatti introdotto solo nel 1582. Scopo di quel dono era favorire la procreazione: la coppia, nelle prime settimane di nozze, avrebbe beneficiato della prodigiosa energia che l’ idromele infondeva. Da qui “luna”, ovvero “mese lunare”, e “miele”, come l’ ingrediente base della bevanda.

 

In questo pub svedese, a Gamla Uppsala, si può bere idromele in speciali corni potori “Vichingo style”

Le origini dell’ idromele si perdono nella notte dei tempi. Numerose testimonianze ne attestano l’esistenza già nell’ antico Egitto (circa 2000 anni a.C.), presso i Greci e presso i Romani. Persino il culto di Dioniso, antecedente all’ inizio della coltivazione della vite, veniva originariamente associato alla bevanda: il dio greco del vino e della vendemmia intreccia la sua storia mitica con quella dell’ idromele. Non a caso, si usava far fermentare il miele e l’ acqua che lo compongono in un sacco di pelle di toro, animale di sovente identificato con Dioniso. Va precisato che l’ebbrezza donata dall’ idromele era notevole;  bastava aggiungere del miele durante la fermentazione per conferire la massima gradazione alcolica alla bevanda.

 

“Cup of Honey Drink”, 1880 circa. Dipinto conservato nel Donetsk Regional Museum of Art in Ucraina

L’esistenza dell’ idromele nell’ antica Roma è attestata nei libri di Columella (dove un intero volume, il dodicesimo, è dedicato ai vari modi di preparazione del “nettare degli dei”) e di Plinio. Tuttavia, la “bevanda dell’ immortalità” non rivestì mai un’ importanza pari a quella che aveva assunto nell’ Europa del Nord: il miele era molto più costoso rispetto al vino e il cristianesimo decretò il decisivo trionfo di quest’ ultimo, che utilizzava durante la liturgia eucaristica, rispetto al “pagano” idromele. 

 

Foto n. 2 e n. 3 (dall’ alto): n. 3 via Madison Scott-Clary via Flickr, CC BY 2.0, n. 4 by Marieke Kuijjer from Leiden, The Netherlands, CC BY-SA 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0>, via Wikimedia Commons

Equinozio di Primavera

 

Buon Equinozio di Primavera! Oggi, la Primavera fa il suo ingresso ufficiale. Giorno e notte avranno una durata identica – Equinozio deriva dal latino “aequus nox”, ovvero “notte uguale” – e il Sole, giunto allo Zenit dell’ Equatore, irradierà i suoi raggi perpendicolarmente rispetto all’ asse di rotazione terrestre. In sintesi, l’Equinozio rappresenta il preciso istante in cui il movimento della Terra attorno al Sole coincide con il posizionamento di quest’ ultimo allo Zenit. Ma l’ Equinozio non è solo astronomia: l’ arrivo della bella stagione è associato a miti, rituali e leggende che risalgono alla notte dei tempi. Non è difficile immaginare, infatti, che il trionfo della luce sul buio e il risveglio della natura abbiano assunto delle forti connotazioni simboliche presso le civiltà più antiche. In Mesopotamia, secoli e secoli orsono, l’ Equinozio di Primavera e il Capodanno combaciavano: rappresentavano entrambi un nuovo inizio. Nel mondo occidentale, dove un numero incalcolabile di popoli celebrava  i cicli della Natura con feste e rituali, il mito della Dea Persefone riveste un’ importanza fondamentale. Racconta la leggenda che Persefone, figlia di Demetra (la Dea della Madre Terra), venne rapita da Ade, il signore dell’ Oltretomba, che la portò con sè negli Inferi. Demetra ne fu così addolorata che minacciò di condannare la Terra alla distruzione, se sua figlia non avesse fatto ritorno.  Zeus ordinò quindi che fosse liberata. Ma quando Persefone riabbracciò sua madre, Demetra si accorse che era ormai una donna, non più la sua bambina. Allora, Zeus stabilì che Persefone avrebbe trascorso metà dell’ anno nel Regno dei Vivi, con Demetra, e l’ altra metà con Ade nelle profonde viscere della terra. Fu così che la natura divenne ciclica e che ebbero inizio le quattro stagioni. La Primavera celebrava, al tempo stesso, la natura che rifiorisce e il ritorno di Persefone, che riportava la vita e ripristinava il rinnovamento. In onore di Demetra e di sua figlia, nella Grecia antica si istituirono i Misteri Eleusini: si svolgevano da metà Febbraio a metà Marzo ed erano riti misterici di tipo iniziatico che accompagnavano gli adepti alla scoperta della Conoscenza, della Verità e dell’ Immortalità. Le due Dee, emblemi di fertilità e rinascita, si identificarono per sempre con la bella stagione. L’ Equinozio era una data cruciale anche per gli antichi romani, che proprio a Marzo (il mese dedicato al dio Marte, padre di Romolo e Remo) facevano iniziare l’ anno,  mentre i nordici Celti preferivano festeggiare la rinascita a Beltane, il 1 Maggio.

