Nel bosco

 

“Sono allarmato quando capita che ho camminato un paio di chilometri nei boschi solo con il corpo, senza arrivarci anche con lo spirito.”
(Henry David Thoreau)

 

Inoltrarsi in un bosco in Autunno: un’ esperienza bellissima, magica, quasi mistica. Le fronde degli alberi sfoggiano colori come l’oro, il rosso, l’arancio, il porpora, le foglie morte scricchiolano sotto i nostri piedi. I raggi del sole filtrano a malapena nel fitto degli arbusti, dove la nebbia di frequente si insinua. Non è difficile fare incontri a sorpresa: uno scoiattolo, un cervo, una volpe…si apre una radura e appare uno stagno, una piccola cascata gorgoglia senza sosta, casette di legno ci si parano davanti, inaspettate, immergendoci in un’atmosfera di fiaba. Ma adesso andiamo, è il momento di iniziare il cammino.

 

 

 

 

Nebbia

 

“È l’incertezza che affascina. La nebbia rende le cose meravigliose.”

 (Oscar Wilde)

 

Le sere in cui cala, equivalgono a una certezza: il Solstizio d’ Inverno si avvicina a grandi passi. Dicono che oggi sia piuttosto rara, eppure a me non risulta. E quando avvolge la visuale nella sua nuvola, il mondo circostante si riempie di magia. Sarà che la nebbia, da sempre, evoca un universo onirico dove i rumori sono attutiti e le cose acquisiscono contorni indistinti, ma nessun altro fenomeno è in grado di creare una simile atmosfera sospesa. Arriva in pieno Autunno, si insinua lungo le vie e i viali ricoperti da tappeti di foglie. Fa la sua comparsa all’ imbrunire e nella notte si infittisce. Al sorgere dell’ alba, di solito, raggiunge il culmine del suo spessore: il paesaggio appare sfocato, confuso nello strascico dei nostri sogni; le coordinate di spazio e di tempo svaniscono. Camminando, procediamo navigando a vista. E’ come se esplorassimo un luogo sconosciuto, dove la realtà viene sostituita con dosi massicce di fantasia. Non è un caso che i panorami brumosi siano stati celebrati da molti registi, Federico Fellini su tutti. La nebbia lascia spazio all’ immaginazione. Nella sua coltre potrebbe celarsi qualsiasi cosa: nuovi scenari, creature fantastiche, una flora e una fauna mai viste. Lungo il tragitto, potresti imbatterti nelle sorprese più incredibili. Un po’ come quando Oliva (il fratello di Titta), in “Amarcord”, si dirige a scuola con passo spedito attraversando il bosco: tra gli alberi, resi spettrali da una fitta nebbia, all’ improvviso gli si para davanti un imponente toro bianco. E’ una visione inattesa, quasi un’ allucinazione, che lo fa fuggire via terrorizzato. Eppure, apparizioni spaventose a parte, il bello della nebbia è proprio questo. Il fatto, cioè, che riesca a far convivere realtà e sogno. Tutto diventa possibile, l’onirico si fa tangibile. E la vita, seppure per un breve lasso di tempo, assume i connotati di una fiaba la cui trama è tutta da scrivere.

 

 

La luce della Città

 

” D’inverno, come in nessun’altra città al mondo, calava la quiete sulle vie e sui vicoli tanto della Città alta, sulle colline, che della Città bassa, che si stendeva lungo le anse del Dnepr intirizzito, e tutto il rombo delle macchine si perdeva all’interno degli edifici di pietra, si smorzava e diventava un borbottio sordo. Tutta l’energia della Città, accumulata nel corso di un’estate di sole e temporali, si profondeva in luce. Dalle quattro del pomeriggio la luce cominciava ad ardere nelle finestre delle case, in tondi globi elettrici, nei lampioni a gas, nei fanali delle case con i numeri illuminati, e nelle vetrate a tutta parete delle centrali elettriche, che evocavano il pensiero del futuro elettrico dell’umanità, terribile e irrequieto, con le loro finestre a tutta parete dove si vedevano le ruote scatenate delle macchine che giravano senza posa, squassando fino alla radice le fondamenta stesse della terra. Scintillava di luce e traboccava luce, riluceva e danzava e baluginava la Città, nelle notti, fino al mattino, e al mattino si spegneva, indossava il fumo e la nebbia. “

Michail Bulgakov, da “La guardia bianca”

 

 

Andar per funghi

 

” Sono i giorni più belli dell’anno. Vendemmiare, sfogliare, torchiare non sono neanche lavori; caldo non fa più, freddo non ancora; c’è qualche nuvola chiara, si mangia il coniglio con la polenta e si va per funghi. Noialtri andavamo per funghi là intorno; Irene e Silvia combinarono con le loro amiche di Canelli e i giovanotti di andarci in biroccino fino a Agliano. Partirono una mattina che sui prati c’era ancora la nebbia; gli attaccai io il cavallo, dovevano trovarsi con gli altri sulla piazza di Canelli. (…) Quel giorno venne un grosso temporale, lampi e fulmini come d’agosto. Cirino e la Serafina dicevano ch’era meglio la grandine adesso sui funghi e su chi li cercava che non sul raccolto quindici giorni prima. Non smise di piovere a diluvio neanche nella notte. Il sor Matteo venne a svegliarci con la lanterna e il mantello sulla faccia, ci disse di stare attenti se sentivamo il biroccio arrivare, non era tranquillo. Le finestre di sopra erano accese; l’Emilia corse su e giù a fare il caffè; la piccola strillava perché non l’avevano portata a funghi anche lei.”

 

Cesare Pavese, da “La luna e i falò”