 

 

Al di là dei resoconti storici, comunque, ciò che conta è la valenza simbolica dell’ Equinozio di Primavera, chiamato Ostara dai popoli germanici (dal nome di Eostar, Dea della fertilità) e Alban Eiler, “Luce della Terra”, in lingua gallese. Alle connotazioni di rinascita e ritorno della luce si affianca quella di un’ unione cosmica tra divinità maschile e femminile: il Dio Sole e la Dea Terra si accoppiano, la loro fusione è sinonimo di vita. Un’ antica tradizione equinoziale prevedeva che si accendesserò dei falò in collina, la cui durata sarebbe stata direttamente proporzionale alla fecondità del terreno. L’ Equinozio rappresenta anche una svolta che ci riguarda personalmente, che coinvolge la nostra esistenza e la nostra interiorità. A Alban Eiler rinasciamo a nuova vita: è il momento di fare progetti, di concretizzare i sogni, di andare incontro ai sentimenti senza remore. Dovremmo sentirci un tutt’ uno con la natura che germoglia, sbocciare a nostra volta per seguire questo flusso rigoglioso e inarrestabile. L’ Universo è in armonia perfetta. Le ore diurne e notturne si equivalgono, il sole torna a splendere e la terra a rinverdirsi.

 

 

Ostara, inoltre, è il nome da cui deriva il termine Pasqua nelle lingue germaniche: in tedesco Ostern, in inglese Easter. Ciò rimanda all’ opera di sostituzione e di “riassorbimento” adottata dalla chiesa cristiana nei confronti delle ricorrenze pagane. Nel 325 d.C., il Concilio di Nicea stabilì di contrapporre le celebrazioni per la risurrezione di Cristo ai rituali in onore del riveglio della natura; la Pasqua, di conseguenza, fu fissata alla domenica successiva al primo plenilunio dopo l’ Equinozio di Primavera. A Ostara i popoli germanici inneggiavano alla Dea della fertilità con l’ accensione di un cero, emblema della fiamma dell’ esistenza, che veniva fatto ardere nei templi fino all’ alba. A proposito di Ostara, sapete quali sono i suoi colori? Tonalità pastello come il rosa, il celeste, il giallo, il verde. Suoi caratteristici simboli sono invece le uova, i nidi delle lepri, la luna nuova e le farfalle. Non vi ricordano un po’ le cromie e l’ iconografia tipicamente pasquali? Per concludere, alcuni elementi collegati al significato spirituale dell’ Equinozio: un’ audacia, un entusiasmo, una gioia di vivere rinnovati che portano al desiderio di abbracciare nuove svolte e nuovi progetti. La positività, l’ apertura nei confronti degli altri, l’ evoluzione, l’ incremento della consapevolezza di sè. Vi auguro di far vostri questi input, e che possiate trascorrere un Equinozio di Primavera assolutamente speciale.

 

John William Waterhouse, “Gather ye rosebuds while we may”, 1909

John William Waterhouse, “A song of Springtime”

John William Waterhouse, “Spring spreads one green lap of flowers”, 1910

John William Waterhouse, “Persephone”, 1912

 

 

 

Foto: quinta immagine dall’ alto via Sofi, “Ida Rentoul Outhwaite, “Spring””, from Flickr, CC BY-NC 2.0

Occhi puntati su Marte: stasera, due eventi imperdibili riguardano il Pianeta Rosso

 

Marte è, senza dubbio, il pianeta più mitico del sistema solare. Affascina l’ uomo sin dalla notte dei tempi, forse perchè – dopo Venere e Giove – è uno dei corpi celesti maggiormente visibili anche a occhio nudo. Chiamato “pianeta rosso” per il colore della sua superficie desertica, pare che 4 miliardi di anni orsono ospitasse mari, fiumi e laghi. Se oggi, infatti, la sua atmosfera è gelida e sottile, un tempo era molto più spessa, e si è sovente pensato che avesse permesso lo sviluppo di qualche forma di vita. I Greci e i Romani, attratti dalla sua tonalità rutilante, associarono subito il pianeta ad Ares e a Marte, il dio della Guerra, mentre ad Aristotele bastò notare un suo transito alle spalle della luna per confutare i cardini del geocentrismo. Galileo Galilei, nel 1609, fu il primo ad osservarlo attraverso un telescopio, e Giovanni Schiaparelli (lo zio astronomo della stilista Elsa) creò una sua accurata mappa alla fine dell’ 800. Dagli anni ’60 del XX secolo, svariate sonde hanno raggiunto Marte con l’ intento di esplorarne il terrirorio. Mariner 4 della NASA, nel 1965, fornì le prime immagini ravvicinate del “pianeta rosso”: mostravano crateri frequentemente ricoperti di ghiaccio a causa delle temperature sottozero. L’ ipotesi che ci fosse vita su Marte, quindi,  cominciò a sfumare con delusione unanime.

 

 

Attualmente, sono ben tre le sonde in volo verso Marte: Tianwen-1 proviene dalla Cina, Hope dagli Emirati Arabi e Mars2020 dagli Stati Uniti. Con Mars2020 atterrerà Perseverance, il quinto rover lanciato dalla NASA, partito dalla base di Cape Canaveral lo scorso giugno. Il suo arrivo sul suolo marziano è previsto per le 21.55 (ora italiana) di stasera, un evento che verrà preceduto dall’ impatto di Perseverance con la rarefatta atmosfera del pianeta (pare che innalzerà la temperatura del suo scudo termico fino a 1300°C). Lo sbarco del rover, comunque, non sarà l’unico fenomeno a cui potremo assistere in serata. Marte, che per tutto il mese di Febbraio è osservabile a occhio nudo al calar del buio (basta seguire la sua rotta da Sud Ovest verso Ovest prima che tramonti a notte fonda), darà vita a una favolosa congiunzione con la Luna intorno alle 19. La Luna crescente, a un giorno del primo quarto, stazionerà insieme a Marte nella costellazione dell’ Ariete: l’ astro d’argento e il pianeta rosso si accingono a regalarci uno spettacolo assolutamente imperdibile. L’ atteraggio di Perseverance, altra news di spicco di questo 18 Febbraio, potrà essere seguito alle 20.45  in diretta streaming sul canale YouTube e sulla pagina Facebook della UAI (Unione Astrofili Italiani) grazie all’ iniziativa Mars Nights. Cliccate qui per avere maggiori informazioni sull’ evento on line. Rimarrete piacevolmente sorpresi leggendo che persino Dante Alighieri e David Bowie parteciperanno all’ appuntamento!